l'Antipatico

domenica 31 maggio 2009

una lettera che ti fa stringere il cuore


Questa lettera che ho deciso di pubblicare sul mio blog è stata scritta da un giovane ligure di 33 anni, di nome Aldo (il cognome non è importante) ed è stata pubblicata nella pagina delle lettere e commenti di un quotidiano di cui non faccio il nome, perchè lo avrebbe potuta pubblicare qualsiasi quotidiano, senza distinzioni e senza colorazioni politiche. E' una lettera lunga, lunghissiam, che richiede una bella mezz'ora del vostro tempo per poterla leggere. Io vi consiglio di farlo, poichè a mio giudizio la lettura di questa lettera vi aprirà il cuore e la mente, oltre agli occhi sulla società e sul tempo che stiamo vivendo. Non voglio aggiungere altro. Vorrei solo ringraziare questo ragazzo di Lavagna per averla pensata e per averla scritta. E quel giornale per aver avuto l'intelligenza di pubblicarla. Buona lettura. Egregia sinistra tutta, chi vi scrive è una specie di ragazzo di 33 anni incastrato nella società italiana di oggi. Dico specie di ragazzo perché come la maggior parte dei miei coetanei senza lavoro sono ancora in quella fascia sociale (non di età) che dovrebbe appartenere a persone più giovani. Sono precario, disoccupato, e pure preso per il culo da aziende varie ed eventuali che con il sogno di un impiego offrono corsi d'aggiornamento che tu paghi per poi vederti rispondere no. Sono uno dei tanti che se ne è andato dalle fabbriche perché non ne poteva più di vedere in busta paga 850-950 euro al mese con i turni di notte pagati sotto il 20%, senza contare gli straordinari considerati come giorno lavorativo normale. Sono uno dei tanti che lavorava il 25 aprile, il Primo maggio, che non sa cosa voglia dire giorno di festa, che non sa cosa vuol dire "cena con gli amci", uno dei tanti per cui il "divertimento" è diventato coltivare un sogno a casa, fra le quattro mura di un monolocale che paga 430 euro mensili e non capisce il perché deve pagare una cifra così esorbitante. Sono uno dei tanti che ha dato fiducia alla sinistra e si è visto tradito dal riciclaggio di ex democristiani, e che ha visto anche la sinistra parlare il politichese di Berlusconi, ha visto una sinistra così malridotta da doversi attaccare alla faccenda di "papi" e via dicendo. Ah, certo, so già che questa lettera non verrà neanche presa in considerazione, so già che cestinerete questa lettera col fare di chi ha di meglio di cui preoccuparsi che rispondere ad una persona il cui unico desiderio era quello di potersi costruire una vita con le proprie mani, e chi si ritrova ancora a casa con un padre pensionato, fregato dallo Stato, operaio per 40 anni e tesserato più e più volte del PCI, un uomo che ha fatto parte del movimento operaio, che si è fatto menare dai fascisti nel '68 mentre molti ex democristiani ora che sono nelle vostre fila (con reati più o meno palesati sulle spalle ancora da scontare) a quei tempi sedevano in poltrona e favorivano il potere delle ex camicie nere e via dicendo. Ancora in famiglia, con una madre depressa per la morte di sua madre, fatta morire per una piaga, opera di una malasanità di provincia indifferente e tragicamente reale che voi, probabilmente, neanche sapete che esiste. Con una sorella che, nonostante le buone intenzioni, lavora quando è possibile in questo stato ridotto allo stremo delle forze. Ed ora? Ed ora mi ritrovo incazzato nero, senza ritegno, e rimpiango il PCI e Berlinguer, la sua lingua schietta ed efficace, la sua faccia di bronzo nel dire quello che pensava, rimpiango quei politici che non si attaccavano al gossip per sradicare un maledetto dittatore dalla coscienza nera, perversa, maledettamente ultra fascista. Sono quasi arrivato a considerare Fini "un possibile politico di sinistra". Tutto si ribalta, e non è che non hai più certezze nella vita, non hai più certezze nella politica, nei partiti, in quella cosa che dovrebbe essere la prima e vera certezza di un Paese che si dice sia democratico. Mi chiedo perché sono qui, davanti ad un computer che non posso permettermi neanche di aggiornare perché mi manca persino il pane dalla bocca a parlare alla sinistra, che non mi risponderà mai, e che si dimenticherà presto, prestissimo, anzi, in meno di un nano secondo di questo sfigato di 33enne che abita a Lavagna in provincia di Genova con una famiglia che più che disastrata è letteralmente arrivata alla fine. Veramente alla fine. Non ci sono Dio, partiti, consolazioni di sorta che ci possono salvare, siamo finiti come famiglia, siamo finiti come persone, siamo finiti anche come esseri umani. Non credo che esista un singolo membro della sinistra tutta che avrebbe la faccia di venire a casa nostra a parlarci in faccia e dirci che cosa è questa sinistra e che cosa diavolo ha in mente per le famiglie come la nostra. Anche perché Veltroni forse ci ha già provato, con il risultato che oltre che prendersi il suo stipendio da politico ha mangiato pure a sbafo in giro per l'Italia. Cosa chiedo alla sinistra, a tutta la sinistra? Chiedo di essere chiari, di avere le cosiddette "palle" per correre dei rischi, di rischiare per noi come noi italiani di sinistra abbiamo sempre fatto per i partiti di sinistra, di rischiare di prendersi lo stipendio minimo come facciamo noi ma di mandare avanti questo Paese in modo onesto, di non appoggiare tutte le guerre solo perché siamo americani-dipendenti, come si è fatto vedere nel passato, di dare dei rifiuti intelligenti se si deve farlo, di non affondare più in silenzi di prodiana memoria solo perché la poltrona che abbiamo sotto il culo è comoda e ci rende. Insomma, di fare le persone di sinistra vere ed autentiche. Chiedo di appoggiare un'economia votata al risparmio energetico tramite le nuove energie rinnovabili, di fare una campagna ambientale seria, evidente, trasparente ed onesta riguardo alla raccolta differenziata. Chiedo una volta per tutte uno Stato laico, separato dalla Chiesa, e chiedo che se gli uomini di Chiesa e il Papa vogliono dare giudizi socio politici su quello che si dovrebbe o non si dovrebbe fare nel mondo allora che il Vaticano diventi uno Stato vero e proprio anche politicamente e che si vada a fare un bel giro alle Nazioni Unite, così potrà anche sparare le sue cartucce e dire la sua. Chiedo la dignità umana, il rispetto per chi ha lottato per voi sempre, comunque, ogni maledetto giorno della propria vita. In certi momenti, frustrato come sono, mi viene da pensare che forse i partiti esistono perché è davvero la gente ad averne bisogno, e che quindi, come un gruppo rock famoso deve tutto all'amore e alla perseveranza dei fan che li appoggiano, anche un partito, almeno all'80% deve tutto a chi si schiera con esso e a chi lo sostiene sempre anche nei momenti difficili. Ma ci vuole lealtà e trasparenza, diamine, non mi servono parole complesse per capire che ogni tanto si gira intorno all'argomento perché non si riesce ad avere la faccia di arrivare al punto vero dei problemi. In questo momento, ad esempio, mio padre è a lavorare, mentre dovrebbe essere seduto sulla poltrona a godersi un po' di ciclismo giusto perché è in pensione e se lo merita (e dire che lavora gratis perché si è già fatto anticipare soldi che non abbiamo neanche visto perché abbiamo debiti su debiti da pagare per poter mangiare la sera); e mia madre non dovrebbe trovarsi sdraiata sul letto a piangere Dio e a ricordare di quando sua madre era in vita mentre viene ammorbata nel cervello dai tronisti (che sparissero tutti in una nube puzzolente) di Maria De Filippi (sparisse pure lei e i suoi maledetti finti valori da schermo piatto); e mia sorella oggi non dovrebbe essere a cercare un secondo lavoro, a 29 anni potrebbe pure godersi 5 minuti in santa pace con qualche amica magari davanti ad un caffè. E forse io non avrei dovuto scrivere tutto questo, e forse non avrei dovuto perdere tempo prezioso che potevo sfruttare andando a cercare lavoro, ma già stamane ho ricevuto ben 18 "le faremo sapere", e dopo un po' uno ne ha abbastanza anche di questo. Ho pensato in questi giorni di farla veramente finita, di togliermi la vita per non pensare più a tutto questo, a questi maledetti soldi schifosi che stanno rovinando la mia vita piuttosto che darle una speranza. Ma ho pensato anche che un funerale costa, e che avendo già avuto 3 funerali che ci siamo dovuti pagare con sacrifici immani a causa dei soliti maledetti parenti serpenti, non fosse così necessario. In fondo, anche se nel profondo, un po' di rispetto per me ce l'ho ancora. Questo non è uno sfogo, ma è la verità sulla mia vita e quella della mia famiglia, qualcuno dovrebbe rispondermi, ma credo che nessun giornale, nessun partito di sinistra, nessun politico della vostra sinistra si prenderà la briga di pubblicare o rispondermi, o addirittura di avere un confronto diretto con questa realtà pietosa e a dir poco umiliante. In ogni caso, data la mia alta stima nei confronti di chi ascolta, nessuno escluso, porgo i miei più sinceri auguri perché la sinistra risorga di nuovo, governi in modo serio, efficace e concreto, e che possa un giorno migliorare anche la mia vita. Aldo.

sabato 30 maggio 2009

attendendo la caduta del Pifferaio


Non vorrei fare il menagramo (anche se in cuor mio lo spero vivamente) ma credo che il viale del tramonto sia stato inesorabilmente imboccato dal Pifferaio di Arcore. Non so ancora come e quando, ma la caduta è imminente. Potrà sembrare un paradosso o un ossimoro politico ma proprio a una settimana dalle elezioni europee sento che la fine del berlusconismo si avvicina a grandi falcate. E non soltanto per il caso Noemi. Proprio per uscire dall'angolo, in cui lo ha sospinto il caso della ex minorenne illibata partenopea, il premier ha dovuto alzare l'asticella del confronto politico; ha dovuto sdoganare nel dibattito pubblico due parole, fin qui bandite dalla comunicazione di Palazzo Chigi: minorenni e, soprattutto, dimissioni. La prima l'ha utilizzata per smentire rapporti piccanti con la ragazza campana, rispondendo indirettamente anche alle famose accuse di Veronica Lario ("Mio marito frequenta minorenni") che molti media avevano evitato di citare. La seconda è risuonata quando il Pifferaio ha spiegato che "se tutto fosse vero, mi dovrei dimettere subito". Affermazione che è al tempo stesso una sfida e un atto non dovuto, dato che nessuno (forse a parte Franceschini e Di Pietro) ha mai chiesto al premier di farsi da parte per l'affaire Noemi. Al punto che l'uscita pare rivolta più alla propria parte politica e a stroncare le voci di quanti hanno sospettato (qualcuno forse sperato, compreso chi vi scrive) che il dopo berlusconismo fosse meno lontano del previsto. Anche perchè non è certamente il silenzio delle ministre del PdL sulla questione sessuale (Gelmini esclusa, forse) ad aver turbato i sonni del Cavaliere. A impensierirlo molto di più, a mio modesto avviso, è la dissimulata indifferenza con cui alcuni pezzi grossi del centrodestra seguono l'evolversi di una storia che ha messo in difficoltà il presidente del Consiglio come in precedenza era accaduto forse solo in occasione dell'avviso di garanzia recapitatogli a mezzo stampa (leggi Corriere della Sera) durante il G7 di Napoli del 1994. La parola dimissioni testimonia dunque, per bocca del diretto interessato, quale sia la vera posta in palio di questo Noemigate, ovvero la possibilità che il governo del Pifferaio (che pareva un impero destinato a durare nel tempo) possa rivelarsi, come ha scritto l'Economist poche settimane fa, un gigante dai piedi d'argilla. Un vero incubo per il popolo del Pifferaio. Ma dall'altra parte una ghiotta opportunità, una sorta di liberazione per quanti aspettano da tre lustri che salti il tappo berlusconiano e si rimescolino le carte della politica nazionale. All'ombra del Pifferaio ter si muovono da tempo le ambizioni e i progetti di chi oramai morde il freno. C'è un leader autorevole e in cerca di consacrazione come Gianfranco Fini, che platealmente persegue un disegno di affermazione personale supportato da robuste idee e da una buona dose di coraggio (e il premier non ha certo dimenticato il contributo della fondazione finiana Farefuturo nell'esplosione del caso veline). Ci sono ministri, come Giulio Tremonti, che gestiscono un'agenda politica e un patrimonio ideologico in gran parte autonomi da Palazzo Chigi e non si sporcano le mani con l'attualità da rotocalco rosa. Non mancano ministri scontenti del ruolo e del portafoglio, come pure ufficiali di riserva che scalpitano in panchina e intanto mettono su tessere e correnti. Senza dimenticare un outsider come Pierferdinando Casini, esule pronto a tornare in forze nel campo che lo ha visto protagonista (non a caso il leader UDC ha chiesto al Pifferaio di rispondere alle 10 domande de la Repubblica sul caso Noemi). E poi non ci sono solo le trame di Palazzo. Un Pifferaio onnipotente non garba nemmeno ad alcuni tra i suoi grandi elettori, più o meno presunti. Non è gradito a quella Confindustria che per la prima volta ha visto un politico calare all'assemblea generale degli industriali guardando la platea dal basso verso l'alto, anzichè presentarsi col cappello come era abitudine nella Seconda Repubblica. Persino al congresso della CEI il gioco di critiche, mezze dichiarazioni e gaffes sulla questione morale ha dimostrato che tra i vescovi italiani c'è chi ritiene opportuno, pur senza sfiduciare il Pifferaio di Arcore, porre un argine ai suoi spazi di condotta. Anche chi non ha interesse ad auspicare dimissioni confida però che la nuova stagione del premier non si stabilizzi in una monarchia assoluta. Forse con le recenti e stantie dichiarazioni il premier ha esorcizzato (o crede di averlo fatto) lo spettro di una crisi di governo. Ma nello stesso tempo ha anche confermato come grazie alla partecipazione (programmata, non improvvisata come voleva far credere) alla festa di compleanno di una aspirante letterina si siano ufficialmente aperte le grandi manovre per il dopo Pifferaio.

venerdì 29 maggio 2009

stop al potere berlusconiano


Questo post non vuol essere certo un appello, ma in fondo in fondo forse lo sarà. Ogni giorno cerco con forza un nuovo stimolo, una ulteriore motivazione, un diverso pungolo per poter scrivere e disquisire del Pifferaio e delle sue malefatte, così come logica conseguenza della sua ostinata arroganza e della sua vergognosa superbia nel non voler ammettere che sottrarsi al giudizio dei magistrati (che costantemente attacca e denigra senza soluzione di continuità) comporta una negazione palese dell'uguaglianza di fronte alla legge da parte di tutti i cittadini di questo Paese. «Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il Parlamento...». C'è una certa assonanza di stile, forse anche d'intenti, fra il personaggio mediocre che condusse l'Italia nel baratro alla fine del Ventennio e l'ometto tronfio, arrogante e incolto, specialista in barzellette qualunquiste e in battute machiste, che oggi promette di stanare e schiacciare i «grumi eversivi tra le toghe». E' solo l'ultima delle tante smargiassate e delle allarmanti uscite ad opera del presidente del Consiglio che arriva subito dopo quella sul povero premier che non ha nessun potere e sul Parlamento da ridimensionare con una legge d'iniziativa popolare. Continuare a minimizzare, perfino a sinistra, mentre la stampa estera è sempre più allarmata, è senza dubbio indice di debolezza, e anche questo è un sintomo della deriva italiana. Trastullarsi come se niente fosse, a sinistra e al centro, con frasi fatte, vecchie liturgie, giochi di potere mediocri, pensando che la cosa più importante sia perpetuarsi come ceti politici e non riuscire a stringere un'alleanza tattica (come si sarebbe detto un tempo) neppure per fronteggiare il rischio palese dell'eversione della democrazia è, a mio avviso, una sorta di suicidio politico. Anche questi sono segni dello stato miserevole in cui versa il Paese. D'altronde, se il berlusconismo ha potuto allignare e infine imporsi (soprattutto grazie al controllo di gangli decisivi del potere economico e mediatico, ma anche grazie alla sintonia sentimentale con il ventre qualunquista e fascistoide del Paese) è anche perché poco si è fatto per sbarrargli la strada. Un segno di grave miopia politica è stata, e continua ad essere, la sottovalutazione del ruolo decisivo che in ogni svolta populistica e autoritaria giocano il discorso e le politiche sicuritarie e razziste, con la strategia del capro espiatorio. Aver compiaciuto e rilanciato retorica e pratiche sicuritarie quando si era al governo; aver continuato a non comprendere la centralità strategica della lotta contro il razzismo istituzionale e a favore dei diritti dei migranti e delle minoranze; aver loro negato un posto centrale nelle liste e nei programmi elettorali è stato come consegnare su un piatto d'argento le chiavi del potere nelle mani del Pifferaio. E anche questi sono errori che si pagano con l'arroganza eversiva di chi svillaneggia l'aula sorda e grigia e il potere giudiziario. Non vorrei ricordare male ma credo di aver scritto più volte che se il potere berlusconiano (con la sua cultura e con la pedagogia di massa) si è diffuso e radicato in questo modo è perché ha saputo interpretare e far emergere una delle tendenze che caratterizzano nel profondo la storia nazionale, la biografia del Paese, il suo immaginario collettivo: cioè quell'insieme d'individualismo, cinismo, debolezza del senso civico, disprezzo dei principi e delle regole, assenza di rigore etico e intellettuale, sul quale hanno scritto tante penne insigni. Non è l'unica tendenza, benché oggi appaia predominante. Per sollecitare l'altra, ora che siamo spinti verso il baratro, occorrerebbe un sussulto di coerenza, di rigore, di coraggio a livello di formazione politica. Occorrerebbe, insomma, proporsi e agire da opposizione. Basterà a tutto ciò Franceschini e il Partito Democratico? Non lo so, francamente. Ma lo spero. E fra poco più di una settimana avrò la risposta.

giovedì 28 maggio 2009

più che "papi" forse nonno...


Ho messo nel conto che qualche lettore di questo blog alla fine avrà la nausea per i miei reiterati post sul caso "papi" ma proprio mi riesce difficile (se non addirittura impossibile) staccare la spina e non seguire più la telenovela più intrigante del nuovo millennio. E a ben vedere, secondo il mio modestissimo parere, c'è una parola che fa da chiave di lettura di tutta questa boccaccesca vicenda. L'ha pronunciata chiara e tonda, intervistato dalla CNN, il Pifferaio di Arcore in persona: boomerang. E, solo a sentirla, molti già pensano a come schivare il colpo. Perché il premier ha avvertito: «Reagirò, spiegherò esattamente com'è la situazione e avrò ancora una volta tutti gli italiani (io direi tutte le italiane, tanto per restare in tema...) con me». Ed ecco che tra notizie vere, notizie inventate, versioni rimaneggiate e contraddittorie, supposizioni e illazioni, qualcuno comincia a chiedersi: «E se venisse fuori che Silvio è il nonno di Noemi?». Anzi, nel Transatlantico di Montecitorio qualcuno più che domandarselo sussurra: «Sta venendo fuori che è il nonno...». Sarà che l'arma da lancio australiana, il boomerang appunto, in politica fa parecchio paura e che nel Partito Democratico ora, e nei DS prima, quando si tratta di assumere un'iniziativa contro il Grande Comunicatore c'è sempre qualcuno che si alza in piedi e dice: «E se fosse un boomerang?». Ma, appunto, tra le tante voci incontrollate o al contrario messe in giro ad arte (il Pifferaio farà un messaggio a reti unificate? E allora perché non un intervento su YouTube?) gira pure questa. Venuta fuori, forse, semplicemente mettendo insieme qualche indizio. Dunque: Emilio Fede, subito blobbato, tira fuori una storiella autobiografica. Tanti anni fa, quando ancora non era un giornalista, era un giornalaio e gestiva un chiosco a Casoria. E tra le sue clienti c'era la nonna di Noemi Letizia. Con lei nacque un'amicizia simpatica, niente di che, «qualche incontro innocente, andavamo a ballare il liscio. Io la chiamavo yo-yo». E non è finita: perché Fede, in una magistrale interpretazione del ruolo di se stesso (più realista del re) arriva a leggere una poesia dedicata alla signora: «Yo-yo, dimme tutto quello che tu vò. Qunado passi ogni giorno, ogni mattina, ti guardo e sono pronto a fare tutto quello che tu vò». Un capolavoro che sarebbe rimasto inedito se il direttore del Tg4, come lui stesso spiega in modo alquanto serio, non avesse temuto che i segugi de la Repubblica se ne potessero impossessare: «Lo dico io, e ci mancava pure la nonna...». Fin qui, prendendo sul serio il gioco delle parti, si potrebbe addirittura pensare che Silvio stia coprendo una scappatella di gioventù del suo devoto cronista. E se invece Fede, dicendo il falso per dire il vero, stesse cercando di coprire il capo? Se così fosse, nella sceneggiatura costruita a Palazzo Chigi, già piena di buchi, si aprirebbe un'altra falla. Perché tra i fedelissimi del premier c'è qualcuno che al giornale fondato da Eugenio Scalfari (fraterno amico del Pifferaio, come tutti sanno) ha accennato a un'antica amicizia proprio tra la nonna di Noemi e il Cavaliere: i due si sarebbero conosciuti, sempre secondo i fedelissimi in questione, quando il futuro premier, allora ventenne, intratteneva gli ospiti sulle navi da crociera. E poi c'è quella storia del «papi», ripetuta l'altro giorno da Elio Letizia nella sua versione dell'incontro tra Berlusconi e Noemi quado lei aveva dieci anni: «Lui le disse: considerami il tuo nonnino. Allora intervenni io: nonno mi sembra ingeneroso, meglio che lo chiami papi». Sarà che la sceneggiatura è piena di buchi perché il team del premier è andato in tilt. Sarà che lo stesso team sta cercando di depistare i segugi. Sarà che Silvio e Noemi si abbracceranno in diretta da Maria De Filippi: «Nonno», «nipotina». Sarà che il PD ha lanciato male il boomerang, e ora teme di finire tramortito. Sarà quel che sarà, una cosa certa: ci siamo rotti le balle con la storia del nonnino e della nipotina. E che cavolo. Se dovete copulare fatelo. Ammesso e non concesso che il nonnino ce la faccia...

domenica 24 maggio 2009

un premier affaticato


Non risponde alle 10 domande che gli ha posto Giuseppe D'Avanzo su la Repubblica (http://temi.repubblica.it/repubblicaspeciale-dieci-domande-a-berlusconi/), accusa il colpo della condanna (e relative motivazioni) del suo amico Mills, soffre l'incompatibilità politica e di pensiero con l'alleato (per ora) Gianfranco Fini: a quanto pare non è proprio un bel momento per il presidente del Consiglio italiano. E come se non bastasse mancano solo due settimane al voto. Se fossimo in una gara ciclistica diremmo che la campagna elettorale imbocca l’ultimo tornante prima del rettilineo, quello del rush finale. Del traguardo non c’è l’ombra eppure non è lontano. Rispetto alla partenza qualcosa è cambiato. Ed è un cambiamento imprevisto fino a solo pochi giorni fa. Quando (ricordate?) tutto gonfiava le vele del Pifferaio di Arcore, tutto: persino una sua inedità capacità di manovra politica unita alla consueta abilità tattica e sapienza d’immagine garantivano al premier una sorta di immunità dalle critiche (esempio l’Abruzzo fra carisma, giuramenti e presenza fisica), presto però tramutatasi nel suo contrario (esempio, ancora l’Abruzzo, ma fra ritardi, contraddizioni e incertezze). Ho scritto abbastanza negli ultimi tempi (anche su tpi-back.blogspot.com) circa l’involuzione abruzzese e a proposito della stranissima traiettoria berlusconiana fra Casoria, Veronica e Mills. Molti blogger e tanti giornalisti, infine, hanno dato conto delle esternazioni al limite del caudillismo, dell’antiparlamentarismo, dell’istintivo sovversivismo del capo del governo. Qual è il risultato di tutto questo? Un accumulo di sensazioni tutt’altro che gradevoli per i nervi di un Paese già stressato dalla crisi, con un clima divenuto improvvisamente pesante, proprio come quello reale di una tarda primavera inopinatamente torrida. Nelle ultime ore, poi, è l’aria all’interno della maggioranza ad essere diventata molto strana. Come se, dinanzi a un Pifferaio esasperato e per questo tentato di rovesciare il tavolo, fossero scattati anticorpi istituzionali e politici, da Fini alla Lega. Il punto è che se poteva sussistere una sorta di divisione dei compiti (al Caimano il compito di governare, a Fini quello di apparecchiare il tavolo della politica), negli ultimi giorni la sensazione è che mentre il presidente della Camera dei Deputati continua a macinare chilometri, il capo del governo non adempia più al suo compito, che non governi più. Che tiri a campare. Se tutto questo è vero siamo passati da una fase nella quale un po’ tutti si limitavano ad attendere un responso delle urne del tutto scontato (il trionfo del premier) a un’altra in cui il medesimo trionfo già si può dire che non ci sarà affatto (due punti in più sono al massimo una buona performance, il trionfo è un’altra cosa: ha in sé qualcosa di definitivo che le cifre del PdL non diranno), non potendosi nemmeno escludere un risultato, rispetto alle previsioni di solo un mese fa, relativamente modesto. Inutile dire che questo ridà ossigeno al Partito Democratico, rianima le forze di opposizione, le spinge a non smarrirsi, a non rassegnarsi. Coraggio, facciamo quest'ultimo rush finale incollati alla ruota sgonfia del Pifferaio. Chissà che non avvenga un miracolo...

sabato 23 maggio 2009

prove tecniche di regime


Mi accorgo ogni giorno che passa quanto determinati segnali scaturiti da dichiarazioni, polemiche e quant'altro riferibile alle malefatte del Pifferaio, alla fine siano campanelli di allarme per la vita stessa della nostra tanto bistrattata democrazia. Non credo di esagerare se dico e scrivo che l'aria che tira (da tutte le direzioni) non mi piace affatto. Non so se sia ancora un prologo inquietante ad una manifestazione futura di regime, di dolce dittatura come qualcuno l'ha già ribattezzata, ma è certo che se non si cambia registro le cose si metteranno davvero male. Per tutti. Concordo con la lucida disamina che il mio amico e collaboratore DAVIDE ha intelligentemente esposto nel post scritto prima di questo: la cultura costituzionale del nostro Paese è sotto attacco. Oramai non possiamo più far finta di non vedere che si tratta di un aggressione che mira direttamente alle fondamenta del nostro vivere civile. Non è solo la naturale tendenza dei potenti a sfuggire alle regole del diritto e ai limiti che la divisione dei poteri loro impone. Si tratta di qualcosa di diverso e di più sottilmente distruttivo. E' una visione del mondo che tenta di affermarsi in Italia e per far questo deve sconfiggere il sistema istituzionale definito in Costituzione. Chiarissimi sono anche i modelli a confronto: da un lato (sotto assedio) quello proprio delle democrazie costituzionali occidentali. Dall'altro (promosso, idealizzato e immedesimato organicamente dal Pifferaio di Arcore) quello industriale con la cultura del fare che di democratico non può avere nulla, poiché non pensa che a produrre risultati, non certo a governare il demos. Lo scontro tra culture si è materializzato nel modo più plastico ed evidente. In nessun Paese democratico si sarebbe potuto immaginare di potere udire un esponente politico pronunciare la seguente frase: «Avete un governo che per la prima volta è retto da un imprenditore e da una squadra di ministri che sembrano membri di un Cda per la loro efficienza. Dobbiamo però fare i conti con una legislazione da ammodernare perchè il premier non ha praticamente nessun potere e dovremo arrivare a un disegno di legge d'iniziativa popolare perchè non si può chiedere ai capponi e ai tacchini di anticipare il Natale». A mio modesto avviso c'è tutto il conflitto in atto in questa frase del Pifferaio, che esprime il vanto per un governo che anziché rispondere al Parlamento si arroga il diritto di fare, perseguendo interessi di natura imprenditoriale e rivendicando una legittimazione esclusivamente di natura populista. Ma ciò che appare terribilmente inquietante è l'indicazione del nemico: l'organo della rappresentanza popolare, da abbattere poiché ostacola l'affermarsi del nuovo sovrano-imprenditore. Il nemico è dunque la democrazia per come c'è stata tramandata dal costituzionalismo moderno. Troppo spesso si sono sottovalutate le affermazioni allegre e poco meditate del Caimano, le cui battute sono diventate una sua personale strategia politica, facendo della smentita un'arte di governo. In questo caso non è così. L'attacco alla democrazia costituzionale esprime il più profondo senso del berlusconismo. Lo dimostra la conseguenza che egli stesso trae dall'analisi di un Parlamento da accapponare. Il Pifferaio di Arcore rivendica a sè tutti i poteri che la Costituzione affida al Parlamento. Per far vincere la cultura dell'impresa e per poter definitivamente sconfiggere la democrazia costituzionale. Credo sia venuto il tempo di dichiarare l'emergenza. Ci fu un tempo (http://it.wikipedia.org/wiki/Gloriosa_rivoluzione_inglese) in cui di fronte alle pretese eversive del sovrano un Parlamento seppe reagire, scelse un nuovo governante e affermò la democrazia costituzionale: correva l'anno 1689. Quella rivoluzione fu gloriosa. A noi che rimane? Almeno la speranza, credo...

venerdì 22 maggio 2009

Il falò della verità


In questi giorni mi trovo in Italia, e quindi inevitabilmente mi ritrovo faccia a faccia con quella che ormai non esito a definire la informazione manipolata, in stile Orwelliano, del nostro Grande Fratello Silvio Berlusconi. O meglio, l'informazione di questo Paese, che ormai risponde a criteri altrove inammissibili, di conformità all'anomalia, di giustificazione piu' o meno tacita e condiscendente dello stato di regime che è diventato lo stato normale dell'Italia. Gli unici spunti critici e di serio giornalismo di inchiesta e di ricerca di un barlume di obiettività, quando non della mera decenza, sono alcuni articoli e editoriali di Repubblica, che però vengono ormai tacciati dallo stesso Grande Fratello (inteso nella persona del premier ma anche, e conseguentemente dalla massa silenziosa e pecorona del popolo italiota), come rigurgiti stantii di antiberlusconismo rampante, quindi riprovevoli e inutili a fornire una informazione vera a propria. Altri episodi di informazione "decente", quali per esempio i dibattiti in Annozero o Ballarò, finiscono altresì inevitabilmente per apparire anch'essi meri attacchi alla solidità e alla bontà di questo grandioso, inossidabile e onnipotente governo. In tre settimane di permanenza in patria sono già allo stremo, costretto al susseguirsi nel teatrino dell' ex Belpaese a episodi davvero ignobili. L'ultimo, il comizio del ducetto alla platea di Confindustria, dove invece di proporre solidi argomenti di contrasto alla crisi, si libra l'ennesimo attacco a magistratura, parlamento e dove non perde occasione per l'ennesima battutaccia squallida sulle veline, per sdoganare con il trito trucco del presidente-simpaticone la sua pessima immagine di vecchio bavoso, che ha trovato nella precedente vicenda della ragazzina bionda una incredibile incarnazione. La cosa ancor più triste è che a ogni passaggio di questo vergognoso show, la platea applaude, in un moto -quando non di sincera approvazione- di tacita quiescenza. I dati che giungono dagli organismi statistici e istituzionali sono tutt'altro che incoraggianti, ma le uniche cose che riesce a dire il triste figuro sono che bisogna essere ottimisti e smetterla di fare le cassandre. Come dire che se uno smette di pensare al male, questo smette di esistere. Sulla vicenda Mills, gli unici argomenti che si controbattono a chi chiede come mai il nostro esimio presidente non abbia il coraggio di farsi processare sono gli stessi di sempre: 1)I giudici (nella fattispecie la Gandus, che già è stata avallata dalla Cassazione come attendibile) sono comunisti estremisti. 2) Silvio da anni è perseguitato da queste toghe rosse per fatti inesistenti o comunque ingiustamente. 3) Le leggi ad personam, ultimo il lodo Alfano, servono a preservare il nostro Deus ex Machina nell'esercizio delle sue funzioni di capo della collettività, delle quali non potrebbe occuparsi se invece dovesse passare il suo prezioso tempo in aule di tribunale. Quest'ultima fandonia poi l'ho sentita ripetere piu' volte, l'ultima dalla nuova bionda agguerrita portavoce del Pdl, che siceva proprio così, che altrimenti non avrebbe potuto fare del bene in Abruzzo, a Napoli o in altri luoghi dove la sua presenza abbia portato sommi benefici. Come mai nessuno pensa e dice che se da anni viene "perseguitato" da giudici, poliziotti e finanzieri, FORSE qualche dubbio di illegalità c'è? Tanto piu' se si pensa che i fatti per cui lo si cerca di processare appartengono a un tempo dove egli non era presidente, bensì un normale imprenditore. Un cittadino comune. Come è possibile che tutte queste accuse siano a priori "ingiuste", "inesistenti"? Chi lo dice? Lui? Sulla base di quali elementi? Insomma, tutto ciò solo per dire che ormai siamo alla farsa, gli argomenti portati sono ormai infantli, nemmeno un bambino potrebbe prenderli per attendibili o seri, mentre qua ormai quasi nessuno li mette in discussione. Nessuno si scandalizza per una vicenda come quella di Noemi Letizia, visto che per quanto possa essere normale nel mondo di oggi che un vecchio settantenne abbia una relazione con una ragazzina, se tutto ciò viene portato alla luce dei riflettori, e visto che si sta parlando del Presidente del Consiglio, lo scandalo dovrebbe quantomeno seppellirlo. Nessuno intacca la bontà dell'operato di un governo che si trova nell'occhio del ciclone di una crisi senza precedenti, ma anzi incrementa il suo gradimento. Franceschini ha detto che quest'uomo ormai ha agglutinato un consenso tale che si sente al di sopra della legge, del fatto di essere prima che Presidente del Consiglio un cittadino italiano. Io aggiungerei che sta incarnando la figura apoteosica dell'italiano, delle sue peggiori caratteristiche, in un crescendo di onnipotenza e di esaltazione della illegalità, della furberia e dell'opportunismo che tanto ci affascinano, che sarà davvero dura (per non dire quasi impossibile) fermarla. Sempre Franceschini dice che se alle prossime elezioni si arriverà al consolidamento di questo processo, tradotto in un distacco ancor maggiore dei punti percentuali tra i due principali partiti, sarà la rovina. Questo discorso, per quanto lo trovi oltremodo realistico, è dannoso per lui e il PD quanto balsamico per gli avversari. Perchè ormai la battaglia non si svolge più, come in una vera democrazia dovrebbe accadere, sulla base di programmi reali, delle personalità in lista, della reale percezione di come una politica possa essere migliore per il Paese e le sue caratteristiche, la sua attuale situazione. Ma si svolge bensì nel pantano del qualunquismo, del piu' bieco populismo, sulla base delle impressioni e dell'apparire (da lì vedasi il ruolo primario che il ducetto vuole dare alle veline), di chi racconta meglio quello che ci si vuol sentir dire (vedi ottimismo e rassegnazione, il nuovo slogan berlusconiano contro la crisi), di chi cavalca meglio gli istinti più bui di un popolo spaventato e insicuro (vedi nuova ondata istituzionale di razzismo e xenofobia). E sappiamo bene chi ha gioco facile su questo terreno, colpevole sempre e comunque la mancanza di alternative valide, solide e reali di un'opposizione sempre con meno forma e contenuti credibili. Le prossime elezioni, in questo senso, saranno davvero lo specchio di quello che aspetta l'Italia in un lungo futuro. Manca solo la benedizione della Chiesa.

sabato 16 maggio 2009

tutto va bene, madama la marchesa


La strategia della disinformazione continua a mietere vittime (fortunatamente di carta) grazie alle postazioni editoriali facenti capo all'ineffabile presidente del Consiglio. Non mi meraviglio che ciò accada, anzi resterei sorpreso del contrario. Meglio distrarre il popolino dalla dura realtà giochicchiando in prima pagina con le ristrutturazioni di Di Pietro e della sua magione romana con fattura intestata ll'Italia dei Valori. Meglio fare i test razzistici sulla prima pagina del giornalino di Feltri piuttosto che far sapere al Paese che il PIL (che per chi non lo sapesse fortunatamente non è una nuova formazione politica) sta crollando paurosamente facendoci sempre più impoverire. «Nella crisi il fattore più negativo è quello psicologico. Il nostro compito è quindi infondere fiducia e ottimismo». Ancora una volta il Pifferaio di Arcore illustra la sua ricetta per uscire dalla recessione. Non si tratta di investimenti pubblici, meno tasse o sussidi per chi perde il lavoro. Niente politica economica quindi. Bastano le parole, visto che per il premier tutto dipende dagli imprenditori che non rischiano e dagli italiani che non consumano abbastanza. Come se la crisi fosse solo nella testa di qualche cassandra. Ovviamente dell’opposizione, catastrofista e sfascista. Invece le cifre diffuse dall’ISTAT (http://www.istat.it/) stanno lì a testimoniare che la crisi c’è ed è durissima, proprio qui e proprio ora. Nel primo trimestre di quest’anno infatti il PIL è calato del 5,9 per cento, cosa mai successa da 30 anni a questa parte. Se si va a scorrere la serie storica, per arrivare a un crollo del genere si deve arrivare fino al 1980, annus horribilis per l’economia italiana. E cosa ancora peggiore, ciò significa che l’anno in corso potrebbe chiudersi con un prodotto negativo del 4,6 per cento, sempre ovviamente che la situazione non peggiori ulteriormente. L’atteggiamento berlusconiano quindi va a scontrarsi con gli aridi numeri dell’istituto di statistica, a più riprese confermati da Bankitalia e dagli istituti internazionali. Un tentativo di esorcizzare la crisi che, a ben vedere, è un po’ un classico del repertorio del presidente del Consiglio. Lo stesso a cui gli italiani hanno assistito per cinque lunghi anni, dal 2001 al 2006, quando neanche la finanza creativa di Tremonti riusciva ad arginare la deriva dei conti pubblici. Ma se sviare l’attenzione dai punti deboli dell’azione governativa è in fondo un’operazione quasi obbligata per ogni governante, non è accettabile invece che siano gli stessi documenti ufficiali del ministero dell’Economia a nascondere la recessione sotto al tappeto. I dati dell’ISTAT, infatti, smascherano la situazione troppo ottimistica descritta dalla Relazione unificata sull’economia e la finanza. Quella che è meglio conosciuta come l’ex trimestrale di cassa è uno dei report più importanti che via XX Settembre prepara ogni anno. Lì ci sono infatti le previsioni ufficiali dei tecnici del Tesoro sullo stato della finanza pubblica italiana. Tremonti l’ha presentata durante il ponte del primo maggio, forse per nasconderla un po’, in ritardo di più di un mese rispetto alla scadenza ufficiale, il 31 marzo. Ebbene, adesso risulta evidente come i numeri scritti nero su bianco aggiungano un po’ di zucchero a una realtà ben più amara. A cominciare proprio dalla caduta del PIL: la relazione parla di un – 4,2%, molto meno dei dati ISTAT e delle stime del Fondo Monetario Internazionale, già note e diffuse a fine aprile. Meno crescita però significa anche meno entrate, se non si aggiungono nuove tasse (e il Pifferaio non vuole) e se non si taglia la spesa (Tremonti non ci riesce). E meno entrate portano a un aumento inevitabile dell’indebitamento. La percentuale dell’indebitamento sul PIL del resto è un’altra di quelle cifre che rendono la trimestrale di Tremonti poco realistica: – 4,6%, rispetto a un più credibile – 5,4% dell’FMI. Un punto poi la differenza che riguarda il rapporto debito-PIL: 115,3 rispetto al 114,3 tremontiano. Insomma, se già queste cifre due settimane fa peccavano di ottimismo, con le ultime notizie di oggi sembrano ancora più lontane dalla realtà. Ora, il prossimo documento di finanza pubblica in agenda è il Dpef previsto per fine giugno. Tremonti si piegherà alla verità dei numeri? E' quello che staremo a vedere...

domenica 10 maggio 2009

trova la differenza




Chiariamo subito: questo blog non è certo diventato un'appendice on line del famosissimo settimanale che vanta i maggiori tentativi di imitazione (sto parlando naturalmente de La Settimana Enigmistica), ci mancherebbe altro. Ma ho voluto comunque fare un piccolo giochino, tanto per non perdere d'occhio le polemiche seguite alla possibilità che la Noemi Letizia possa avere cromosomi riconducibili al Pifferaio di Arcore. Ed eccomi così ad accostare le due foto: la prima, della riconosciuta figlia di primo letto del premier, Marina Berlusconi per l'appunto; l'altra, quella della neodiciottenne che chiama papi il Caimano. Non voglio e non posso dire la mia sua questa strana e complicata storia, piena di "bonifiche" prima di una festa di compleanno e di annunci alla platea televisiva di un incontro improvvisato e non programmato, quando oramai tutti hanno capito che l'ospite di riguardo era atteso con tutto il suo codazzo di G-Men e con regalino incorporato. Non voglio e non posso alimentare ulteriori voci e pissi pissi bao bao su questa strana faccenda, ma voglio solo farvi passare due minuti in spensieratezza con un innocente giochino. Allora, miei cari lettori, osservate attentamente le due fotografie a corredo di questo breve post e cercate di afferrare eventuali differenze tra le due pulzelle. Non si sa mai che qualcuno non se ne esca con qualche clamorosa rivelazione...

le bugie (del Pifferaio) hanno le gambe corte


Non vorrei essere irriverente e non vorrei urtare la suscettibilità di qualcuno (men che meno del nostro presidente del Consiglio, che è sempre nel mio cuore e nei mei pensieri...), ma questo mio post domenicale debbo iniziarlo con una citazione storica. La battaglia di Stalingrado è passata alla storia perché è stato il punto di svolta della seconda guerra mondiale: da quel momento in poi i tedeschi, che fino ad allora avevano raccolto vittorie ovunque, hanno imboccato la strada che ha portato in un paio d’anni alla disfatta. Fatte le dovute differenze, il paragone con quello che sta capitando al Pifferaio di Arcore, alle prese con il post-terremoto abruzzese, mi sembra tutt’altro che azzardato. Il premier, che sul dramma aquilano ha puntato tutte le sue fiches politiche, per la prima volta da un mese a questa parte si trova in grossa difficoltà. Passata la fase dell’emergenza, in cui ha potuto contare sull’efficienza della Protezione civile, ora si trova a dover far fronte agli impegni presi con il popolo abruzzese sulla ricostruzione. Ma per lui le cose non si stanno mettendo tanto bene. Al punto che è stato costretto ad annullare la già programmata (e sbandierata) visita a L’Aquila per annunciare la creazione di un centro di ricerca da parte dell’ENI. Nella cittadina abruzzese c’era solo il ministro dell’istruzione Gelmini, assieme all’amministratore delegato Scaroni, a presentare il progetto. Un’assenza inusuale, quella del Pifferaio, visto che martedì sera da Vespa aveva annunciato con orgoglio la sorpresa che presto avrebbe presentato a L’Aquila. Il fatto è che il presidente del Consiglio comincia a temere di essere accolto in terra abruzzese non più come salvatore della patria ma come politico chiacchierone e che non mantiene le promesse. Tutta colpa del decreto Abruzzo. O meglio, di quello che lì dentro non c’è. In primis, l’assicurazione che i contributi governativi agli sfollati possano coprire il cento per cento della ricostruzione delle singole abitazioni. Il premier vorrebbe che ci fosse, proprio come il capo della Protezione civile Bertolaso, che nell’audizione al Senato ha auspicato che almeno la ricostruzione della prima casa possa essere tutta a carico dello Stato. Ma a frenare è chi apre e chiude la manopola del rubinetto degli euro, ovvero Giulio Tremonti. Il ministro dell’economia non ne vuole proprio sapere di trattare gli abruzzesi alla stregua di tutti gli altri italiani che in passato sono stati colpiti da un terremoto. Per lui il contributo massimo deve restare al di sotto dei 150mila euro, come sottolineato in Commissione ambiente del Senato. Al massimo si può pensare a qualche soldo in più per chi dimostri, con una perizia giurata e firmata, di aver bisogno di più soldi. Posizione questa che il Pifferaio ha dovuto subire: in una conferenza stampa a Palazzo Chigi il premier ha confermato l’impostazione tremontiana, sconfessando Bertolaso. Un bel guaio, anche perché gli aquilani hanno cominciato a capire che le cose non stanno filando lisce. Così come lo ha capito il Partito Democratico, che ha iniziato ad attaccare il governo dopo un mese di fair play. Basta sentire il capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, secondo cui è inaccettabile che dopo tante promesse l’Esecutivo possa spaccarsi su un punto così delicato e dar vita ad un balletto di cifre sui fondi per la ricostruzione. L’offensiva democratica però non si ferma solamente alle parole. Proprio l'altro ieri sono stati depositati in Commissione ambiente del Senato oltre 250 emendamenti al decreto Abruzzo. Le modifiche vanno al cuore del decreto legge: contributo al 100 per cento per ogni abruzzese che ha la casa distrutta; sostegno finanziario anche per le seconde case; aiuti economici per le aziende in difficoltà, soprattutto per quelle che erogano luce e gas, che smaltiscono rifiuti e che in generale forniscono un servizio pubblico ma che oggi non possono più riscuotere le bollette; più poteri agli Enti locali. Insomma, il PD conta di mettere i contenuti in un decreto vacuo. Tremonti permettendo. Sperando che la disperazione del Caimano non giunga a fargli compiere gesti inconsulti...

sabato 9 maggio 2009

la giornata della memoria


Questo sabato 9 maggio 2009 ha avuto per me un sapore particolare, soprattutto mentre seguivo su Rai Storia lo speciale de la Storia siamo noi di Giovanni Minoli. Il titolo è già tutto un programma: Anni spietati (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=1979), un tuffo doloroso nel passato, in quel passato degli anni anni di piombo che chi vi scrive ha vissuto in prima persona, avendo partecipato alle assemblee, ai cortei, alle manifestazioni, agli scontri di piazza che hanno fatto da sfondo all'amaro capitolo della vicenda Moro, di cui proprio oggi si ricorda il 31° anniversario della sua cruenta e immotivata esecuzione da parte delle Brigate Rosse (e dello Stato). Rivedere certe immagini mi ha fatto rabbrividire ancora oggi. Sentire le voci strazianti dei figli o delle mogli o dei parenti degli uomini caduti sotto il piombo del terrorismo (rosso o nero non fa differenza) che rievocano quegli attimi atroci, ha provocato in me uno sconquasso e un dolore lancinante che ancora adesso che sto scrivendo queste poche righe non riesco a controllare. Ed è proprio per questo motivo che non riesco ad andare avanti e mi scuso con i miei lettori se mi fermo qui. Non prima di aver rivolto un commosso ricordo a tutti quelli caduti per mano del terrorismo.

giovedì 7 maggio 2009

caro papi...


Questa è la trascrizione integrale dell'intervista che la neodiciottenne Noemi Letizia (sì, proprio quella che può chiamare papi il presidente del Consiglio italiano) ha rilasciato il 28 aprile al Corriere del Mezzogiorno, esattamente al redattore Angelo Agrippa. Non voglio nè commentare nè aggiungere altro di personale. Voglio solo far conoscere, a quei pochi lettori di questo blog, da cosa è scaturita la famosa reazione della ormai ex moglie del Pifferaio di Arcore. Buona lettura. Il suo motto è «Amali tutti, ma non sposar nessuno». Noemi Letizia è una statuaria ragazza, di scintillante bellezza, figlia di un dipendente comunale di Napoli e di una bella signora di Portici, ex miss Tirreno, titolare di un negozio di cosmetici a Secondigliano che le fa da assistente-ombra. È per i diciotto anni di Noemi che Silvio Berlusconi è atterrato in gran segreto a Capodichino domenica sera e ha raggiunto il locale sulla circumvallazione di Casoria dove la festeggiata aveva radunato un centinaio di invitati. Nell’appartamento di via Libertà a Portici Noemi ci accoglie in cucina, benché si faccia trovare già pronta, in abito lungo e capelli sistemati a boccoli dal parrucchiere, per la trasmissione tv «Stelle emergenti», condotta da Francesca Rettondini, che tutti i martedì su TeleA la impegna come ballerina-valletta-showgirl. «È stata la sorpresa più bella, quella di papi Silvio».
Noemi, lei chiama ‘‘Papi’’ il presidente Berlusconi? «Sì, per me è come se fosse un secondo padre. Mi ha allevata».
Ha mai conosciuto qualcuno dei figli del Cavaliere? «No, mai. Anche se lui mi ripete che gli ricordo Barbara, sua figlia. Che ora studia in America».
Com’è nata la vostra amicizia? «È un amico di famiglia. Dei miei genitori». «Diciamo», interviene mamma Anna, «che l’ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista. Ma non possiamo dire di più».
Non capita a tutte le belle ragazze di ritrovarsi il presidente del Consiglio alla festa di compleanno? «Infatti, io alla mia non l’aspettavo. È stata una vera sorpresa. Né ho mai raccontato in giro di questa amicizia così forte con Papi Silvio. Nessuno mi avrebbe creduta. Ora, invece, l’hanno visto tutti...»
Cosa le ha regalato? «Una collana d’oro con un ciondolo».
Berlusconi è sempre stato presente alle sue feste di compleanno? «No, ma non mi ha mai fatto mancare le sue attenzioni. Un anno, ricordo, mi ha regalato un diamantino. Un’altra volta, una collanina. Insomma, ogni volta mi riempie di attenzioni».
Suo padre non è geloso? «Assolutamente no. È devotissimo di Papi Silvio».
E la mamma? «Assolutamente no», risponde la signora Anna, «e poi gelosi di chi, di Silvio?». In cameretta, incorniciata, anche una foto con dedica del premier: "Ad Anna con gli auguri più affettuosi - 20 novembre 2008 - Silvio Berlusconi».
Noemi, lei frequenta il quarto anno della scuola per grafici pubblicitari? «Sì, la Francesco Saverio Nitti di Portici e sono la prima della classe. La mia insegnante di italiano dice che ho inventato il "metodo letiziano": ho una grande capacità espressiva. Mi piace molto studiare».
Sa chi fu Nitti? «Nitti...Nitti... Lo abbiamo anche studiato a scuola».
Fu un grande meridionalista e presidente del Consiglio. «Ah, sì».
Cosa vorrà fare da grande? «La showgirl. Ho studiato danza, ho iniziato a 6 anni. Ora sto seguendo un corso per guida turistica: al Maggio dei Monumenti sarò impegnata nel Duomo di Napoli. Mi interessa anche la politica. Sono pronta a cogliere qualunque opportunità, a trecentosessanta gradi. Ma non scenderò mai a compromessi».
Sa che ha provocato una fiammante polemica il fatto che Berlusconi vorrebbe candidare letterine e donne dello spettacolo alle europee? «Fa bene, vuole ringiovanire. E poi se Papi pensa di fare così, stia certo che non sbaglia. Sceglie queste ragazze perché intelligenti e capaci. Non solo perché belle. Il mio motto in politica sarà: ‘‘Meno tasse, più controlli’’. Basta con i furbi che non rispettano le regole».
Lei vuole diventare showgirl e avviarsi all’attività politica. E lo studio? «Papi Silvio mi ripete sempre che la prima cosa è studiare. Lo sa che ha fondato una università a Milano? L’anno prossimo vorrei frequentarla. Mi iscriverò a scienze politiche».
Noemi, lei ha girato anche un cortometraggio? «Si chiama Scaccomatto. È stato presentato a Venezia a dicembre scorso. Io interpreto il ruolo della fidanzata di un politico. È tutta una storia di mafia, di intrighi, di caccia ad un diamante».
Insomma, una trama di grande attualità. Torniamo a Berlusconi? «Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che lui desidera da me. Poi, cantiamo assieme».
Quali canzoni? «Non ricordo il titolo della sua preferita: aspetti che vedo sui suoi cd. Li ho tutti. Ma come fa quella... ‘‘Mon amour, lalalala’’»
Lei quali canzoni preferisce? «A me piace la musica italiana. Non le canzoni classiche. I miei cantanti preferiti sono Laura Pausini, Tiziano Ferro, Nek. E poi c’è la colonna sonora di Scugnizzi, che io canto spesso con Papi Silvio al pianoforte o al karaoke».
Mi racconta qual è la sua barzelletta preferita tra le tante che il premier le racconta? «Vi sono due ministri del governo Prodi che vanno in Africa, su un’isola deserta, e vengono catturati da una tribù di indigeni. Il capo tribù interpella il primo ostaggio e gli propone: ‘‘Vuoi morire o bunga-bunga?’’. Il ministro sceglie: ‘‘bunga-bunga’’. E viene violentato. Il secondo prigioniero, anche lui messo dinanzi alla scelta, non indugia e risponde: ‘‘Voglio morire!’’. Ma il capo tribù: ‘‘Prima bunga-bunga e poi morire».
Nei momenti di relax, Berlusconi cosa le confida? «Fa tanto per il popolo. È il politico numero uno. Non dorme mai. Io non riuscirei a fare la sua stessa vita. Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte. Dice che vorrebbe mettersi su una barca per dedicarsi alla lettura. Talvolta è deluso dal fatto che viene giudicato male. Io lo incoraggio, gli spiego che chi lo giudica male non guarda al di là del proprio naso. Nessuno può immaginare quanto Papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore».
Perché? «Ho perso un fratello, Yuri, sette anni fa. A causa di un incidente stradale. Ora è il mio angelo custode».
Noemi, per quale squadra tiene? «Sono patriottica, tifo Napoli. Poi, la mia seconda squadra è il Milan».
Noemi, quando la vedremo in politica, alle prossime regionali? «No, preferisco candidarmi alla Camera, al Parlamento. Ci penserà Papi Silvio».

mercoledì 6 maggio 2009

sicurezza blindata & presidi spioni


Ancora una volta una legge partorita dalle menti contorte (e a volte filorazziali) di esponenti della Lega Nord finisce per scatenare lo scontro politico e parlamentare che non può che inquinare sempre di più il rapporto tra maggioranza e opposizione. Il faticoso cammino parlamentare del disegno di legge sulla sicurezza preoccupa più di un membro del governo, a cominciare dal ministro dell’Interno, rivelandosi alquanto tortuoso e irritante. A Montecitorio, soprattutto per le parti riguardanti la disciplina dell’immigrazione straniera in Italia, il testo è stato letto, riletto e sottoposto a lenti d’ingrandimento utilmente rafforzate: basti pensare a quelle usate in prima persona dallo stesso presidente della Camera, ma anche a quelle proposte a più riprese ai deputati di maggioranza e di opposizione da un gruppo di realtà associative e di volontariato (tipo ACLI, CARITAS e Comunità di S. Egidio). Grazie anche a ciò, il ddl ha subìto correzioni importanti, tali da evitare che nello sforzo di perseguire più sicurezza si commettessero almeno un paio di strafalcioni giuridici e d’ingiustizie civili. L’opportuna caduta di norme ed emendamenti sui cosiddetti medici-spia e presidi-spia va salutata, insomma, con soddisfazione. Nel merito, è la conferma che sanità e istruzione non possono essere ridotte a terreno per operazioni di pubblica sicurezza. E, quanto al metodo, è la dimostrazione di come anche su tematiche improvvidamente trasformate in questioni-bandiera sia possibile ragionare e cambiare parere. Ora però si profila un altro rischio: che riflessioni e messe a punto finiscano di colpo e che il testo venga congelato così com’è dalla richiesta di una piccola serie di voti di fiducia. Il ministro Maroni teme, e lo dice senza giri di parole, imboscate. E chiaramente pensa ai non pochi alleati perplessi, e a loro volta preoccupati, da un’operazione legislativa dalla più che certa paternità leghista, ma dagli esiti incerti. Domani se ne saprà di più. Posso però dire sin d’ora che quest’irrigidimento (e quest’accelerazione dell’iter) resta sicuramente un grave errore. In grado di rivaleggiare con quello che si potrebbe considerare il peccato d’origine del ddl. Un sistema di norme che tende a proporre allo straniero immigrato in Italia una sorta di percorso a ostacoli da superare per restare in questo Paese piuttosto che regole chiare verso un’integrazione da ricercare per convenienza e per convinzione. Di quale altra logica, infatti, è frutto l’allungamento da 6 mesi a 2 anni del tempo necessario a chi sposa un italiano o un’italiana per richiedere la nostra cittadinanza? Se il punto sono i matrimoni di comodo, non è questo il modo per contrastarli. Così come non si capisce perché, per poter sposare una cittadina indiana o sudafricana o venezuelana, un cittadino italiano dovrebbe esibire il permesso di soggiorno della futura signora. Di questo passo s’incentiverà una nuova forma di luna di miele: quella che comincia prima delle nozze, da celebrarsi rigorosamente fuori dall’Italia. E senza escludere la possibilità del raggiro: non è poi tanto azzardato immaginare vacanze pagate sull’altro lato del Mediterraneo in cambio di matrimoni combinati e a tempo. E poi, siamo sicuri che il reato di clandestinità possa essere la base di un sistema di regole che riduca al minimo l’incresciosa e spesso drammatica vita di tanti semi-cittadini che hanno un po’ di diritti (in quanto esseri umani) e un po’ non ne hanno (in quanto irregolari)? Siamo sicuri che quel reato e una sequela di balzelli annuali aggiuntivi (tra 80 e 200 euro) diventeranno il muro in grado di arginare il fiume d’umanità che si riverserà sul Vecchio Continente nel prossimo mezzo secolo? In Italia, nel 2060, i neo-italiani provenienti da altre parti del mondo saranno circa il 20% della popolazione. Italiani di origini non autoctone, eppure qui radicati, eppure qui desiderosi di stare, eppure (sperabilmente) capaci di dare un sapore nuovo e buono allo straordinario impasto sociale del Bel Paese. È concepibile immaginare quella società, la nostra società, tenuta insieme per sospetto e con fatica, da un reticolato di muri e muretti da vigilare e da saltare? È mai possibile che non si lavori (già qui e ora) affinchè sia chiaro a tutti che legalità significa accoglienza e non ostilità, e che non c’è accoglienza se si incentiva l’isolamento di gruppi e di persone e se si ostacolano le solidarietà familiari? Queste domande sono la risposta a chi si chiede perché è giusto che il cammino parlamentare del disegno di legge sulla sicurezza continui per la sua via naturale, senza forzature e senza blindature. Con la fatica e i ripensamenti necessari. C’è una questione di fiducia più grande, che riguarda il futuro di tutti noi. E va affrontata.

domenica 3 maggio 2009

l'accordo con resa incorporata


Ogni qualvolta una grande azienda italiana riesce a conquistare una fetta di mercato mondiale non si può che gioire. Ma nel caso dell'accordo FIAT-CHRYSLER la gioia, a mio modesto avviso, dovrebbe essere alquanto moderata. E spiego anche il perchè. Prima di tutto volevo sottolineare come la grande stampa nazionale, il governo (il Pifferaio in testa, naturalmente) e i vertici del Partito Democratico abbiano salutato con euforia le recenti operazioni espansioniste della FIAT su scala globale. L'approdo nel mercato statunitense tramite l'intesa con Chrysler, e la probabile conquista della OPEL in Germania, sono stati interpretati come sintomi di quella italica capacità di aggredire i mercati esteri, una sorta di conquistatori del nuovo millennio dell'industria automobilistica globale così tanto rimarcata dal presidente del Consiglio e da molti altri. I lavoratori tuttavia non dovrebbero lasciarsi ingannare da questa pioggia improvvisa di lustrini e di paillettes giornalistiche. La realtà infatti è che la FIAT ha sì acquisito il controllo strategico della CHRYSLER, ma sotto la condizione che i sindacati americani accettassero un accordo capestro: congelamento dei salari, scatto degli straordinari solo oltre le 40 ore settimanali, cancellazione delle vacanze di Pasqua e di altre festività per due anni, pericoloso acquisto di una gran massa di azioni dell'industria automobilistica americana da parte del fondo pensione dei dipendenti, e la completa rinuncia agli scioperi fino a tutto il 2015. Massimo Giannini (uno dei migliori giornalisti degli ultimi anni, a mio giudizio s'intende) scrivendo un ottimo articolo su la Repubblica ha parlato di una soluzione responsabile e non ideologica da parte delle rappresentanze sindacali statunitensi. Ma, a mio avviso, sarebbe più onesto definirla una resa senza condizioni, che peserà non poco sulla localizzazione dei licenziamenti da un lato e dall'altro dell'Atlantico, e che dunque costituirà un enorme problema per i sindacati italiani. Siamo insomma di fronte all'ennesimo episodio di quel generale processo di inasprimento della guerra tra lavoratori che sta sempre più caratterizzando l'evoluzione della crisi economica in corso. Alla intensificazione del conflitto internazionale tra lavoratori la nuova strategia economica degli Stati Uniti contribuisce in misura significativa. Infatti, il ruolo dell'economia americana risulta oggi totalmente ribaltato rispetto agli anni passati. All'epoca del boom speculativo gli Stati Uniti agivano da spugna assorbente delle eccedenze produttive mondiali. Quel che gli altri producevano gli americani lo compravano, e in questo modo contribuivano a mitigare gli effetti della sfrenata competizione salariale nella quale si cimentava il resto del mondo. Adesso però l'America si ripresenta sulla scena internazionale in una veste opposta e feroce. Con i sindacati in ginocchio, il cambio del dollaro sempre più favorevole e un governo pronto a erogare montagne di denaro pur di rimettere in carreggiata le aziende nazionali, gli Stati Uniti non attenuano ma al contrario rendono ancor più violenta la concorrenza mondiale sulle retribuzioni e sulle condizioni di lavoro. Con questa storica mutazione di ruolo da parte degli americani, il capitalismo globale in crisi si tramuta dunque in un gigantesco beggar my neighbour, lo spietato gioco delle carte in cui lo scopo di ognuno è di vincere saltando al collo del vicino. Degli effetti di questo gioco ci accorgeremo presto anche in Italia. Infatti, dopo avere incassato la resa dei lavoratori americani, l'ottimo capitano d'industria (nonchè mio illustre compaesano) Sergio Marchionne non esiterà a imporre pesanti ristrutturazioni nel nostro Paese. La grande stampa parlerà anche in quel caso della necessità di un atto responsabile da parte dei sindacati? C'è da temerlo. Per i lavoratori italiani non vi è dunque alcun motivo per partecipare all'allegro revival nazionalista che è montato in questi giorni attorno ai colpi messi a segno dalla FIAT. Piuttosto, essi dovrebbero augurarsi che emerga presto un'alternativa di classe alla guerra mondiale tra lavoratori che la crisi capitalistica e la connessa fine dell'egemonia americana stanno alimentando. Questa alternativa si costruisce recuperando consapevolezza di un fatto evidente ma troppo a lungo dimenticato: il libero scambio dei capitali e delle merci può andare contro gli interessi della classe lavoratrice e dello stesso internazionalismo operaio. La questione allora non è se si debba o meno discutere di protezionismo. Il problema è di dare una declinazione di classe al tipo di barriere e ai movimenti di merci e di capitali che si dovranno per forza introdurre, se si vorrà evitare l'abisso di una competizione salariale planetaria e senza freni. In questo senso, sono maturi i tempi per esigere un blocco dei trasferimenti di capitale verso quei Paesi che pretendono di affrontare la crisi puntando sull'abbattimento dei salari e sul peggioramento delle condizioni di lavoro. Nel silenzio assordante dei partiti del socialismo europeo, la sinistra europea farebbe bene a battere un colpo esattamente in questa direzione. Perlomeno questo è il mio augurio...

La distruzione dei miraggi


Mi pare doveroso aprire questo post, dopo l’opportuna citazione di Nomadus: la terribile situazione ecnomica spagnola purtroppo per me non è nessuna sorpresa, anche se si può catalogare effettivamente come una delusione. Per me, come per migliaia di altre persone che sono emigrate in questo Paese per migliorare la propria condizione, attratti dal dinamismo di un’economia che per anni non ha smesso di crescere e di generare posti di lavoro e benessere. Per non parlare del popolo spagnolo, che assiste allo sgretolamento del benessere creato in questi anni e al configurarsi di uno scenario a tinte molto fosche, dai contorni confusi e caratterizzato da un’incertezza sconsolante. La crisi economica mondiale sta colpendo molto duramente questo modello, balzano agli occhi di tutti i dati pessimi della disoccupazione, di gran lunga i peggiori dell’eurozona e forse anche a livello mondiale. Cosa è successo? Cosa si sta sviluppando? Cosa succederà? Di certo non sono un economista, ma le dinamiche che hanno portato a questo stato di cose, in linea di massima sono comprensibili a chi abbia un minimo di spirito critico e di conoscenze storiche. La Spagna è uscita alla fine degli anni 70 da quarant’anni di dittatura che ne avevano fossilizzato in gran parte la crescita economica, insieme ovviamente a quella culturale e sociale. Con l’avvento della democrazia, attraverso gli anni della Transizione, si è innnescato un processo di crescita accelerata che, benchè facendo i conti con un’arretratezza concentrata nel settore agricolo e delle infrastrutture, ha portato a un rapido miglioramento generale, paragonabile al nostro boom economico degli anni 60. Insieme al forte impulso del turismo, la decade che va dagli anni 80 agli anni 90 ha portato piano piano la Spagna a un ruolo sempre piu’ importante nello scacchiere europeo, costruendo benessere che via via ha attratto quantità crescenti di immigrati, in gran parte dal naturale “bacino di utenza” del Sudamerica. Insieme al miglioramento delle infrastrutture si è venuta verificando una “escalation” della costruzione, che via via ha assunto una dimensione speculativa molto grande. Si è spinto sul pedale del mattone per arricchire il Paese, gonfiando le cifre dell’economia, ma assai più spesso quelle dei costruttori e degli immobiliaristi. Qualcosa di simile, appunto, al nostro boom edilizio di 40 anni fa, ma inserito in un’ottica attuale, con tutte le conseguenze del caso. Una delle quali è stata l’afflusso massiccio di immigrati, direttamente impiegati nella costruzione delle centinaia di migliaia di villette, blocchi di appartamenti di dubbio gusto e di precario inserimento nel territorio. Il progressivo indebolimento del settore industriale, specialmente insediato nel nord del Paese, non ha fatto altro che rendere piu’ drammatico il momento attuale: l’arrivo della crisi finanziaria ha fatto esplodere di colpo la bolla speculativa; il crollo del finanziamento delle banche ha portato all’interruzione di migliaia di progetti avviati e al congelamento di contratti in finalizzazione o in progetto, provocando il crack di alcune grandi immobiliari e di grandi imprese edili, oltre alla paralisi di tante piccole medie imprese. Ma il vero problema sopraggiunge guardando alla forza lavoro che sosteneva tutto questo sistema: in primis gli operai, tra cui l’esercito di immigrati richiesti subito come forza lavoro economica e poi regolarizzati dal primo governo di Zapatero, che ora riscuotono il sussidio di disoccupazione previsto dallo Stato per chi viene licenziato per fine contratto o per licenziamento. E poi tutto l’indotto: tecnici, studi di progettazione, pubblicitari e via dicendo. Il fatto che l’economia spagnola fosse basata in modo sproporzionato sulla costruzione è il fattore primario di questi dati sconcertanti di disoccupazione. Non c’è, allo stato attuale delle cose, un settore “riserva” che possa assorbire una massa cosí grande di lavoratori, e le misure adottate dal governo appaiono onestamente troppo blande e provvisorie per garantire un effettivo miglioramento a medio lungo termine, e cito a questo proposito il famigerato “plan E”, ovvero una quantità di circa 80 milioni di euro varati principalmente per lanciare progetti di opere pubbliche che vengono promossi dai municipi, e che sanno davvero troppo del “mettere una pezza” momentanea per dare ossigeno alla fetta piu’ ingente di lavoratori disoccupati. Una volta finiti questi cantieri, cosa sará migliorato a livello strutturale? Ho avuto modo di assistere a una conferenza su ricerca e sviluppo come motore per uscire dalla crisi, dove parlava tra gli altri Paul Krugman, il premio nobel per l’economia, grande critico di Bush e della politica fallimentare dell’amministrazione USA degli ultimi anni. Questo signore descriveva senza troppi scrupoli la grave situazione in America, in Europa e specialmente in Spagna, analizzando la difficoltà speciale che avrà questo Paese per uscire da questa situazione di stallo e deterioramento. Secondo lui, la via migliore è quella di investire su un modello profondamente diverso, quello dell’innovazione, della ricerca, col fine di estrapolare nuove tecnologie e nuovi modelli di sviluppo, come ad esempio le fonti di energie rinnovabili, la creazione di tecnologie per un’industria “pulita”, la ricerca nelle biotecnologie, di brevetti rivoluzionari. Mi sembra senza ombra di dubbio la via giusta. Specialmente quando ormai è lampante che tappezzare il territorio di villette infimamente costruite, palazzoni orrendi, centri commerciali e porcherie di ogni tipo e dimensione non ha pagato, nè potrà essere nel futuro un modello vincente. A questo punto è doveroso dire che le basi per questa inversione di tendenza ci sono: la Spagna è il primo produttore di energia solare in Europa e il secondo nel mondo di energia eolica, per esempio. Ci sono ditte spagnole che producono tecnologia leader in questo settore, e la dimensione degli investimenti è in netta crescita. È quindi questione di direttive centrali, di vedere che strada prenderà il governo: se insisterà ciecamente nel resuscitare un morto, o rimettere in piedi per quanto possibile l’edilizia quando i segnali miglioreranno, però senza darle il timone del comando, ma invece investire fortissimamente in settori che possono crescere e generare ricchezza per il futuro. Un aspetto che mi ha assai colpito di questa crisi sono le cifre, ovviamente drammatiche e sconsolanti, ma specialmente se confrontate con la nostra Patria: un 18% di tasso di disoccupazione galoppante, contro un modesto 7% dell'ex-Belpaese.... Io vivo qua in Spagna, e senza ora soffermarmi sulle magagne interne della politica, rimango davvero stupito. Come è possibile? Dati alla mano, il nostro Stivale dovrebbe essere davvero quella roccia che descrivono Tremonti e il Pifferaio, dove ora addirittura la crisi sembra retrocedere! Finito, si riparte già!! Siccome non sono un economista ma un semplice architetto disoccupato, espongo i fattori che secondo me influenzano terribilmente questo aspetto. In Italia c’è una percentuale agghiacciante di gente che lavora con contratti spazzatura, i famosi CO.PRO, contratti a progetto, che non garantiscono neppure la copertura sanitaria, e mettono in mano ai datori di lavoro la facoltà di vita e di morte sul lavoratore. Molti di questi contratti vengono rinnovati per due, tre mesi. Quindi, nel periodo di attività, il lavoratore viene contabilizzato come attivo, o peggio viene conteggiato come nuovo lavoratore ogni volta che il suo contratto-ghigliottina viene rinnovato. Anche qua molta gente (me compreso) lavora o lavorava con contratto a termine, però la differenza è che questo tipo di contratto dà al lavoratore gli stessi identici diritti di un lavoratore a tempo indeterminato, e quando finisce (o viene licenziato, e le modalità spesso sono lungi dall’essere legali), ha diritto al sussidio come tutti gli altri, oltre ad aver versato gli stessi contributi per la pensione. Inoltre, ho ormai sperimentato che in Spagna è difficilissimo lavorare in nero: anche per lavori stagionali o di brevissima durata si viene sempre inseriti nel sistema di previdenza sociale e in quello sanitario, e si pagano le tasse. C’è un forte controllo e pochissimi osano sfidarlo, pena dure multe. Il paragone italiano lo lascio al lettore, riguardo al lavoro nero. Basterebbero questi due dati, forse, per capire che sebbene il volume di daterioramento del lavoro in Spagna è di certo maggiore e piu’ grave che in Italia e in molti altri Paesi, è assolutamente sufficiente per capire che le cifre che ci vendono il Pifferaio e i suoi scagnozzi puzzano di bruciato in maniera sconcertante. La manipolazione in stile orwelliano dell’informazione di cui già ho parlato (e della quale Nomadus tratteggia sapientemente i contorni nel post sulla crisi che non c’è piu’), è la chiave di volta del mio paragone. Nessuno sa con esattezza come stanno realmente le cose, da noi. L’attenzione dello svogliato e indolente cittadino viene abilmente dirottata su ricostruzioni, miracoli italiani, e tette e culi da mandare in Europa. Il disorientato e disattento cittadino tipico rimane un pò imbambolato, e alla fine se la beve. Chi davvero sta male e non ce la fa ad arrivare a fine mese fa quello che sempre ha fatto: bestemmia e si arrangia, o perlomeno ci prova. La Spagna va male, va molto male e io sono seriamente preoccupato per il futuro. Personalmente cerco di diversificare la mia formazione: in questi mesi, coperti dal sussidio che ricevo (e che in Patria, lavoratore a progetto, non avrei mai potuto avere), mi sono iscritto a un master in energie rinnovabli, sperando di poter ottenere un nuovo lavoro in un settore che è previsto in crescita, che deve crescere e in cui credo. Ma voglio spezzare una lancia per un Paese piu’ onesto, dove se le cose vanno male nessuno dice il contrario, nè i giornalisti, nè il governo (che pure ha peccato di grande ingenuità e ha cercato per troppo tempo di smorzare la portata della crisi), nè i datori di lavoro. Dove si ha il coraggio di prendere il toro per le corna e fare i conti con quello che c’è. Dove chi governa si prende le responsabilità della situazione e viene messo alla prova, giudicato per quello che effettivamente fa, e che non cerca invece di mascherare con trucchi da illusionista gli elettori e i cittadini in generale. Anche se il Pifferaio mi racconta che tutto va bene e che è stato solo un brutto sogno, io rimango nella barca coi buchi piu’ grossi, nella speranza che lottando si possa fare qualcosa di buono per uscire dall’impasse. Perchè se ce la si fa, il futuro si costruirà su basi solide, e non sul sempiterno castello di bugie.

venerdì 1 maggio 2009

la festa del lavoro (che non c'è più)


Ha ancora un senso dedicare il 1° maggio alla cosiddetta Festa del lavoro in un millennio che vede sempre più scomparire lavoro e lavoratori, inghiottiti inesorabilmente dai tentacoli di quel mostro chiamato recessione, crisi economica globale, povertà totale? Io credo che sia anacronistico continuare a festeggiare una data simbolo che non va più di pari passo con la realtà storica e sociale del nostro Paese (e del mondo intero). Quante incognite, quanti dolori, quante responsabilità gravano su questo 1° maggio 2009, uno dei più difficili della moderna storia del lavoro. Si è soliti dire: festa del lavoro, e il termine festa appare sproporzionato di fronte alle difficoltà dell’oggi, se non di cattivo gusto. Eppure, non dimentichiamolo, la festa dei lavoratori nasce in ricordo di una tragedia (la strage di Portella della Ginestra). Proprio per affermare che drammi come quello che ha dato origine alla giornata non debbono più accadere, la ricorrenza del 1° maggio diventa, ben presto, espressione di riscatto, di voglia di vivere, di conquista di condizioni migliori di vita. Valori positivi e programmatici. Giustizia, libertà, solidarietà, cittadinanza e pace, sono le grandi parole d’ordine di ogni 1°maggio. Più che concetti, sono ideali, speranze, opportunità da condividere con gli amici, con i compagni di lavoro e di credo politico, con tutti coloro che li assumono come riferimenti universali. Ecco che così prende corpo la festa. Ed ecco, così, spiegata anche la grande forza simbolica del 1°maggio, accresciuta dalla rara caratteristica che il 1°maggio è una festa globale: una delle poche ricorrenze che viene celebrata lo stesso giorno in molti paesi ed ha ovunque lo stesso significato, nella buona e nella cattiva sorte. Inutile nascondercelo, le difficoltà sono enormi quest’anno. La gravità della crisi tiene banco da mesi nelle cronache e la via di uscita non è a portata di mano. Da qualche anno, giustamente, si è avviata una riflessione sul cambiamento profondo, antropologico, del lavoro, della sua organizzazione, del suo senso. Ora, all’improvviso, dobbiamo discutere del lavoro che non c’è! Il lavoro perduto e il lavoro cambiato si fondono in un’unica prospettiva strategica, in una sfida che la crisi rende più acuta. Ma la crisi, almeno, sta rendendo tutto più chiaro: a cominciare dal fatto che la colpevole speculazione finanziaria non spiega tutto. Spiega di più la iniqua distribuzione del reddito che ha fatto del finanziamento al debito per le famiglie una trappola micidiale. Spiega di più la follia di una gestione economica dello sviluppo che, mentre esaltava la globalizzazione (dunque l’interdipendenza), aumentava le disuguaglianze. Nel mondo ci sono un miliardo di persone prive di acqua e dell’essenziale, ma sono ben di più quelle che sono fuori dai circuti del benessere. Il tema che la crisi ci pone è, dunque, il modello di sviluppo e le sue regole. Il capitalismo è cambiato e oggi ha bisogno di vivere una nuova stagione nella quale si avanzi verso un nuovo equilibrio capace di creare e diffondere benessere, rifuggendo dai fallimentari rigurgiti liberisti. Il coraggio di guardare in faccia la crisi significa il coraggio di guardarvi oltre. Non perché ne siamo fuori, ma perché ne usciremo solo immaginando e costruendo un nuovo mondo. Tocca alle forze progressiste e riformiste, che devono fare definitivamente i conti con la modernità. Tocca ai sindacati, che debbono ritrovare le ragioni della comune missione, Tocca agli imprenditori, che debbono dimostrare che è possibile tenere insieme competitività e giustizia sociale. Tocca a ciascuno di noi, in definitiva, la responsabilità, il compito di indicare la strada, di ridare fiato ad una speranza. Rendere visibile questo orizzonte è il senso più genuino di questo difficile 1°maggio. E che siano i giovani, innanzi tutto, i protagonisti ai quali far pervenire questo messaggio di futuro. Che resti, dunque, anche nelle ansie di questi momenti, la magìa del 1°maggio. La magìa di un giorno di festa.

e la crisi non c'è più...


Sembra una pubblicità del vecchio e mai troppo rimpianto Carosello: l'italiano si sveglia al mattino e scopre che la crisi non c'è più. Proprio come in quel vecchio spot in bianco e nero, quando Mimmo Craig nel sogno aveva una pancia enorme, imbarazzante, antiestetica che spariva magicamente al suo risveglio. E così accade anche nel nostro BelPaese. Fino a poco tempo fa trpmboni e prime firme del giornalismo lanciavano le loro reiterate grida d'allarme sulla crisi globale, sulla povertà assoluta che aveva invaso l'Italia e che aveva decimato l'economia di centinaia di migliaia di famiglie italiane, sull'rlo del collasso. Dopo il terremoto in Abruzzo, invece, l'occhio di bue è stato furbescamente spostato (dal Pifferaio ovviamente, chi altro?) sulle macerie e sulle ricostruzioni (a parole), sulle feste della Liberazione da condividere e sulla nuova era della politica all'insegna del volemose bene. Poi spuntano le veline, Veronica s'incazza e il Pifferaio deve spostare di nuovo l'occhio di bue sul proprio palcoscenico: quello a lui più gradito, quello delle battute e delle quisquilie da teatrino, da Bagaglino (anche quello trombato per questioni di audience). E così è sparita la crisi in Italia. Non se ne parla più, eppure continua a produrre i suoi effetti e a fare le sue vittime. Si parla di calo del PIL, si parla (poco in vero) di aumento della disoccupazione, si parla di diminuzione del gettito fiscale, non si parla più dei contratti precari che non vengono rinnovati, non si parla più di chi non ce fa la ad arrivare a fine mese, a volte si parla di cassa integrazione (almeno sulla stampa locale). A ben guardare l’ottimismo del Pifferaio ha contagiato tutti (almeno quelli che il problema non ce l’hanno): giornalisti, stampa, TV e imprenditori amici degli amici del beato Silvio. Si è fatta strada, insomma, l’idea che se non si parla di una cosa questa non c’è, e se non c’è non può produrre danni, e se non c’è non vi sono problemi da affrontare e chi Governa può occuparsi dei problemi seri e veri e autentici del Paese che, di volta in volta sono le Veline candidate o da candidare, le passerelle in Abruzzo a dispensare consigli per il fine settimana dei terremotati. Le incomprensioni tra marito e moglie (il Pifferaio e Lady Veronica) occupano per giorni le prime pagine di Tv e giornali. E il guaio vero è che tutti corrono a commentare, contestare, ribadire, accusare, ribaltare: insomma tutti corrono a baciare la sposa del momento mediatico. Tutti anelano una citazione, e a pochi frega veramente dei problemi veri della gente. Quasi nessuno propone soluzioni o avanza proposte o discute dei problemi veri di chi lavora o vorrebbe lavorare, di chi commercia o vorrebbe commerciare, di chi intraprende o vorrebbe intraprendere, di chi impara o vorrebbe imparare, di chi deve portare, e non sa come, pane e (possibilmente) companatico a casa. La situazione è paradossale e, alla lontana, sembra che l’atteggiamento prevalente della TV e della stampa sia, grosso modo, lo stesso descritto dagli storici alla corte di Versailles poco prima della rivoluzione francese quando ancora i moti ribellisti e rivoluzionari non erano tali e quando ancora la gente tentava disperatamente di procurarsi solo un tozzo di pane. E allora, che c’è di diverso oggi (in TV e sulla stampa) rispetto ad allora alla corte? Oggi in TV feste e intrattenimenti, lazzi e sberleffi, liti e discussioni servono a distrarre la gente dai problemi veri. Ieri a Versailles feste e intrattenimenti, lazzi e sberleffi occupavano la giornata dei potenti che non vedevano e potevano vedere le sofferenze e i problemi veri, reali, quotidiani e irrisolvibili della gente. Insomma, nella sostanza, nulla di nuovo la storia ci insegna: sono davvero pochi ad imparare dagli errori precedenti. Però una sostanziale differenza tra allora e oggi c’è. Ed è il fatto che oggi i potenti si preoccupano di tenere la gente lontana dai guai, la gente non è del tutto abbandonata, almeno non viene abbandonata a se stessa, ai propri pensieri tristi che possono diventare anche truci. La gente la si intrattiene, la si distrae, la si tiene occupata a sognare e ad immaginare che il sogno può capitargli, che il liberismo è capace di dare a tutti la ricchezza solo che tu voglia allungare la mano. Questa differenza i potenti la considerano in effetti solo un palliativo momentaneo perché, piaccia o meno, se non hai il pane, se non hai un’abitazione, se non hai un lavoro prima o poi anche un santo potrebbe incazzarsi, potrebbe avere reazioni smodate, potrebbe, in buona sostanza, diventare una mina vagante in una situazione seria e preoccupante. Per capirci e parlare in concreto faccio un esempio evidente di come accade che si freghi la gente. E’ stato firmato da pochi mesi l’accordo tra Italia e Libia e tutti ne hanno magnificato, mostrato le foto del Pifferaio e di Gheddafi che si danno la mano e si fanno i convenevoli. Pochi hanno annotato che l’accordo ha un costo per l’Italia e, quindi, anche per il sottoscritto e per voi che mi state leggendo. Ed è un costo serio, salato: si parla di miliardi di Euro dati e da dare alla Libia che, sia il sottoscritto sia voi che mi leggete dovremo pagare. Nessuno ha annotato che questo trasferimento di denaro (avvenuto e da avvenire) capita in un momento di crisi. Nessuno ha segnalato che è pazzia aggiungere ai problemi della crisi anche questi perché, e qui cito a memoria, si sono dati soldi alle banche perché non fallissero ed avessero soldi da prestare. E le imprese non riescono ad avere prestiti per operare, e si devono costituire i fondi di garanzia pubblici perché altrimenti (li hanno o non li hanno) le banche i soldi non li vogliono prestare. I soldi dati e da dare alla Libia, dunque, sono stati tolti dalle tasche degli Italiani: però la gente non se ne deve accorgere, non deve sapere, non si deve preoccupare. E per cortesia, cerchiamo di non disturbare il manovratore...