l'Antipatico

lunedì 31 marzo 2008

cavaliere, per cortesia, lasci stare la Capitale!




Piove sul bagnato. Anzi, grandina. Non bastavano i danni (morali e materiali) compiuti a Milano e nella Brianza in questi anni di saccheggio economico e di interessi personali. Non erano sufficienti le attività "prezzolate" svolte con cura e con amorevole impegno nei confronti di avvocati (anche stranieri), giudici e finanzieri. No, tutto questo non bastava. Ora il cavaliere vuole anche fare danni nella Capitale. Infatti ha già pronto un metodo (subdolo) per convincere i romani che è meglio affidare le chiavi della città a un suo discepolo (Gianni Alemanno), piuttosto che ridarle a chi già in passato ha fatto più che bene (Francesco Rutelli). Il metodo è quello, già sperimentato, dell'invio a domicilio di un libretto di 96 pagine, intitolato "C'era una volta il modello Roma di Rutelli e Veltroni. L'eredità della sinistra". Con questo libercolo lo smemonano di Arcore tenta di screditare (con il solito metodo della menzogna) tutto il lavoro politico, sociale ed economico svolto dalle due amministrazioni capitoline degli ex sindaci della sinistra. Inutile riportare la sequela di contumelie e di slogan oramai decotti usati dal cavaliere (per chi ha stomaco leggersi un articoletto de IL TEMPO, che certo non può definirsi un giornale a lui ostile, http://www.iltempo.it/2008/03/31/860396-disastro_capitale_alla_droga_elenco_cavaliere.shtml). Meglio invitare i romani a cestinare il libretto berlusconiano, ottimo coadiuvante in caso di diarrea. A noi non sembra vero. Un milanese, oramai da rottamare, che viene a dire la sua sulla Capitale, sui presunti "mali" di Roma e sulle taumaturgiche cure che lui appronterebbe "perchè anche Roma si rialzi", ci sembra un paradosso senza fine, una parantesi comica involontaria, degna delle trasmissioni televisive in onda sulle sue reti (tipo "La sai l'ultima?" o "Zelig Circus" o, meglio ancora, tipo il TG4 dell'altro comico mancato, Emilio Fede). E invece è tutto vero. Ora, detto tra noi. ci sembra quasi superfluo suggerire ai lettori di questo blog come comportarsi il 13 e il 14 aprile, a chi dare la preferenza. A meno che i romani non vogliano ritrovarsi un meneghino al Campidoglio intento a raccontare barzellette e a toccare il culo alla Carfagna...

domenica 30 marzo 2008

aveva ragione Eugenio Scalfari...(capitolo 7)




A due settimane dal voto, a quattordici giorni dall'appuntamento incredibilmente importante per il nostro Paese, a scanso di equivoci e di errori di valutazione, vi riproponiamo un altro illuminante articolo di Eugenio Scalfari, scritto per la Repubblica il 26 novembre 1995, dedicato sempre all'ineffabile cavaliere e alle misteriose origini delle sue fortune. Sono trascorsi tredici anni, ma i dubbi e le amletiche riflessioni rimangono tali e quali anche oggi, proprio alla vigilia della imperdibile occasione di poter invitare, tutti insieme, il cavaliere al pensionamento: un modo elegante e democratico di togliercelo dalle scatole. Ed ora buona lettura. A volte mi prende un senso di sconforto, di sconsolazione profonda per gli errori che erano stati previsti in tempo e indicati, ma che malgrado i ripetuti e documentati avvisi furono pervicacemente commessi, fonte di altri errori successivi e di successivo degrado morale e politico. Così fu per Craxi: quindici anni di denuncia d'un personaggio che si era trasformato in un capobanda installato ai vertici del potere. Quindici anni di battaglia solitaria che conducemmo nell'indifferenza quasi generale e che sfociò infine in una conversione massiccia quanto tardiva all'anticraxismo di tutti coloro che fino a quel momento l'avevano sostenuto, votato e osannato. La storia si è ripetuta con Silvio Berlusconi. Era chiarissimo fin dall'inizio che si trattava d'un uomo d'affari spregiudicato, entrato in politica per salvare le sue aziende, col carico degli interessi e delle compromissioni che facevano parte integrante della sua biografia e del suo passato. Erano chiarissimi i suoi legami col vecchio regime e con i personaggi che ne rappresentavano la corrotta oligarchia. Lo dicemmo e lo ripetemmo fin dalla metà degli anni Ottanta, quando il partito della Fininvest già operava in Parlamento e nei ministeri per piegare le istituzioni alla volontà dell'azienda e poi quando, nell'inverno del '94, l'azienda decise di entrare direttamente nella competizione politica, fenomeno senza precedenti nel mondo intero. Ora anche nel campo di chi ci considerò faziosi e profeti di immaginarie sventure si misurano i guasti di quanto è avvenuto e si cerca tardivamente di porvi rimedio. Altri dieci anni perduti, altri silenzi colpevoli, altre ossessioni ideologiche, un ingorgo politico, una paralisi istituzionale, un'opinione pubblica manipolata e un desolante imbarbarimento. A che serve aver visto e avvisato per tempo quanto sarebbe accaduto? A che serve aver avuto ragione? Gli italiani sono dunque una plasmabile cera nelle mani dei demagoghi? Bastano un paio di slogan senza sostanza e un paio di barzellette televisive per incantarli e ottenerne il consenso? Adesso il padrone del partito-azienda, chiamato in giudizio dai magistrati, ci racconta che doveva pagare un arabo e che quei miliardi, "per una curiosa coincidenza", arrivarono su un conto svizzero di Bettino Craxi. Ed entra in scena un improbabile Alì Babà a fargli da spalla. Vedranno i giudici fino a che punto questa favola sia credibile. Ma intanto apprendiamo dallo stesso interessato che nel suo impero finanziario ci sono almeno otto società-ombra residenti nei paradisi fiscali della finanza truffaldina, attraverso le quali scorre un fiume di miliardi all'insaputa del mercato, degli azionisti e del fisco. Da dove vengono quei miliardi (centinaia e centinaia), dove vanno, perchè non transitano nei bilanci ufficiali presentati ai revisori dei conti e alla Consob? E il personaggio che è alla guida di questo enorme giro di capitali occulti è stato plebiscitato il 27 marzo da dieci milioni di ignari elettori, è stato incaricato di presiedere un governo nazionale, ha aperto una guerra implacabile contro i magistrati colpevoli di volere veder chiaro in quell'immenso pasticcio, ha conquistato tutto il sistema televisivo privato e pubblico e fa la vittima disconoscendo la legalità dei tribunali che dovrebbero giudicarlo. Questo spettacolo, che va in scena da un anno e mezzo, ha dell'incredibile. E' diventato una farsa, ma potrebbe anche finir male, molto male, perchè ha dato spazio a uomini d'avventura che giocano ormai il tutto per tutto pur di non essere travolti dalla verità che sta venendo inarrestabilmente a galla. E la verità è questa: semmai c'è stata un'azienda le cui fortune sono abbinate strettamente al sostegno d'un partito, questa è stata la Fininvest. Caduto quel partito sotto il peso della corruttela, l'azienda ne ha preso direttamente il posto. Il paradosso consiste nel fatto che gli elettori che l'hanno votata il 27 marzo credevano di votare in quel modocontro i partiti. Incredibile ma vero. Così terminava l'articolo (l'ennesimo) contro il cavaliere da parte del fondatore del quotidiano romano. Come sempre, una impressionante sequenza di fatti e citazioni che ci riportano il 1995 ai giorni nostri, proprio a dimostrazione del fatto che le reiterate accuse contro l'omino di Arcore non possono essere catalogate solo come frutto della faziosità e dell'acredine politica contro questo "furbetto" meneghino (che solo grazie all'immunità parlamentare e al suo ruolo di premier, che vorrebbe riprendersi il 14 aprile, è riuscito sempre a svangarla) ma che un fondo di verità deve necessariamente esserci. Indubitabilmente.

sabato 29 marzo 2008

la bambocciona del terzo millennio


Abbiamo letto una lettera molto interessante scritta da una precaria di Savona ed indirizzata ad una delle prime firme de L'espresso, vale a dire Giampaolo Pansa, anche in risposta ad un articolo scritto dal giornalista qualche settimana fa e dedicato alla precarietà (http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Il-miracolo-dei-balocchi/2000634/18) e che suscitò qualche polemica, soprattutto tra i giovani. Vi riproponiamo integralmente la lettera della ragazza savonese, Sonia Cosco, assurta un pò a simbolo delle cosiddette "bamboccione" precarie del terzo millennio. Buona lettura (e buona riflessione).
Gentile Giampaolo Pansa, sono una ragazza che legge da anni L’Espresso. La stimo molto per la sua penna tagliente e sincera, e in merito al Suo Bestiario del n.10 ho voglia di raccontarle qualcosa su quello che definisce l’ “alibi per fare flanella”. Voglio essere brutale. Non voglio lavorare gratis a vita. Il ministro Padoa-Schioppa probabilmente non avrebbe mai immaginato di lanciare un tormentone con quella famosa espressione. Comunque… Quando noi giovani coccolati rispondiamo al tema “bamboccioni” e dintorni si rischia sempre di fare la parte dei permalosi che non vogliono ammettere i fatti. Allora vorrei raccontarli, i fatti, i miei, se ha voglia di leggerli. Mi laureo nel 2004 in Filosofia. 110 e lode. Ho 23 anni da compiere. Abito a Savona. Ho un minimo di intelligenza pragmatica per intuire che il mondo del lavoro non spalancherà le porte per me. Quindi comincio a muovermi. In tutti i sensi. Ho la fortuna di lavorare per un periodo con l’Einaudi. Finito il lavoro, finita la speranza di rimanere nella casa editrice. “Mi va bene anche un duro, durissimo tirocinio”. Niente. Mi reco personalmente alla sede di Torino. È un mondo saturo quello in cui mi piacerebbe lavorare. Vado anche presso La Stampa di Torino, parlo con alcuni responsabili. Non mi vogliono manco gratis. Nel frattempo una cooperativa della nostra città organizza per l’estate dei lavoretti socialmente utili: pulire le spiagge. Sveglia alle 5 e romantiche passeggiate sui lungomare di Savona a svuotare cestini e raccogliere mozziconi di sigaretta. Nessun’obiezione. Nella vita c’è da provarle, le cose e i soldi servono. Oltre la spazzina però avrei altri desideri. Porto personalmente il mio curriculum alla sede di un giornale locale. Serve manovalanza, mi fanno iniziare. Mi sembra un miracolo. Comincio la gavetta. Da mattina a pomeriggio a sera gratis. Il problemino è che ho regolarizzato la situazione retributiva solo oggi (dopo quasi due anni) e per farlo ho dovuto aprire una partita IVA come guadagnassi milioni di euro all’anno. Invece sono una libera professionista che guadagna meno di 1000 euro all’anno. Ammettiamo che me la sono andata a cercare. Sappiamo tutti che una laurea in ingegneria rende la vita più semplice. L’editoria e il giornalismo non possono essere l’unica strada. Me ne rendo conto presto. Visto che mi piacerebbe anche insegnare provo la scuola di specializzazione, la famosa e “utilissima” SSIS. Durante la prima prova risulto una delle più brave, nell’ultima prova risulto una delle più scarse. Si sa, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume rimanendo uguali. L’unica cosa che mi puzza un po’ è la graduatoria finale. Per la mia classe di concorso prendono meno di dieci persone per l’anno 2006-2007… Io sono la prima degli esclusi. Pazienza, posso fare supplenze. Mando un centinaio di curricula nelle scuole della provincia, m’iscrivo alle graduatorie di terza fascia del Basso Piemonte. Mi va bene fare anche quattro ore di treno ogni giorno. Datemi però una supplenzina, anche piccola piccola. Avere come risposta il silenzio assoluto è davvero una di quelle cose che ti rende ottimista. Naturalmente non mi fermo. Giro per le agenzie interinali della mia città, lascio i miei dati e i miei riferimenti: Adecco, Generale Industrielle. Fare la segretaria, benissimo! Accompagnare le scolaresche a vedere le mostre, benissimo! Sono ignorata anche dalle agenzie interinali e dagli annunci della rivista di IoLavoroLiguria. All’ombra dell’università nascono come funghi corsi, master, scuole di specializzazione. Eccone uno che fa per me: “Corso di alternanza dall’università al mondo del lavoro”. Due giorni la settimana pendolare a Genova per seguire un corso che mi permetta non di avere un lavoro, ma uno stage. Ecco! Forse questa è la strada giusta! Infatti dopo il corso parte il tirocinio. Sono al settimo cielo e mi trovo anche bene, umanamente parlando. I primi tre mesi sono solo rimborso spese, e la speranza di lavoro si concretizza in un contrattino di collaborazione occasionale da due mesi. Segretaria in uno studio di comunicazione. Al mese sui 500 euro, per 8 ore al giorno escluse quelle trascorse appiccicata al finestrino del treno, destinazione Savona. Pur di guadagnare qualcosina in più mi metto a imbustare inviti e depliant per un grande evento che si svolge ogni anno a Genova. Sì lo so che non dovrei pensare queste cose, ma trovarmi a incollare centinaia di etichette insieme alle ragazzine delle superiori che fanno le hostess per arrotondare, mi ha messo un po’ di malumore. La mia buona volontà però non viene premiata. Lo studio è piccolo. Finisce il contrattino, niente rinnovo. Probabilmente sono davvero una frana. Riprovo con un corso organizzato da un’agenzia interinale nelle mia città. 8 ore al giorno per due settimane. Questa volta un tour di force davvero inutile visto che non ci sarà neanche il mio oggetto dei desideri da tre anni a questa parte: lo stage. Considerati i fallimenti. Forse è meglio impegnarmi sul campo che più mi appassiona e cioè l’editoria. Due volte la settimana faccio Savona-Milano per seguire un corso su come diventare redattori editoriali. Torno a casa a mezzanotte e non perché impari davvero, ma perché è previsto di nuovo lo stage in una casa editrice. Chiaramente non pagato e ora spero almeno che l’esperienza non sia l’ennesimo flirt lavorativo. Avrei voglia di un fidanzamento. Con anello contrattuale al dito. In questo panorama buio esiste qualche anima buona e per qualcosa che si avvicina al miracolo collaboro con una casa editrice che mi paga per scrivere delle recensioni. E continuo comunque con il giornale locale perché sono testarda e so che piano piano riuscirò a iscrivermi all’ordine dei giornalisti. So che Savona non è Milano e Roma, ma come faccio a imbarcarmi per le metropoli senza spendere il triplo di quello che guadagno? Nel frattempo però i politici assicurano: “cerchiamo talenti su cui investire” e la sindaco di Genova Marta Vincenzi dichiara sulla Repubblica, demoralizzata, che il suo territorio di talenti da proporre al PD non ne ha. Io non so cosa intendano per talenti. Io so che le persone da mettere ai posti giusti le tirano sempre fuori dal cilindro magico delle cerchie ristrette. Sarò morbosa o forse farà parte di una deformazione personale alla ricerca, ma vedere come ovunque i cognomi si ripetano, le parentele si potenzino, i protetti s’innalzino. Beh. Questo è un altro di quei fatti che non si può ignorare. Il mio ragazzo lavora da due anni come part-time commesso da Blockbuster. Per pagarsi la laurea in Scienze Politiche, ma soprattutto per pagarsi la Scuola d’Arte Cinematografica, perché il suo sogno è entrare nel mondo del cinema, senza pretendere sconti, ma partendo dalla gavetta. Noi chiediamo una gavetta che non sia una gabbia per criceti, da morirci dentro. Abbiamo un’associazione (il sito è www.dietrolequintesavona.it) che propone documentari interessanti, di denuncia, di critica sociale, abbiamo collaborato con personaggi come Carlo Freccero e Tatti Sanguineti, ma andare porta a porta a bussare alle amministrazioni locali per chiedere un sostegno economico è un fallimento, sempre. E Savona, Genova, la Liguria tutta muore come una regione del Nord che è terreno bruciato per i giovani e il lavoro. Io sono figlia di una casalinga e di un impiegato. Anche Guccini lo cantava e ne era orgoglioso. Non so fare la ruffiana e non so chiedere favori. Mi scuso per lo sfogo ma, usando un eufemismo, sono tempi davvero infelici.
Sonia Cosco
Scritto Mercoledì, 26 Marzo, 2008 alle 11:56 nella categoria Lettere. Questa la lettera della precaria ligure. Cosa aggiungere. Crediamo nulla, la drammaticità del racconto espresso nella missiva è tutta spalmata riga dopo riga, sensazione dopo sensazione. Crediamo che molti giovani si siano ritrovati e riconosciuti in questa lettera. Oltre ad una risposta di Pansa (doverosa e imminente, crediamo) ci attendiamo specifiche risposte (http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2009907&ref=hpstr2) e riflessioni da tutti e 15 i candidati premier di questa tornata elettorale, che magari non leggeranno L'espresso, ma che comunque una eco di tutto ciò l'avranno sicuramente avvertita...

venerdì 28 marzo 2008

consigli per il cavaliere


In questo periodo di campagna elettorale assistiamo a giornalieri inviti e suggerimenti, da parte di prime firme di giornali, commentatori ed editorialisti di peso, nei confronti dei vari protagonisti a capo delle rispettive coalizioni politiche. Uno dei più accattivanti che abbiamo letto è senz'altro il consiglio contenuto nell'articolo di questa mattina, pubblicato su La Stampa di Torino a firma del sarcastico Mattia Feltri, dal titolo "Cavaliere si faccia coraggio" che vi riproponiamo integralmente. Buona lettura.
Ora resta da stabilire se Walter Veltroni sia straordinariamente impegnato oppure una simpatica canaglia: il resto è chiaro. Mercoledì (versione Bruno Vespa) o al massimo una settimana prima (versione del loft) il capo del Partito democratico ha declinato l’invito di Porta a Porta per la trasmissione di stasera; in omaggio alla par condicio, la Rai ha dovuto cancellare anche la puntata prevista per ieri con Silvio Berlusconi. Posto il dilemma iniziale, l’interpretazione diabolica è che Veltroni abbia escogitato il sistema per farla pagare al carissimo rivale: non vuoi affrontare il confronto con me? E io ti oscuro; se in tv non ci andiamo insieme, non ci va nessuno dei due. Berlusconi la mette giù anche più dura e meno sofisticata: quelli del Pd sono i soliti prepotenti, antidemocratici e comunisti. Di sicuro, Veltroni da settimane chiede a Berlusconi di incrociare opinioni e proposte davanti alle telecamere, e da settimane Berlusconi fischietta noncurante. E poi si diverte a fare il ganassa, come si dice a Milano: io in televisione straccio chiunque. Sarà, ma la storia non è nuova. Già nel 2001 il leader del centrodestra si negò a Francesco Rutelli con la giustificazione che il contendente di turno non era altro che un burattino nelle mani di Massimo D’Alema; tuttavia si guardò bene dal concedersi al burattinaio. La cosa si ripete oggi, sette anni più tardi, e la costante è che Berlusconi conduce, secondo i sondaggi, con parecchi punti di vantaggio. Nel 2004, invece, il Cavaliere inseguiva. Le inchieste demoscopiche consegnavano a Romano Prodi un margine di gran sicurezza, ed era ovviamente l’inseguitore a sollecitare il duello con le alte e nobili ragioni della democrazia eccetera eccetera. Alla fine Prodi acconsentì e Berlusconi dovrebbe ricordare - e forse ricorda benissimo - che la sua spettacolare rimonta, madre della fragilità del governo dell’Unione, cominciò da lì. Le scuse proposte da Berlusconi per rifiutare a Veltroni quello che ebbe da Prodi sembrano piuttosto friabili. Siccome stavolta i pretendenti a Palazzo Chigi sono dodici, e non due, gli toccherebbe poi di sottostare ad altri dieci match, avviando uno spettacolare girone all’italiana, come nel campionato di calcio, per un totale di centodieci sfide. A parte che non ce ne sarebbe nemmeno il tempo, questo accadrebbe magari in un Paese un po’ più maniaco del nostro in fatto di regole, e probabilmente un Paese un po’ più maniaco del nostro avrebbe studiato un’altra legge elettorale e mai un mostro ridicolo e costantemente violato come la par condicio. Volendo - se è il rigore legalitario la recentissima moda - il problema sarebbe aggirabile con un confronto pubblico, in piazza, in uno stadio, in un palazzetto dello sport, in un teatro. Ma non è nemmeno questo il punto. Piuttosto, alla vigilia e successivamente alla caduta del governo, Berlusconi e Veltroni avevano annunciato una nuova epoca di fair play, in cui scompariva il nemico e subentrava l’avversario, dove si contrastavano i progetti e non si vilipendeva il progettista. I due si davano cordialmente appuntamento a dopo il voto per un lavoro in comune, chiunque fosse il vincitore, sui temi sommi del funzionamento del Paese, dell’economia e della sicurezza. Gli eccellenti propositi - apprezzati anche da questo giornale - sono andati a farsi benedire a suon di insulti ed è difficile immaginare che Silvio e Walter si incontreranno in Parlamento se non riescono a incontrarsi in seconda serata. Ecco, nel nascondersi Berlusconi sbaglia per diversi motivi, l’ultimo dei quali è la giustificazione. Tutti sanno che non ci sta per rifiutare al rivale, incagliato nei sondaggi, la minima possibilità di recupero, e cioè la medesima possibilità che gli concesse l’arcinemico Prodi. E quando uno è una simpatica canaglia, e fa una canagliata, si aspetti di essere ripagato con la stessa moneta.

mercoledì 26 marzo 2008

le comiche dei sondaggi


Abbiamo letto stamani un gustoso articolo a firma Enzo Costa su l'Unità riguardante la moda dei sondaggi in campagna elettorale, la loro fallibilità e l'uso smodato che ne fa Bruno Vespa all'interno del suo Porta a porta, unitamente al suo sondaggista di fiducia (secondo noi da sfiduciare) Renato Mannheimer. Vi riproponiamo integralmente il caustico articolo. Buona lettura. Porta a Porta e i sondaggi Via col vento

Non escludo affatto di sbagliarmi, di aver rimosso la cosa, di avere una memoria più labile di quella dello Smemorato di Cologno di fiorelliana memoria, se non di Gianfranco Fini (quello che bollò come «comiche finali» il partito del predellino dello Smemorato di Cologno autentico, e che ora gli scodinzola dietro, dopo aver proclamato per il 13 aprile la Festa della Liberazione, per la gioia immemore sua e della nipotina di colui da cui l’Italia grazie al cielo si liberò sul serio il 25 del mese medesimo). Insomma, se ricordo male, sono pronto a rettificare, fatto sta che - per quanto mi sforzi - non riesco a rammentare, da fedele telespettatore di Porta a Porta, che due anni fa, di questi tempi, le puntate elettorali della trasmissione ospitanti i principali candidati al governo prevedessero un elemento oggi costante: la rassegna integrale dei sondaggi sulle intenzioni di voto. Eppure, a ben pensarci, la situazione era specularmente identica o quasi: chi aveva governato in quella legislatura risultava, da pressoché tutte le rilevazioni statistiche, in svantaggio; di conseguenza, chi era stato all’opposizione veniva accreditato di parecchi punti percentuali in più. Situazione simile a oggi, per l’appunto, ma a parti invertite: allora il centrodestra era indietro, e il centrosinistra davanti. Una differenza piccola, ma non irrilevante, è che l’inseguitore del 2006 (Berlusconi) negava fin da subito di essere in svantaggio, e lo faceva definendo (impunemente, ça va sans dire) falsi e comunisti tutti i sondaggi tranne quello da lui mai ben esplicitato, di origine americana, che a suo vaghissimo dire lo dava testa a testa con l’avversario. Mentre l’inseguitore del 2008 (Veltroni) parla da un po’ della rimonta in corso (effettivamente attestata da diverse ricerche), e adesso aggiunge che potrebbe non essere colta del tutto dai sondaggi, senza però mai disconoscere la regolarità dei loro metodi di rilevazione, anche di quelli dai risultati meno favorevoli, che lo piazzano distante dall’avversario. Ma la differenza davvero significativa - sempre che la memoria non mi tradisca - è, lo accennavo poc’anzi, questa: Porta a Porta due anni fa non faceva quello che fa oggi. Vale a dire non affidava all’affabile Renato Mannheimer un periodico bollettino dei sondaggi, non solo di quello realizzato dal suo istituto (che di solito per Veltroni registra un maggiore recupero), ma anche di tutti gli altri, debitamente illustrati da una grafica eloquente, che - partendo dal dato scritto sul partito dell’ospite di turno - consente a ricercatore e conduttore di dire e ribadire la distanza che lo separa dal dato del partito avversario. E l’impatto è notevole: ha voglia, chi insegue, a sottolineare la rimonta (più o meno marcata), l’effetto visivo e sonoro di quel sistematico panorama sondaggistico è - puntata su puntata - una sorta di riaffermazione d’ineluttabilità: il Pdl è in vantaggio, il Pd è in ritardo. Non sto qui a questionare sull’attendibilità di queste rilevazioni. Né a far presente come il ripeterle ossessivamente, con tanto di tabelle a tutto schermo, possa giovare all’esito che esse a oggi prefigurano, persuadendo i molti incerti sull’inutilità di votare per chi è sempre distanziato (come si dice, l’effetto “profezia che si avvera”). Sono qui, più semplicemente, a interrogarmi sulla curiosa diversità con le precedenti elezioni politiche: com’è che (sempre nel caso io ricordi bene) durante la campagna elettorale 2006 l’imparzialissimo Vespa non commissionò al fido Mannheimer un lavoretto simile? Com’è che - a fronte di un Prodi dato in nettissimo vantaggio da tutti i sondaggi eccetto quello fantomatico made in Usa vagheggiato dal Cavaliere - non assistevamo, introdotto dalle accattivanti note di «Via col vento», all’irradiamento sistematico di numerosissime rilevazioni statistiche dei più autorevoli istituti di ricerca attestanti giorno dopo giorno, puntata di Porta a Porta dopo puntata, una sostanziale staticità degli orientamenti di voto, con Prodi in sistematico vantaggio e Berlusconi (a dispetto del suo imprecisato sondaggio) in sistematico ritardo? Il fazioso centrosinistrorso che è in me risponde che ciò avveniva perché - in quel caso - l’effetto «profezia che si avvera» sarebbe stato sgradito al centrodestra. E perché conferire autorevolezza (mostrandoli sistematicamente) a sondaggi che Silvio dava per taroccati, avrebbe scalfito la tesi del Cavaliere, (s)qualificandolo agli occhi dei teleutenti come un bluffatore. Ma sono certo che quel notaio super partes di Vespa saprà fornirmi una spiegazione ben più credibile (sempre che, lo scrivo ancora una volta, io non abbia dimenticato i puntualissimi sondaggi periodici di Porta a Porta 2006).

martedì 25 marzo 2008

i buoni propositi di Antonio Di Pietro


In campagna elettorale, sovente, si ha una certa facilità nel declamare intenzioni, buoni propositi, obiettivi da raggiungere, promesse ai cittadini. Tanto non costa nulla. Chiunque può dire la sua andando a caccia di voti. Ognuno ha la sua strategia mediatica per accattivarsi le simpatie degli elettori. Il prima è molto più semplice del dopo, quando bisognerà mantener fede alle promesse, agli impegni presi e mettere in pratica i buoni intendimenti. Un politico di cui non dubitiamo la capacità di mantenere quello che promette è senza ombra di dubbio Antonio Di Pietro. L'ex magistrato ha dato prova in passato di non parlare a vuoto, soprattutto durante la sua carriera in magistratura, quello che diceva poi faceva. Ora, in questo periodo di campagna elettorale, sta incontrando giornalisti ed elettori, sta facendo circolare le sue idee tramite il suo blog (che è uno dei più visitati), insomma non se ne sta certamente con le mani in mano. E in una recente intervista (che vi proponiamo, http://it.youtube.com/watch?v=k5sOZHG1Jzc) ci fa sapere quali provvedimenti in materia di giustizia prenderebbe nel caso vincesse le elezioni con il Partito Democratico e diventasse ministro della Giustizia. Non c'è che dire. Dei bei propositi, che certamente non faranno piacere al cavaliere. Ma si sa, non c'è mai stata molta simpatia tra Tonino e Silvio, e questa uscita mediatica del leader dell'Italia dei Valori non induce all'ottimismo sua emittenza. Vedersi azzerate le leggi cosiddette ad personam, che con tanta fatica il cavaliere aveva fatto sue durante i cinque anni di interregno politico, non deve essere una bella prospettiva, nè tantomeno l'ideale per dormire sonni tranquilli in caso di sconfitta elettorale e non rielezione a capo del Governo. Già il cavaliere dorme poco di suo, figuriamoci con Tonino alle calcagna...

sabato 22 marzo 2008

abbiamo il "salvatore" dell'(Al)Italia...




Non sapevamo che tra le molteplici qualità di Silvio Berlusconi (oltre alle già note caratteristiche imprenditoriali e menzognere) ci fosse anche quella, a dire il vero abbastanza sbalorditiva, di uomo della Provvidenza, di moltiplicatore di pane e di pesci, in buona sostanza di "salvatore della Patria". Ebbene, a leggere i resoconti giornalistici di questi ultimi due giorni, abbiamo appreso che il cavaliere è in grado (beato lui) di salvare la nostra compagnia di bandiera. L'Alitalia, se non sarà commissariata e se non sarà svenduta all'Air France-KLM, dovrà ringraziare solo e soltanto sua emittenza. Dovrà, come minimo, garantire vita natural durante un carnet di biglietti gratuiti (in Business Class, ovviamente) nazionali, europei e transoceanici a tutta la famiglia Berlusconi, dal capofamiglia all'ultimo dei cugini di terzo grado. Questo solo perchè il cavaliere si è impegnato (unitamente ad una non meglio "cordata" imprenditoriale italiana) a rilevare il 49,9% del capitale sociale di Alitalia, altrimenti destinato al gigante aereo franco-olandese. Di tutto questo bel quadretto, aulicamente italico (anzi per meglio dire, meneghino-padano), ci pare, a nostro modo di vedere, leggermente fuori tempo massimo la lodevole volontà berlusconiana di indossare i panni messianici e miracolistici dell'Unto del Signore (anche perchè questi panni li ha già rivestiti parecchie volte, senza eccessivo successo, nei suoi 14 anni di apparizione terrena). In verità, avrebbe dovuto pensarci prima, molto tempo fa, quando Alitalia dava già evidenti segni preoccupanti di crisi irreversibile economica e gestionale. Avrebbe dovuto far sentire la sua benefica voce già quando gli scioperi del personale di terra e di volo della nostra compagnia di bandiera davano l'inequivocabile segnale di preoccupazione e di incertezza, classico campanello d'allarme di una situazione non più allegramente gestibile. Invece il Nostro che fa? Aspetta scaltramente l'apice della campagna elettorale in corso, capisce che una bella ed efficace proclamazione di intenti risolutori, a proposito della crisi Alitalia, potrà solo che generare nuovi ed allettanti serbatoi di voti (indispensabili in questo momento di incertezza dell'elettorato), utili alla causa del Popolo della Libertà, ma soprattutto opportuno anestetico politico per acquietare le insofferenze leghiste di una eventuale perdita della mitica Malpensa, roccaforte incontrastata dei giochetti padani dei seguaci del Carroccio e del loro affiliato, il presidente della Regione Lombardia, lo sbarbato Roberto Formigoni. Ora noi ci aspettiamo una pronta e decisa risposta all'Uomo dei Miracoli lombardo, da parte del governo ancora in carica per la normale amministrazione. E sia Prodi, sia Bersani hanno il dovere, morale e politico, di far capire al Messia dei cieli che non basta cantare la Messa (proclami, intenzioni di acquisto, e via blaterando), ma bisogna anche (ahilui!) portare la croce. Che è pure bella pesante.

giovedì 20 marzo 2008

aveva ragione Eugenio Scalfari...(capitolo 6)




Eccoci anche oggi a riproporvi un bell'articolo scritto il 14 maggio 1995 da Eugenio Scalfari su la Repubblica dal titolo "Accetto scommesse su Silvio Berlusconi" e come al solito il lungimirante fondatore del quotidiano romano ci vide bene anche in quell'occasione. Buona lettura. Quando ho letto su "24 Ore" la notizia che serie trattative erano in corso tra Berlusconi e Murdoch per la vendita al "tycoon" australiano delle reti televisive Fininvest mi sono detto: se trovo l'interlocutore giusto, stavolta vinco la scommessa del secolo. Purtroppo non l'ho ancora trovato. Volevo scommettere cento milioni che Berlusconi non avrebbe mai venduto nè tre nè due e neppure una delle sue reti, quale che fosse il prezzo che gli veniva offerto. Non ho trovato nessuno, tra le persone d'una certa esperienza del problema, che fosse disposto a prendersi quel rischio, sebbene abbia fatto una dozzina di telefonate ad amici che hanno temperamento da giocatori e sebbene fossi arrivato, per invogliarli, a offrire la mia scommessa uno contro tre. Niente da fare, gli interpellati erano tutti del mio stesso parere. Perciò rilancio pubblicamente la mia proposta: uno a tre che Berlusconi non venderà. Se c'è qualcuno che vuole puntare si faccia vivo entro l'11 giugno, giorno del referendum. Ma poichè non mi piace giocare con le carte truccate spiego subito per quale ragione quella scommessa la vincerei io. Berlusconi - lo so per diretta esperienza - non molla nulla di quello che ha se non per avere qualche cosa in più. E non per avarizia: non è affatto avaro anzi, quando può, sa essere anche molto generoso. Ma ha, come si dice, un alto concetto di sè. Anzi, altissimo. Pensa fermamente di essere il migliore. Dicevano così di Togliatti, ricordate? L'avevano appunto battezzato con quel soprannome, ma in fatto di ritenersi il migliore, Togliatti era un modesto rispetto a Berlusconi. E quando il Cavaliere dice di essere l'Unto del Signore non crediate che lo dica con ironia: lo dice perchè è convinto che la Provvidenza l'abbia scelto a fin di bene. Tutti quelli che lo dipingono come il Cattivo, l'Egoista, l'Uomo Nero prendono un abbaglio madornale. Lui è esattamente il contrario di ciò. Se gli date ragione, se lo aiutate, se gli volete bene ve lo troverete accanto come un fratello. Purchè sia chiaro che è lui che guida, lui che decide, lui che vince. E vincendo, beninteso, fa il bene degli altri. Chi gli si oppone, per lui dev'essere un matto, schiavo di qualche perversa ideologia, complice di qualche turpe e oscuro disegno contro di lui e per conseguenza contro il bene pubblico che con lui s'identifica. Il complesso della vittima, del complotto, del tradimento sono conaturati a questo suo modo di pensare, anzi di essere. Ecco perchè Berlusconi può esser tutto salvo che un liberal-democratico. Lui è un monopolista per intrinseca natura; appena ha conquistato una posizione non pensa che a metter le mani sulla successiva; non gli basta vincere una tappa, vuole vincere il giro, anzi tutti i giri possibili esistenti sul pianeta, e soprattutto detesta i concorrenti: per quelli ha un odio viscerale, quelli sì, li vuole morti, salvo finanziare di tasca propria un bellissimo funerale. Questo è l'uomo, nel bene e nel male, che si pone come campione del libero mercato e della libera concorrenza. Se i comunisti l'avessero aiutato a crescere e a vincere avrebbe giurato su di loro come giurò per Craxi e per Forlani. Era craxiano? Nemmeno per sogno. Forlaniano? Meno che meno. Berlusconi è stato sempre e soltanto berlusconiano; perciò la sua entrata in politica era uno sbocco inevitabile. Chi dice che c'è entrato per difendere i suoi interessi e le sue aziende afferma soltanto una mezza verità e gli fa torto: c'è entrato per fare il bene del paese perchè nessuno poteva farlo se non lui e meglio di lui. Berlusconi di questo è convinto con assoluta buonafede e perciò non cederà un centimetro dello spazio conquistato perchè quello spazio s'identifica secondo lui con l'Italia, con la Patria, con la Famiglia, con l'Azienda, con la Morale, con la Religione e insomma con tutto quanto si può scrivere con la lettera maiuscola. Ho sempre detto che Berlusconi mi è molto simpatico ed è la pura verità. Lui non lo capirà mai, naturalmente, ma appartiene a quel genere di uomini che in determinate circostanze fanno la fortuna d'una impresa e la rovina d'un Paese; quel genere d'uomini che sono pericolosi per definizione, non per quello che fanno ma per quello che sono e che pensano di essere. Perciò non venderà mai quello che è suo. Io comunque sono pronto a scommettere uno contro tre. Sul referendum Berlusconi ha le idee chiarissime: se da un'eventuale trattativa può ottenere di più di quanto possiede oggi, lui è pronto a trattare; ma se così non è, meglio rischiare lo scontro. In realtà egli non ha affatto la sensazione di rischiare perchè è sicuro di vincere e non perchè glielo dicono i sondaggi di Pilo ma per intima convinzione: che c'è di meglio della Fininvest? Nulla. Perciò gli italiani voteranno "no" allo smambramento della Fininvest. Per il Cavaliere questa è una certezza e può anche darsi che abbia ragione. Naturalmente, per ottenere il favore degli elettori, deve dire qualche bugia e la dice e la fa dire dai suoi innumerevoli spot con assoluta tranquillità di coscienza. Il fine giustifica i mezzi, non è vero? E poi, bugiardi sono sempre gli altri per definizione, lui e la verità sono la stessa cosa. La sua bugia consiste in questo: se vincerà il "sì" il giorno dopo non vedrete più quei film, quei quiz, quelle telenovelas, quel Beautiful, quelle partite di calcio, quel Costanzo, quel Mike, quel Funari, quel Fede. Nulla di nulla. Se vince il "sì" spegnerete tre reti di colpo e addio libertà di "zapping": dovrete consolarvi con quelle facce da morto della Rai, punto e basta. Siamo giusti: chi voterebbe "sì" se questa prospettiva fosse quella vera? Io no e molti di voi neppure, credo io. Solo che si tratta di una clamorosa bugia. La vittoria del "sì" non produrrebbe nulla di tutto questo ma semplicemente sancirebbe il principio - del resto già affermato dalla recente sentenza della Corte costituzionale - che lo stesso soggetto non può possedere tre reti televisive (Berlusconi in realtà ne possiede parecchie di più, come tutti sappiamo). Del resto D'Alema ha fatto una proposta e bisognerebbe prenderlo in parola: scelga Berlusconi una qualsiasi legislazione per le televisioni in tutti i paesi del mondo; scelga quella che è disposto a vedere applicata in Italia e noi siamo d'accordo in partenza sulla sua scelta. Perchè non lo fa? Facciamo l'ipotesi di vittoria del "sì". Intanto il giorno dopo non accadrebbe assolutamente nulla: Fede, Funari, Mike e Sgarbi continuerebbero nella loro consueta solfa (il che francamente non è una prospettiva entusiasmante, ma pazienza). Con tutta la gradualità necessaria, la Fininvest dovrebbe vendere prima una e poi un'altra delle sue tre reti. La Rai presumibilmente dovrebbe fare altrettanto. Il mercato farebbe emergere molti acquirenti, italiani e stranieri: editori, imprenditori, cooperative di giornalisti e qualsiasi altro soggetto capace e affidabile. Anche stranieri, perchè no? Berlusconi non tentò forse d'insediare le sue tv in Francia, in Spagna e in Germania? Non gli è andata molto bene, ma ci ha provato e nessuno gli si è opposto. Che c'è di male? Se mi trasmettono un bel film o una bella partita, che m'importa di sapere chi è il padrone dell'emittente? Ma m'importa molto invece se tutte le reti sono in una sola mano perchè allora non sono io che decido chi far entrare in casa mia. Oggi abbiamo tre reti Rai e tre Fininvest più un pò di frattaglie locali inguardabili. Telemontecarlo potrebbe essere una buona tv ma boccheggia perchè i due colossi non le lasciano lo spazio per vivere. Ma se vincesse il "sì" avremmo nove reti in nove mani diverse. Non è meglio nove reti diverse invece di sei sostanzialmente identiche tra loro? E non è meglio, molto meglio per la democrazia e per la libertà d'informazione, non avere un solo Comunicatore? In Francia, in Germania, in Inghilterra, negli Stati Uniti una legge di "par condicio" non c'è e non è necessaria: non serve, e non serve perchè l'offerta televisiva è libera e plurima e non è monopolio di nessuno. Capite la differenza, non è vero? Ma Silvio Berlusconi non la capisce e non per una gretta difesa dei suoi interessi ma per la granitica certezza che il suo prodotto è il migliore del mondo e tutti gli altri sono peggiori del suo. Se la pensate così, votate "no" e la pace sia con voi. E con lui. Così terminava il bellissimo articolo di Scalfari di 13 anni fa, incredibilmente attuale ancora oggi, sia per la figura berlusconiana (mai cambiata nel tempo, nel modo di comportarsi non nel fisico ovviamente) sia per l'irrisolto conflitto di interessi stranamente omesso come tema principale dalla odierna campagna elettorale. Ma gli elettori, credo, sapranno regolarsi di conseguenza...

martedì 18 marzo 2008

il ringraziamento di Giampaolo Pansa




Abbiamo letto, con piacere e soddisfazione tutta personale, l'ottimo articolo di Giampaolo Pansa (nella sua rubrica "Bestiario") a pagina 75 dell'ultimo numero de L'espresso, intitolato "Quei sinistri così ingrati", dedicato alla figura dell'ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Vogliamo pubblicarlo integralmente, anche come spunto di riflessione per qualche lettore, abituale frequentatore di questo blog. E' crudele, ma vera, la vignetta di Emilio Giannelli sul "Corriere della Sera". Il titolo dice: "Prodi lascia: cerimonia d'addio". Si vede il Professore che si affaccia da un sipario chiuso e saluta il pubblico di un teatro, dopo la decisione di abbandonare la politica italiana. Però il pubblico non c'è. La platea è vuota. E vuoti sono tutti i palchi. Il braccio di Prodi si leva al cospetto di un deserto. Nessuno si è presentato a ricambiare il saluto e a dirgli grazie. Non ci vuole una gran fantasia per immaginare chi avrebbe dovuto riempire il teatro. Le illustri chiappe che latitano sono quelle delle tante sinistre italiane: le riformiste, le democratiche, le cattoliche, le post-comuniste, le neo-comuniste, le socialiste, le ambientaliste, le radicali. Tutte si sono dimenticate di quanto devono al Prof. Senza di lui, non sarebbero mai arrivate al governo. E nessuno dei generali rossi, rosa, verdi, biancastri e tricolore, oggi potrebbe vantarsi di essere stato ministro, viceministro, sottosegretario, capo o sottocapo di un qualche staff governativo. Medaglie, non sempre al valore, da esibire nella baraonda elettorale. I tipi sinistri non hanno memoria. E tanto meno sono capaci di gratitudine. Eppure il Prof li ha portati a Palazzo Chigi ben due volte. La prima fu nell'aprile 1996, dopo un antefatto del marzo 1995. Il 10 di quel mese, alla Sala Umberto di Roma, s'iniziò il contatto ravvicinato fra Prodi e i progressisti. Io c'ero e ricordo un teatro zeppo di reduci della Gioiosa Macchina da Guerra, sconfitta l'anno precedente da un tale di nome Berlusconi Silvio. Una platea lottizzata con cura. Una tetraggine quasi sovietica. Un cartello annunciante che lì si sarebbero sfornati temi e idee per "il Polo democratico". Rammento un'arietta stizzosa, da apparati convinti di saper suonare il violino con i piedi. Per dirne una, il capo dei Verdi, Gianni Mattioli, sibilò a Prodi: "Caro professore, non dia per scontato il consenso ambientalista alla sua candidatura...". Volavano freccette al curaro, dove era facile leggere ammonimenti burbanziosi: stai attento, Prodi, non credere di far di testa tua, noi ne sappiamo più di te, noi c'eravamo quando tu ancora non c'eri! E i lanciatori di frecce si confidavano l'un l'altro: questo Prof è un male necessario, un alieno, un marziano, l'ultimo arrivato che ha la pretesa di spiegare a noi come si vincono le elezioni. L'anno dopo, il 21 aprile 1996, grazie a Prodi il centro-sinistra le vinse. Maggioranza assoluta al Senato. Margine risicato alla Camera, un filo appeso agli umori di Rifondazione Comunista. Andò come s'era già capito alla Sala Umberto. Una prima crisi di governo nell'ottobre 1997. Una seconda, fatale, nell'ottobre 1998. Messo fuori gioco il Prof, la sinistra combinò soltanto disastri. Due governi D'Alema. Un governo Amato. E infine, nel 2001, un nuovo trionfo del Berlusca. Passarono cinque anni e il Prof venne richiamato in servizio. Per la seconda volta, le sinistre lo pregarono di essere riportate al potere. E nell'aprile 2006 fece un altro miracolo. Ci riuscì per Santa Scarabola e malgrado il masochismo dei supplicanti. L'Unione, esempio fantozziano di coalizione fra incompatibili, cominciò a sgambettarlo subito, quando la campagna elettorale doveva ancora cominciare. Niente lista del Prof, per timore di renderlo troppo forte. Appena cinque parlamentari prodiani. L'Ulivo soltanto alla Camera, ma niente di simile al Senato. Un programma di 290 pagine, il maxi-progetto del nulla. Infine un'alleanza fra dieci partiti rissosi, capaci soltanto di dilaniarsi. E di far svanire i dieci punti di vantaggio sul Berlusca. Il Prof provò a tenere in strada l'automobile dell'Unione: una vettura sfasciata, con pochissimo carburante (la maggioranza troppo esigua) e sempre al limite del collasso per i contrasti feroci fra i passeggeri. Anche questa volta andò come doveva andare. Adesso diciamo che è stato Clemente Mastella, il fellone, a far cadere il governo. Ma prima di lui, a tradire il patto con gli elettori sono stati gli altri partiti unionisti. Ecco i felloni al cubo, quelli che oggi lasciano vuoto il teatro dell'addio. Certo, anche il Prof ha commesso qualche errore. Proprio lui, uomo di centro, ha pensato di poter tenere insieme le due sinistre, quella ragionevole e quella ultrà, divise dalla storia e dai rancori. E si è fidato troppo della propria capacità di mediare. Ma chiunque altro, al suo posto, sarebbe durato venti giorni e non venti mesi. Poi se n'è andato come gli suggeriva il Fattore D e non C: la dignità. Per questo nel teatro disegnato da Giannelli io c'ero, in ultima fila. Mi sono spellato le mani ad applaudire il Prof. E gli ho gridato: grazie!, manda tutti a quel paese e, prima dei nipoti, goditi la vita. Così termina il bell'articolo di Pansa sull'Espresso di questa settimana. Un giusto e doveroso tributo e ringraziamento al politico che, al contrario del Berlusca, ha cercato di pensare anche ai bisogni della collettività, non soltanto a quelli suoi. E, per concludere, vorremmo segnalare (in maniera molto umile) anche un post che Tpi-back dedicò sul suo blog a Prodi qualche tempo fa (http://tpi-back.blogspot.com/2008/01/eppure-lo-rimpiangeremo.html) e che non ci sembra affatto male...

lunedì 17 marzo 2008

aveva ragione Eugenio Scalfari...(capitolo 5)




Anche per oggi abbiamo deciso di riproporre all'attenzione dei lettori di questo blog un articolo scritto da Eugenio Scalfari su la Repubblica del 22 febbraio 2004, dal titolo esemplificativo e più che attuale: "I politici ladri e i misteri del premier", ovviamente dedicato all'ineffabile cavaliere. Buona lettura. Si ha un bel tentare di parlar d'altro, della qualità della vita, della dignità della morte, della felicità del corpo e delle malinconie dell'anima. Si ha un ben voler analizzare i problemi che il presente ci propone nella loro oggettività e senza pregiudizi. Sforzi frustrati, tentativi falliti perchè rispunta sempre quel qualcuno che ti riporta in fondo, ti obbliga a riconsiderare per l'ennesima volta il fondo del pozzo nel quale il Paese è stato precipitato. Un tempo si diceva: viviamo un'epoca di basso impero, ma oggi è più appropriato definirla un'epoca di basso ventre. Che disgrazia. E che offesa quotidiana. Dovremmo tutti poterci querelare contro quell'offesa se fosse contemplata dal Codice come reato, ma purtroppo non è un reato penale, è molto di peggio: è un crimine etico-politico, attuato con dolorosa consapevolezza da chi del basso ventre ha una conoscenza precisa e la utilizza con una mancanza di scrupoli da far paura. La storia dell'Italia moderna ha già conosciuto parecchi personaggi che, avendo esperienza degli istinti promananti dal basso ventre, li ha utilizzati per conquistare e mantenere il potere; ma nessuno c'è stato così identificabile come quello che oggi ne è il più pervicace rappresentante. Vorrei dire il prototipo, del quale quelli che si sono manifestati prima di lui non furono che abbozzi o precursori in attesa dell'"Unico". Ora l'"Unico" è arrivato, anche - dice Lui - per virtù dello Spirito Santo. Perciò è ancora di Lui che che siamo costretti a parlare perchè tra i tanti problemi proprio Lui è il problema e non è dato di eluderlo. L'altro giorno Lui ha detto con assoluta convinzione: "Ci sono uomini politici che non hanno mai fatto altri mestieri e che oggi possiedono seconde case e barche da diporto. Dove hanno preso i soldi per comprarle? Ve lo dico io: li hanno rubati". Era in viaggio di lavoro in Grecia e di lì, da quel luogo che è stato la culla della civiltà occidentale e della democrazia, ci ha inviato questo pò pò di messaggio. Per trovare i nomi dei ladri non c'era che da identificare gli uomini politici senza altri mestieri nella loro biografia, che possiedono una seconda casa e/o una barca. Questo era l'identikit, il compito di riempirlo con nomi e cognomi sembrava dunque facilissimo e riguardava tutti i settori politici, sia della maggioranza sia dell'opposizione: Occhetto come Fini, D'Alema come Casini, De Mita come Follini, Rutelli come Bossi, Bertinotti come La Russa e via numerando a destra, al centro, a sinistra poichè la seconda casa chi è appena al di sopra della soglia di povertà se l'è costruita o comprata da tempo e la barca a vela è diffusa ormai in tutti i ceti come prima la bicicletta c'era in tutte le case. Perciò le reazioni, gelide o rabbiose, si sono succedute a raffica provenienti da tutte le direzioni; ma l'"Unicum" non si è affatto scomposto. Ha precisato: "Nessuna allusione ai miei alleati". Per i suoi alleati cioè - anche se hanno fatto solo e soltanto politica come professione - vale la presunzione che comprarsi la seconda casa e la barca sia lecito; per tutti gli altri no, sono ladri "iure et de iure". Ma guarda che stranezza. Anche così circoscritto, il campo d'indagine restava tuttavia assai vasto e le proteste continuavano. Ed è qui che si rivela l'uomo tutto d'un pezzo, l'"hombre vertical". E' infatti seguita una seconda precisazione: "Riconfermo quello che ho detto e che ridirei tal quale. Si tratta di ladri che hanno rubato. Alludevo ad esponenti della sinistra con nome e cognome. Potrei farli quei nomi, ma tanto tutti hanno già capito di chi sto parlando". Accidenti! Questo non è soltanto un uomo tutto d'un pezzo, questo è uno che ha la faccia di tolla. Bisogna prenderne atto. E' importante essere consapevoli che il presidente del Consiglio della Repubblica italiana ha una faccia di tolla. Rainer Maria Rilke, poeta e scrittore che privilegio, ha scritto che ciascuno di noi dispone di molti visi e li indossa secondo le circostanze della vita, quando i vecchi visi si sono consumati. Ma il Nostro ne ha, vivaddio, uno soltanto e - lifting a parte - non ha bisogno di averne di ricambio perchè è fatto d'una tolla a prova di bomba. Lamierino magnetico direi. Perciò ora sappiamo. L'ha presa assai alla larga ma alla fine è arrivato al punto: i politici di professione possono comprarsi seconde, terze e quarte case a volontà e barche a vela o a motore quante ne vogliono senza avere nessun obbligo di dire con quali soldi le hanno comprate. Ma ce ne sono tre o forse quattro o forse uno che a Lui stanno talmente antipatici che quella dimostrazione, perdincibacco, la debbono dare, altrimenti gli daremo del ladro e tutti capiranno di chi si parla. Mi permetto di interloquire: io personalmente non ho capito di chi si parla. Avrei detto Casini, i requisiti ci sono tutti, ma Lui lo ha escluso. Allora forse Massimo D'Alema. Però fu uno dei pochi che tentò di dargli una sorta di salvacondotto quando era nei guai a patto che lasciasse in pace la Repubblica italiana. Allora con chi ce l'ha? O si limita ad accarezzare il basso ventre del Paese che con queste contumelie senza indirizzo preciso ma con una destinazione generale che è comunque il Parlamento, ci va a nozze? Il noto terzista Pierluigi Battista ha inventato in una rubrica che pubblica sulla Stampa ogni lunedì una frase efficace; quando vuoi prendere in castagna qualcuno che l'ha detta grossa gli lancia una veemente "fuori i nomi". Mi aspettavo che rivolgesse il perentorio invito anche a Lui, forse lo farà domani. Intanto lo faccio io all'indirizzo di quel qualcuno cui mi sto rivolgendo: fuori i nomi. Se Lui conosce chi sono i ladri ha l'obbligo di denunciarli alla Procura della Repubblica. Se non lo fa incorre a sua volta nel reato di favoreggiamento. Credo che chiunque di noi potrebbe denunciarlo e voglio accertarmene interrogando qualche avvocato amico mio. Sarebbe un divertentissimo processo: Lui denunciato per favoreggiamento; Lui costretto a fare quei nomi; Lui querelato per calunnia dai suddetti nominati. Una storia da cinematografo, della quale mi offro di scrivere gratuitamente il soggetto. Però, dobbiamo riconoscerlo, oltre alla faccia di lamierino magnetico quest'uomo ha coraggio da vendere. Di seconde case, anzi di seconde sontuose ville, Lui ne ha almeno una dozzina per il mondo; le barche poi non si contano, a vela e a motore, dai canotti a vere e proprie navi corsare che farebbero la gioia di Capitan Uncino. E con questo pò pò di roba alle spalle se la va a prendere con i meschini che si sono comprati un rudere in Maremma e una due alberi per regata, che è uno sport raccomandabile per tutti. Certo l'obiezione di "Unicum" è pronta: Lui si è prestato alla politica per salvare l'Italia dai bolscevichi, correva l'anno 1993. Ma Lui però un mestiere ce l'aveva e che mestiere! Talmente bello, talmente produttivo per sè e per tutto il Paese che non l'ha voluto abbandonare a nessun patto. Ha continuato a farlo insieme a quello del politico e chi se ne infischia del conflitto d'interessi che assilla soltanto poche menti malate e poche istituzioni infiltrate dai comunisti. Pertanto Lui i soldi per comprarsi quelle ville e quella flotta ce li ha, se li è guadagnati con il sudore della fronte e più cresce il peculio più è segno che il suo mestiere Lui lo sa fare. Alla grande come dicono i conduttori della tivù. Dunque Lui è in regola, gli altri no. Ma è proprio vero? Qui comincia il problema. Problema serio. Problema pieno d'incognite ancora non risolte. Problema grave. Lui cominciò a lavorare da giovane, poco più che ragazzo. Era pieno di voglia di fare e di guadagnarsi onestamente quanto gli serviva. A scuola s'era specializzato nella stesura dei compiti, li vendeva ai compagni a prezzi onesti e quella era la sua paghetta. Un frugolo così sarebbe una benedizione in ogni famiglia. Poi scoprì d'avere una discreta voce intonata e insieme ad un compare ch'è rimasto poi inseparabile fino ad oggi ed oltre, mise su un duo pianistico-vocale. Fu scritturato da varie orchestrine in lidi turistici a cominciare da Beirut che era ancora la Svizzera del Levante (ah, il Levante!) e poi su navi da crociera dove faceva anche ballare le signore anziane. Il tempo passava e le ambizioni crescevano. Il papà era un onesto impiegato d'una banchetta di Milano che disponeva di un solo sportello. Ciò nonostante era molto nota a Lugano, a Vaduz, a Montecarlo. Se non indovinate il perchè non sarò certo io a dirvelo. Lui intanto lavorava sodo, no so bene a che cosa, le cronache su quel punto sono avare. Si sa soltanto che aveva buone entrate al Comune di Milano all'assessorato dell'Urbanistica e nella commissione Edilizia. Com'è, come non è, trova i soldi per costruire una palazzina. Poi un'altra. Poi un'altra ancora. Alla fine non ti viene fuori che costruisce un intero quartiere, una quasi città dotata di tutti i servizi possibili e immaginabili e siccome è grandioso nelle immagini e nello spirito non te la va a chiamare Milano 2? Gli domandi: ma i soldi per costruire quella roba lì, roba da miliardi, a te chi te li ha dati? Lui ti risponde puntuto: erano gli utili derivanti dalle palazzine. Ma va. Beh, risponde, le banche, colpite dal buon affare delle palazzine. Incredibile, le banche quando prestano centinaia di milioni o addirittura miliardi chiedono garanzie. Quali garanzie poteva dare Lui? Risponde: la fiducia nel mio talento. Se sei stanco di domandare ti fermi lì e fai finta di credergli. Altrimenti continui e gli chiedi: quando hai dovuto intestare i tuoi affari improvvisamente diventati miliardari perchè li hai messi al nome di una ventina di società fiduciarie, 23 per l'esattezza, ognuna delle quali possedeva una fetta delle quote sociali? Perchè questo giochino? Chi c'era dietro quelle società senza nome tanto che le avevi chiamate con i numeri da uno a 23? Risponde, ci sono io e la mia famiglia. Oggi forse, ma allora, a quei tempi chi c'era? La questione ha incuriosito parecchia gente nel corso del tempo, Procure della Repubblica incluse. Ma non se n'è mai venuti a capo. C'è ancora qualche processo pendente ma chissà che fine farà. Chi ci ha provato del resto è stato, metaforicamente parlando, linciato, sicchè per non incorrere nella stessa sorte qui mi fermo. Quel che si dice sull'origine delle sue fortune non oso neppure riferirlo ma sta scritto in libri pubblicati e ristampati più volte e anche in atti della magistratura inquirente. Personalmente non credo a quelle dicerie. Però resta una zona oscura. Ecco perchè dico giù il cappello di fronte al coraggio di quest'uomo: con quella zona d'ombra ancora non chiarita alle spalle ha avuto il fegato d'accusare di furto mezzo Parlamento, poi limitato alla sola opposizione, poi alla sola sinistra dell'opposizione, infine soltanto a tre o quattro senza nome ma provvisti dell'identikit da Lui fornito. Di Lui si dice invece che. Ma fatemi il piacere. Uno così ce l'invidiano dovunque e dovunque lo temono. Infatti lo coprono di complimenti e di pacche sulle spalle ma quando debbono parlare di cose serie si riuniscono tra di loro e Lui lo tengono fuori dalla porta. Per paura. Perchè se Lui entra in quelle segrete stanze surclassa tutti gli altri e se n'è vista la prova durante il famoso semestre. Ci invidiano e ci temono. Ma noi niente, dritti come fusi, nudi alla meta, come si dice. Nudi? In verità ci manca poco. Così terminava il lungo articolo di Scalfari del 22 febbraio 2004, poco più di quattro anni fa. Attuale come oggi, quando il cavaliere ancora parla del "pericolo brogli" alle elezioni. Da che pulpito viene la predica...

domenica 16 marzo 2008

quella mattina in via Fani


Oggi vogliamo riproporre ai lettori di questo blog, per commemorare la strage di via Fani a Roma di 30 anni fa e il rapimento di Aldo Moro, l'articolo scritto da Miriam Mafai per la Repubblica. "L'azione militare di dodici killer". Via Mario Fani, angolo via Stresa. Qui, sotto un'insegna Snack Bar, in una strada medio-signorile che si affaccia ancora su accenni di campagna, è stato rapito, alle 9.15, l'on. Aldo Moro. Il commando era composto di dodici terroristi tra cui una donna. L'autista e la scorta di Moro, in tutto cinque uomini, sono stati massacrati senza pietà, a raffiche di mitra. Moro aveva lasciato la sua abitazione pochi minuti dopo le nove. Doveva recarsi, come abitudine, in chiesa, alla parrocchia di S.Chiara in piazza dei Giochi Delfici e di lì proseguire per Montecitorio, dove Andreotti avrebbe illustrato alle dieci il programma del nuovo governo. A mezzogiorno dieci studenti lo aspettavano all'università per discutere la tesi di laurea. La 130 ministeriale di Moro era guidata dall'appuntato dei carabinieri Domenico Ricci; al suo fianco il maresciallo Oreste Leonardi, detto Judo, da dieci anni guardia del corpo del presidente della Dc. Moro ha scambiato un breve saluto con l'autista, Judo e gli uomini della scorta, che lo seguivano a bordo di un'Alfetta bianca. Il percorso variava e quando gli agenti avevano l'impressione di essere seguiti avvertivano via radio la centrale. Niente di tutto questo è accaduto, Moro, seduto dietro l'autista, quasi accasciato sul sedile, sfogliava il pacco dei giornali del mattino che aveva al suo fianco scorrendone i titoli di prima pagina. E' possibile che ne abbia sollevato lo sguardo solo quando si è reso conto che la sua macchina era stata costretta a fermarsi, aveva tamponato. Allo stop tra via Fani e via Stresa una 128 familiare bianca che lo precedeva, frenava bruscamente. Ma non era un tamponamento: era l'agguato. Tutto ciò che è accaduto da allora è affidato alla ricostruzione della polizia, alle prime incerte testimonianze raccolte in via Mario Fani. Due giovani sarebbero usciti dalla 128 familiare targata Corpo Diplomatico (e risultata poi rubata all'ambasciata del Venezuela) aprendo il fuoco contro la macchina di Moro. Il parabrezza e i due finestrini anteriori, crivellati di colpi, vanno in frantumi. E' una vera e propria esecuzione, messa in atto con professionale spietatezza. L'autista viene freddato con colpi precisi sparati dall'alto in basso, mentre ancora tiene le mani sul volante. Vicino a lui Oreste Leonardi, detto Judo, colpito al petto, scivola giù dal sedile, senza nemmeno poter tentare di tirar fuori la pistola. Dietro c'è Moro. Non sappiamo cosa ha visto, cosa ha sentito, in quel momento. E' questione di un istante. Appostati dietro le siepi del bar dell'angolo, balzano fuori imbracciando il mitra altri componenti del commando: almeno cinque persone. Sono giovani, a viso scoperto, vestiti da steward dell'Alitalia. Il loro obiettivo è l'Alfetta: uno degli agenti viene ucciso sul colpo, il secondo è gravemente ferito (morirà dopo due ore in ospedale). Il terzo, Raffaele Iozzino, riesce a balzar fuori della macchina, dalla portiera posteriore destra, mettendo mano alla pistola. Viene colpito, con precisione professionale, in piena fronte. Cade riverso a terra, le braccia spalancate, la faccia giovane rivolta al cielo, la pistola a un metro dalla mano protesa. Pare certo, tuttavia, che prima di cadere sia riuscito a colpire uno dei terroristi: una traccia che può rivelarsi preziosa. Una ragazza bionda, con il mitra spianato fa da palo in mezzo alla strada, mentre due componenti del commando aprono violentemente la portiera sinistra della 130 ministeriale, ne trascinano fuori Moro (che istintivamente stringe in mano la sua borsa di pelle) e lo fanno salire a forza su un'altra 132 blu metallizzata, già parcheggiata all'angolo con qualcuno al volante. La macchina, fuggita in direzione della Camilluccia, viene ritrovata prima di mezzogiorno, poco distante, in via Licinio Calvo. Sul sedile posteriore ci sono tracce di sangue. Il tutto è durato pochi minuti. I terroristi, secondo una prima ricostruzione, sarebbero stati almeno dodici e si sarebbero serviti di tre o quattro automobili, e di una motocicletta Honda. Delle auto, una, quella utilizzata per il falso tamponamento, è rimasta sul posto, una seconda è stata ritrovata, delle altre per ora non c'è traccia. Alcuni inquilini di una strada chiusa, a poca distanza da via Mario Fani, assicurano di aver visto sopraggiungere poco dopo l'attentato tre automobili: una 132 blu (quella che è stata poi ritrovata) e due 128. Poichè la strada, via Carlo Belli, è chiusa da una catenella, una donna sarebbe scesa dalla prima macchina, avrebbe alzato la catenella, avrebbe atteso che le altre auto passassero, rimettendo a posto la catenella. Anche questo episodio confermerebbe la freddezza del commando e la sua perfetta conoscenza della zona. Sul luogo della strage restano le macchine crivellate di colpi e, sul selciato cosparso di bossoli, il cadavere di Raffaele Iozzino, la borsa di Moro, un cappello azzurro da steward con un fregio in oro: la freccia e un arco a forma di ala. Al posto di Moro, ci sono, abbandonati, giornali, una sciarpa, un impermeabile, una cartella di appunti. Poi la strada è bloccata. Salgono dalla Balduina a sirene spiegate le pantere della polizia, le macchine dei carabinieri, le autoambulanze. Arrivano il capo della polizia, Parlato, il comandante generale dei Carabinieri, i generali Terzani e Siracusano, il procuratore capo della Repubblica di Roma, De Matteo con il sostituto Infelisi, il Questore di Roma, il capo della Mobile. Dietro le transenne che isolano questo campo di battaglia urbana, preme una piccola folla fatta della gente che a Roma, a quest'ora, vive nel quartiere: donne di casa, uomini anziani. Nessuno ha voglia di parlare, un silenzio fatto di attonita paura. Gli agenti della scientifica disegnano per terra decine e decine di cerchi bianchi di gesso per ogni bossolo ritrovato. C'è qualcuno che ha visto. Il figlio del giornalaio che ha l'edicola a meno di trenta metri dal luogo del rapimento. Il giornalaio balbetta: "Ha sentito gli spari, è corso lì per curiosità, si è visto puntare contro un'arma. Non so niente di più, mia moglie sta male". Ora il figlio non c'è, è già stato portato in Questura. "Ho sentito una sparatoria ma non ho capito subito di che cosa si trattava. Sembravano martelli pneumatici" racconta Tiziano Di Febo. "Quando mi sono affacciato ho visto una macchina bianca che partiva a tutta velocità e un uomo piccolo con un giubbotto di pelle che si allontanava di corsa tenendo in mano qualcosa". Una coppia che era uscita per portare a spasso il cane assicura: "Un uomo che faceva parte del gruppo dei terroristi ci ha gridato con un accento strano, sicuramente straniero, forse tedesco: scappate, scappate". Poi è arrivata la moglie di Moro, con il viso contratto, chiamando per nome i ragazzi uccisi: "Li conoscevo da tanto tempo, erano bravi ragazzi". Un giovanotto alto, grosso, rosso di capelli, si fa strada tra la folla, accompagnato da un carabiniere e arriva fino alla macchina di Moro. E' il fratello di uno degli agenti massacrati. Piange ricordando: "Glielo avevo detto proprio ieri: non hai paura a fare questo lavoro? E lui mi aveva risposto tranquillo: e chi lo tocca, a Moro?". Sono le dieci e trenta quando arriva un sacerdote: china la testa, congiunge le mani, si sofferma davanti ad ogni cadavere impartendo l'assoluzione.

sabato 15 marzo 2008

l'informazione rende omaggio ad Aldo Moro


Alla vigilia della commemorazione del rapimento di Aldo Moro e dell'uccisione dei cinque agenti della sua scorta (domani 16 marzo 2008), a 30 anni da quei tragici eventi, giornali, tv e mondo dell'informazione in generale stanno dando giusto risalto all'avvenimento. Noi vorremmo segnalare ai nostri lettori una bella iniziativa del quotidiano la Repubblica, che ieri ha fatto uscire nelle edicole un libro-atlante ottimamente confezionato, dal titolo I giorni di Moro: 196 pagine a colori piene di articoli rievocativi, prime pagine dei giornali dell'epoca, foto, tante foto, in una cavalcata storica che potrebbe essere senz'altro utile a chi nel 1978 non era ancora nato o era troppo piccolo per ricordare. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari 32 anni fa e attualmente diretto da Ezio Mauro ha dedicato un'ampia pagina sul suo sito web (http://tv.repubblica.it/home_page.php?playmode=player&cont_id=18362&showtab=Copertina) corredata di interviste (molto bella quella di Giuseppe D'Avanzo a Miriam Mafai), filmati, copertine di giornali e riviste dell'epoca. Altra segnalazione, di genere televisivo, per alcune puntate de La storia siamo noi (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=1562 oppure http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=969 o anche http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=293 e perchè no http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=786). Per non dimenticare il sacrificio di Aldo Moro.

venerdì 14 marzo 2008

le bugie di Silvio raccontate da Pier Ferdinando




Finalmente un politico che non ha paura di raccontare e svelare il vero volto del cavaliere menzognero. Nel numero in edicola questa settimana de L'espresso c'è una bella intervista di Marco Damilano a Pier Ferdinando Casini nella quale l'ex alleato berlusconiano si lascia andare ad una lunga e confidenziale chiacchierata sulla politica, sui temi sociali e, soprattutto, su giudizi e considerazioni non troppo edificanti nei confronti dello "smemonano" di Arcore durante i loro 14 anni di "convivenza" politica. Ve la proponiamo integralmente. Buona lettura. Nel 2006 c'era Nanni Moretti a capeggiare il fronte anti-berlusconiano con il 'Caimano'. Oggi al suo posto c'è il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini. Provinciale, populista, Putin all'italiana: tutti i giorni dà un calcio al Cavaliere, di cui pure è stato alleato a lungo. "La mia campagna è bilanciata: contro Veltroni e contro Berlusconi", spiega l'ex presidente della Camera: "Non ho alcuna ossessione verso Berlusconi: è un amico, lo considero ancora tale. Ma da anni c'era tra noi un dissenso profondo, la pretesa di inglobarci nel suo partito-proprietà ha fatto traboccare il vaso". Quattordici anni di vita in comune raccontati da Casini: litigi, riappacificazioni, la rottura. "A volte riuscivamo a parlare perfino di politica". Come in una storia d'amore: il suo primo incontro con Silvio? "L'avevo già conosciuto, ma ricordo una riunione nella sua casa romana, in via dell'Anima, dietro piazza Navona. Era il 1992, durante l'ultima campagna elettorale della Dc io, Enzo Carra e Luciano Radi andammo a incontrare lui, Gianni Letta e Fedele Confalonieri. Volevamo farci sentire perché le sue televisioni aiutavano solo i socialisti e non la Democrazia cristiana. Io, in particolare, protestai con una certa veemenza. Su questo punto avevo litigato anche con Arnaldo Forlani, segretario della Dc: lo accusavo di essere troppo morbido nel rivendicare spazi sulle tv di Berlusconi quando c'era lo strapotere di Craxi". Negli anni Ottanta eravate un partito trasversale: il centro della Dc, il Psi di Craxi e Berlusconi. Se lo aspettava un suo ingresso in politica? "Ci chiamavano il Caf: le iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani. Quando i partiti furono travolti dalle inchieste giudiziarie Berlusconi ha avuto la grande capacità politica di colmare il vuoto. Una capacità che gli riconosco ancora oggi".
Voi orfani della Dc eravate messi male: lei si aggirava con un cappello a visiera e Mastella al fianco. Berlusconi ripete: li ho salvati dall'estinzione e mi ripagano così. Ingrati. "Questa è la prima bugia. Berlusconi ha salvato me come noi abbiamo salvato lui. È stato un mutuo soccorso". Beh, lui aveva i voti, voi no. "Berlusconi aveva bisogno di dimostrare che c'era una continuità con una parte della Dc moderata, noi avevamo bisogno di un accordo per sopravvivere. Siamo nati sulla base di un reciproco aiuto, la lista alle elezioni del '94 si chiamava Forza Italia- Ccd. Con noi si candidò anche Giuseppe Pisanu: provò a convincerci che Forza Italia era una scatola vuota e che per noi dc sarebbe stato semplice entrare e guidarla". Perché rifiutò di farlo? "Perché Forza Italia era un partito personale, il partito di Berlusconi. Allora sicuramente, oggi molto di più". Bella scoperta. Intanto lei ci ha convissuto per 14 anni e si è perfino speso per introdurlo nel Partito popolare europeo. Pentito? "Quando mi mossi per far entrare Berlusconi nel Ppe ci fu una riunione in cui Forza Italia si impegnò a svolgere congressi democratici. Da allora, c'è mai stato un congresso nazionale di Forza Italia? In 14 anni non ne ho visto uno! In questi anni i suoi difetti si sono ingigantiti invece di diminuire". Frase da coniuge deluso. Berlusconi le ha mai fatto capire che lei poteva diventare il suo erede, il delfino, come fa con Fini? "Non ho mai creduto né ai delfini né all'eredità. Sono cose che per Berlusconi non esistono". Le mancano le cene di palazzo Grazioli, i gelati del cuoco Michele? "La frequentazione con Berlusconi si è interrotta quando sono diventato presidente della Camera. Mi invitò ad andare da lui e gli risposi che, da quel momento in poi, sarebbe stato lui a venire da me, per galateo istituzionale. Prima ci vedevamo ogni settimana: erano momenti gradevoli, la persona è simpatica. A volte, pensi, riuscivamo a parlare perfino di politica". E il primo scontro? "Subito, nel 1994. Lui, Giuliano Ferrara e Cesare Previti spingevano per portare Carlo Scognamiglio alla presidenza del Senato. Io e Gianni Letta volevamo confermare Giovanni Spadolini, dicevamo che era uno sbaglio enorme". Vinse Berlusconi. Quando si è rotto il rapporto di fiducia tra voi? "Con la presidenza della Camera. Cercavo di essere il garante di tutti e non il braccio armato della maggioranza. Forse era un'interpretazione delle istituzioni che non gli piaceva. Se tornassi indietro rifarei quello che ho fatto. Ho collaborato con un galantuomo come Carlo Azeglio Ciampi, ho servito il Paese con totale rigore". Il Cavaliere le ha mai fatto proposte irricevibili? "Se ti fanno proposte scorrette vuol dire che sei il tipo che se le fa fare. A me non le ha mai avanzate". Oggi Berlusconi dice di lei tutto il male possibile: con lui non parlo, mi basta il suocero, lo schiaccio, lo distruggo... "Sono le cose che ha detto in tutti questi anni e poi ha regolarmente smentito. Poiché l'ho conosciuto bene, non ho mai creduto alle smentite, ma sempre alle indiscrezioni. Berlusconi è come me: non è un uomo che coltiva il malanimo. Ma una grandissima insofferenza, questo sì. A un certo punto non mi sopportava più". Per quale motivo? "L'unica cosa che non accetta nella vita è uno che lo contraddica: io lo contraddicevo sempre, non mi poteva amare". E Fini? Non lo contraddice mai? "Fini lo contraddice nelle riunioni, poi uscito da palazzo Grazioli, negli atti politici, finisce sempre per dargli ragione". Allora il vero figliol prodigo è lui. "Se parliamo di sentimenti, quello che pensa Fini di Berlusconi è quello che penso io, quello che pensa Berlusconi di Fini è quello che pensa di me. Ma, arrivati al dunque, Fini si è sempre piegato, io no. Il caso Ciarrapico è emblematico". Davvero non si è mai piegato? "Poche volte. Ai giovani che incontro dico: ragazzi, in politica i compromessi esistono. Ne avrei fatto uno anch'io anche in queste elezioni, per non dividere i moderati italiani. Se Berlusconi non avesse fatto questo atto di prepotenza nei nostri confronti, probabilmente avrei fatto la campagna elettorale con lui. Ma sono contento che le cose siano andate così. Sarebbe stata una campagna fatta più per convenienza che per convinzione". Lei ha detto che il centrodestra senza l'Udc è come una scampagnata sulla Luna. Ma forse in orbita ci finirà lei... "È un rischio che mi lascia indifferente. Alla Camera il Pdl può vincere, al Senato è più difficile. Ma anche se dovesse vincere, non riuscirà a governare. Vivacchierà e dopo qualche mese le aspettative si trasformeranno in delusioni. Sono attrezzato a fare l'opposizione a Berlusconi, seria, serena, se farà provvedimenti giusti li voteremo. Ma certo non potremo votare la fiducia al suo governo". Lei tuona contro il voto utile: ma la Dc lo ha chiesto in funzione anti-comunista per 50 anni... "La Dc era una cosa molto diversa. E non credo che il partito repubblicano di Ugo La Malfa fosse un partito inutile. Se fosse stato più ascoltato si sarebbe evitata la degenerazione della prima Repubblica". A proposito: Veltroni schiera sindacalisti e imprenditori, come si faceva ai tempi di piazza del Gesù. Il Pd è la nuova Dc? "Il Pd è una gran confusione. Un tentativo di superare la legislatura di Prodi avviando una grande cosmesi della sinistra. Se dovesse governare le contraddizioni esploderebbero subito". Ma come? Lei e Veltroni vi scambiavate biglietti in cui sognavate schieramenti senza Borghezio e Caruso, senza muro contro muro. E ora è tutta una cosmesi? "È positivo che Veltroni abbia liberato la sinistra dall'ossessione anti-berlusconiana. Ma vedo una politica che affastella, senza disegno. In questo c'è un parallelismo totale tra Berlusconi e Veltroni: Veltroni candida radicali e cattolici, Berlusconi mette insieme Fini e Ciarrapico, Mussolini e Giovanardi. Guardi la Spagna: i grandi partiti aumentano i voti, ma sono figli di tradizioni radicate, si innovano, ma restano nelle loro radici. Qui da noi, invece, si vuole costruire un bipolarismo fondato sulla politica senza radici, quella costruita sul predellino dell'auto". Qual è la soglia del successo dell'Udc? "Il mio grado di successo è proporzionale al consenso che maturerà per i partiti maggiori. C'è uno schiacciamento senza precedenti dei media su Berlusconi e Veltroni. Sembra che ci sia un solo candidato in campo. È un gioco delle matrioske: Veltroni e Berlusconi sono uno dentro l'altro. Questo rende ancora più difficile la campagna del voto utile. Dopo che Berlusconi ha accreditato l'idea di poter fare il governo con Veltroni, come fa a proporsi come diga contro qualcosa?". Lei crede alla grande coalizione? "Credo che Berlusconi lavorerà per questo obiettivo. Se fosse una soluzione per i problemi degli italiani e non per i problemi loro, sarebbe positivo. Ma Berlusconi sa che il Pdl è troppo poco credibile e troppo spostato a destra per governare l'Italia. Dopo qualche mese avrebbe milioni di persone in piazza. Per questo vorrebbe fare il governo con Veltroni". Chi potrebbe guidare il governo delle grandi intese? Il leader che arriva primo alle elezioni, come nel caso di Angela Merkel in Germania? "Un'ipotesi che non esiste. In Italia la grande coalizione, per essere credibile, non può essere guidata da uno dei contendenti: né Berlusconi né Veltroni". E allora chi? Il governatore Mario Draghi? Luca Cordero di Montezemolo? "Non mi piace il gossip sui nomi, ma sono due persone che stimo molto". Il 'Financial Times' ricorda che Casini è centrale in ogni trattativa. In caso di grande coalizione lei che farà? "Non mi spaventa l'idea di fare l'opposizione. Sarebbe un'ipotesi suggestiva: una grande coalizione con un'opposizione di centro, moderata, seria". Gli ex dc fuori dal governo. Una cosa mai vista. "Sarebbe una cosa buona. E una scelta molto importante per il futuro del centro italiano. Vedere Fini e Veltroni insieme al governo ci darebbe enormi prospettive. Avremmo spazi larghi come praterie e il tempo per far maturare una prospettiva di governo alta e seria".

giovedì 13 marzo 2008

aveva ragione Eugenio Scalfari...(capitolo 4)




Non possiamo fare a meno di riproporvi un altro splendido articolo (un pò lunghetto per la verità) scritto da Eugenio Scalfari su la Repubblica del 19 aprile 1998, intitolato (ma guarda un pò) "L'adorabile bugiardo" e dedicato (manco a dirlo) al principe dei menzogneri: Sua Maestà Silvio "Big Lie" Berlusconi. Sono trascorsi 10 anni ma le bugie dello "smemonano" non sono affatto invecchiate. Buona lettura. Come tutti gli uomini d'affari e imprenditori di spicco anche Berlusconi aveva il suo soprannome col quale veniva più o meno affettuosamente chiamato dai suoi clienti, dai suoi fornitori, dai suoi concorrenti (pochi questi ultimi perchè ben presto fece piazza pulita intorno a sè). Lo chiamavano il Bugiardo. Non c'era intenzione malevola, era una constatazione oggettiva, era la sua natura invincibile. Diceva le bugie con disarmante candore; le diceva perfino quando non era necessario e neppure utile all'andamento dei suoi affari, non poteva farne a meno. Lo so perchè l'ho visto sul lavoro molto da vicino quando trattò con la Mondadori di Mario Formenton lo scalpo di Retequattro e poi, per quasi due anni, nella cosiddetta guerra di Segrate che si concluse con la divisione in due di quel grande gruppo editoriale del quale anche "Repubblica" e "L'Espresso" per un breve periodo fecero parte. Lui raggiungeva un accordo alla sera e già la mattina dopo l'aveva violato; gli si portavano le prove della violazione compiuta e lui negava e ne dava la colpa all'interlocutore. "Che cosa ha detto oggi il Bugiardo?" ci si chiedeva e quel nomignolo correva in Borsa, nelle case editrici, sul filo del telefono. In Francia, dove era sbarcato con la "Cinq", lo chiamavano "tricheur" perchè dopo pochi mesi anche lì avevano imparato a conoscerlo. Perciò mi ha fatto sorridere l'altro giorno sentirlo in televisione affibbiare il suo soprannome al presidente del Consiglio dall'alto della sua tribuna congressuale che sembrava collocata in cielo, appena un palmo sotto a Dio. Il Bugiardo dava del bugiardo a Prodi: da non crederci. Ma la sua grande forza (chi lo conosce bene lo sa) non sta nel mentire, ma nel credere in perfetta buona fede che le sue menzogne siano verità assolute e incontrovertibili. Affronterebbe il martirio per sostenere le sue bugie. Quando proclama la sua innocenza sulla testa dei figli per quanto riguarda i reati di corruzione di cui è accusato, non bisogna pensare che faccia quel giuramento a cuor leggero: lui è persuaso di essere innocente "nella sostanza"; magari pensa d'aver violato qualche formalismo procedurale ma si sente immacolato come la Vergine Maria nella sostanza. Per questo ha giurato sui figli: se ha fatto passare qualche mazzetta nelle mani della Guardia di finanza, se ha unto un pò di ruote innaffiando di denari magistrati e faccendieri, capi partito e grandi burocrati dello Stato; se questi comportamenti ci sono veramente stati, si può esser certi che lui li ha rimossi, li ha scordati ed è persuaso fino in fondo di avere pagato tutte le tasse dovute, d'aver rispettato tutte le leggi, d'essere stato il campione della più leale concorrenza e soprattutto di essere il più bravo di tutti. Ha vinto la corsa perchè è il più veloce. Questa è la sua verità e lui non soltanto la grida ai quattro venti ma ne è convinto nell'intimo e si ama. Ebbene, uno così non vi fa tenerezza? Insieme all'inesauribile capacità di costruire una montagna di bugie, un altro aspetto del suo naturale talento consiste nell'essere un negoziatore e un venditore nato. Organizzò le sue emittenti televisive andando direttamente a vendere gli spazi pubblicitari agli inserzionisti e bisognava vederlo all'opera: era fantastico. Pur di ascoltarlo vantare il suo prodotto e le virtù pubblicitarie delle sue tv gli inserzionisti erano disposti a comprare tutto ciò che offriva. Gianni Agnelli, che non è un uomo facilissimo, con lui si divertiva come un bambino e lui non chiedeva di meglio che divertirlo. Poi i giochi sono cambiati e i ruoli anche. Ma Silvio nell'intimo è rimasto un bontempone, un imbroglione, un mentitore, un cuore d'oro fin quando non ne vanno di mezzo i suoi affari. Quando può aiuta i poveri e sostiene gli infelici; frega i soci e i concorrenti; sfrutta i dipendenti fino all'osso e infatti nelle sue trecento e passa aziende il sindacato è come non esistesse; truffa lo Stato ritenendo in questo modo di guadagnarsi un pò di paradiso; adora i figli e la mamma; sulle donne ha opinioni precise ma quali siano lo lascio indovinare. Insomma appartiene a quel tipo di italiani che gli stranieri pensano che noi siamo e nel suo breve transito alla guida del governo ha avuto modo di confermarlo: simpatici, vivaci, ignoranti, furbi, inaffidabili. Nel 1994 un uomo così ha fondato un partito, ha vinto le elezioni, ha presieduto un governo. Adesso è il capo dell'opposizione. Le sue aziende continuano a prosperare e lui ne è tuttora alla guida. Un fenomeno, no? Gran parte dei giornalisti che hanno seguito il primo congresso di Forza Italia, pur nella disparità dei commenti, si sono trovati concordi nell'affermare che quello non è un partito di plastica. "Il partito c'è - hanno proclamato - ed è fatto di carne e sangue". Perdinci, hanno ragione: il partito c'è, è fatto di carne e sangue e si vede. Per un caso la mattina del 16 scorso, giorno di apertura del congresso di Assago, andavo a Milano per fatti miei e ho volato su un aereo colmo di delegati di Forza Italia più qualche giapponese in soprannumero. Pur nella differenza dei tipi umani, si riconoscevano a distanza quei delegati, così come del resto si riconoscevano i giapponesi: erano allegri, vitali, distintivo del partito all'occhiello (chi porta più un distintivo di partito?), caciaroni, attaccati al telefonino fin dentro all'aereo malgrado gli inviti disperati delle hostess, desiderosi di fare amicizia, galanti, sboccati, contro il governo (ovvio), contro la politica (un pò meno ovvio), contro lo Stao (più che ovvio), antipatizzanti verso l'Europa. Quest'ultima definizione, che pure risulta chiarissima per chi ci abbia scambiato anche solo due parole, merita qualche spiegazione. In Europa i militanti di Forza Italia ci si sentono di casa; sono in buona parte professionisti e piccoli imprenditori, comunque lavoratori autonomi e benestanti. Con l'Europa ci lavorano, in Europa viaggiano di frequente, molti dei loro clienti e fornitori sono europei. Perciò l'Europa gli sta nel sangue, ma che l'Europa esprima anche un'Autorità e delle regole di convivenza da rispettare, che imponga qualche vincolo e qualche sacrificio, questo no, non gli piace affatto, come i simpatizzanti della Lega, che in questo gli assomigliano come gocce d'acqua. L'Europa, certo; il mercato europeo, certissimo; ma l'Alta Autorità, la Banca centrale, i Commissari di Bruxelles, le direttive comunitarie: vogliamo dunque cascare dalla padella della burocrazia italiana sulla brace delle regole della Comunità? Questo è il comune sentire dei forzisti come dei leghisti. C'è nel loro europeismo un sentore di strapaese che si percepisce a prima vista. Del resto il loro capo è fatto della stessa pasta. Infatti in Europa sono Prodi e Ciampi che ci stanno portando; Berlusconi avrebbe avuto almeno due possibilità di fare il "beau geste" attribuendosi un merito non piccolo: quando cadde il governo Dini e quando Rifondazione provocò la crisi poi rientrata; ma non mise neppure un dito nell'acqua tiepida. Fu un errore politico grave, ma evidentemente non sentiva quel problema. Quanto all'essere o non essere di plastica, forse bisogna intendersi sulla parola. La plastica è un prodotto derivante da materie organiche e ha la caratteristica di essere facilmente plasmabile. La forma che può assumere cambia con estrema facilità secondo lo stampo che le si imprime. Finora lo stampo (assai variabile anche sul breve tempo) glielo ha impresso il fondatore con le sue mani, i suoi logorroici monologhi, le sue televisioni e i suoi coreografi. Assago ne è stata l'ultima conferma con le 122 interruzioni di applausi all'arringa del Capo. Non è plastica? Come la volete chiamare? Il discorso cambia e diventa molto più serio se da Berlusconi e dal suo partito di plastica passiamo ai molti milioni di italiani che l'hanno votato e che presumibilmente continueranno a votarlo. Chi sono? Possibile che non si accorgano, che non ridano di quel fenomeno da baraccone, che non percepiscano la gravità del conflitto di interessi tra il suo aziendalismo e le regole d'una civile comunità, che non giudichino la sua irrefrenabile logorrea di parole parole parole, che non misurino la distanza che corre tra lui e il De Gasperi di cinquant'anni fa rappresentante di tutt'altra cultura e distante anni luce da quella berlusconiana? Ebbene, questa parte così rilevante del paese esprime una sua visione coerente della società e del futuro: rappresenta i bisogni, gli interessi, l'ideologia - sì, l'ideologia - dei produttori proprietari. La vera rivoluzione di questi anni è il graduale ma rapido avvicinarsi di due categorie sociali e mentali che per molto tempo sono state lontane e quasi sempre in conflitto tra loro: produttori e proprietari. Per molto tempo i produttori furono lavoratori dipendenti, salariati, impiegati, tecnici, dirigenti. I proprietari erano i titolari della rendita e del profitto. Tra queste due classi ci fu scontro e il classismo trasse la sua forza ideologica da questa separazione e da questa contraddizione. L'evoluzione sociale sta riunificando questa contrapposizione storica: nasce la figura del lavoratore proprietario e autonomo. Ecco la novità che impone anche alla sinistra un radicale rinnovamento liberale. Mi chiedo se sia questo il gruppo sociale che sta dietro alle bandiere di Forza Italia. Credo che in gran parte sia questo anche se Forza Italia non sia il suo sbocco politico esclusivo. Mi chiedo anche se Forza Italia sia lo strumento politico adatto a rappresentare la "nuova classe" dei produttori proprietari. Credo di no se rimarrà il partito di plastica aziendale che abbiamo finora conosciuto, con la sua vocazione populista e demagogica. Il Berlusconi di Assago e di piazza del Duomo non è il De Gasperi del '48. Quel De Gasperi impose alla media borghesia italiana e all'Italia benestante e proprietaria rappresentata dalla Dc quattro novità traumatiche: la riforma agraria contro il latifondo, la riforma fiscale di Vanoni, i patti agrari in favore della mezzadria, la liberalizzazione degli scambi e l'abbattimento dei dazi doganali. Non a caso il De Gasperi del '48 guidava un partito di centro che, secondo la sua definizione, guardava a sinistra. Io non so se Forza Italia col passare del tempo si avvicinerà a questo tipo di cultura politica. Finora non se ne è visto alcun segnale, anzi si sono visti segnali di opposta specie. Ma se quest'evoluzione non ci sarà, la società dei produttori proprietari resterà senza rappresentanza politica. Ecco un problema estremamente serio per tutti, ecco un impegno di fondo cui la sinistra riformatrice non potrà sfuggire. Così terminava il lungo e affascinante (ed attualissimo) articolo di Scalfari del 19 aprile 1998. Alcuni quesiti, a nostro avviso, esplicitati nel pezzo giornalistico andrebbero posti oggi anche a Veltroni e Bertinotti (oltre che al solito "smemonano"). Saremmo proprio curiosi di ascoltare le loro risposte. Se ci saranno...