l'Antipatico

martedì 30 giugno 2009

un abbandono doloroso, ma necessario!


Quando ho letto la lettera aperta pubblicata sul Corriere della Sera di una ricercatrice italiana di 47 anni e indirizzata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (che proprio ieri compiva 84 anni, auguri in ritardo Presidente), ho pensato cosa avrei scritto se un giorno mi dovessi trovare nella stessa situazione (a prescindere se sono o meno un ricercatore, di notizie forse...) di Rita Clementi, la ricercatrice per l'appunto. Riflettendo, mi sono detto: questo senso di sfiducia e di impotenza espresso dalla signora nella sua missiva l'avrei fatto risaltare anch'io, in una eventuale lettera al Capo dello Stato. Per chi non ha letto la lettera può provvedere cliccando qui (http://www.corriere.it/cronache/09_giugno_29/ricerca_clementi_e10bae7e-646a-11de-91da-00144f02aabc.shtml), agli altri che l'hanno già fatto dedico queste mie riflessioni. Per prima cosa ho notato nella lettera della signora Clementi molta rabbia e altrettanta indignazione. L’esperienza che ha fatto fin qui del nostro mondo universitario le fa dire che è stanca di essere italiana. Sono dell’idea che per voler smettere di essere connazionale di Michelangelo e di Dante Alighieri ci vuole veramente un gran motivo, se e­siste. Ma la denuncia della signora va presa sul serio, e non rubricata velo­cemente sotto l’etichetta (evanescente come tutte le etichette applicate ai ca­si personali) di fuga di cervelli. Qui non si tratta solo di una che fa armi e bagagli perché altrove si potrà trovare meglio. Meglio pagata e meglio rispetta­ta. No, qui c’è u­na donna di va­lore che denun­cia una immora­lità diffusa nel mondo universi­tario e della ri­cerca. Una im­moralità che al di là di questo sin­golo caso è per­cepita diffusa­mente. Una immoralità per così dire di sistema. Il cui esito è una stagnazione nell'ambito della ricerca in Italia. La signora nella sua lettera racconta una serie di frustra­zioni che hanno segnato una carriera che invece scientificamente aveva co­nosciuto a livello internazionale rico­noscimenti importanti e, quel che più conta, la delusione di una donna che ha sot­tomesso i propri interessi e la propria vita privata alla missione di aiutare con la ricerca chi soffre. Non saranno forse molti i casi di que­sto genere. Ma nemmeno pochi. E hanno un grande peso specifico nel­la qualità generale dell’Università. La signora invoca un sistema meritocra­tico, e la rimozione di persone che no­nostante manifesta propensione al maneggio (riconosciuta addirittura dalla magistratura) continuano a se­dere con il consenso dei colleghi nei luoghi dove si decidono posti e car­riere. Una immoralità di singoli che di­venta immoralità di sistema. Il governo sta pensando di varare una riforma per l’Università che, a quanto è dato di sapere, vorrebbe finalmente intaccare questa situazione. Lo spero vivamente. Di sicuro per la signora Rita è tardi, forse non lo sarà per altri. Del resto il proble­ma della immobilità del sistema u­niversitario non si registra solamente nei campi della ricerca scientifica ap­plicata in ambiti come il biomedico, di cui alla lettera della signora Clementi. Anche nel campo umanistico (dalla letteratura alla storia dell’arte) il deficit di capa­cità di ricerca e di trasmissione ade­guata della tradizione alle giovani ge­nerazioni è lampante. Il Presidente si è mostrato in passato sensibile a que­sti temi e lo farà probabilmente anche in questo caso. Ma il problema non può essere risolto neppure dall’impe­gno della più alta carica dello Stato. Occorre un cambio di mentalità ge­nerale, di costume. Il governo può fa­vorirlo, e le leggi possono evitare di cri­stallizzare privilegi e rendite di posi­zione. Ma sarà solo la valorizzazione della passione e la capacità di sacrificio di più e più persone come Rita Clemen­ti che potrà rendere migliore l’Univer­sità italiana. E di conseguenza tutto il nostro Paese.

lunedì 29 giugno 2009

meglio il leader o il programma?


Ho seguito in streaming tv sabato scorso (un piccolo estratto qui, http://www.ustream.tv/recorded/1719670) il congressino autoconvocato da Scalfarotto e altri giovani del Partito Democratico (soprannominati i Piombini) e svoltosi al Lingotto di Torino. Il tema era alquanto intrigante, in vista del prossimo congresso di ottobre: meglio scegliere il leader tra quanti si stanno candidando o meglio scegliere il programma di partito da sottoporre agli elettori (soprattutto ai desaparecidos delle ultime europee) per convincerli a ridare il voto per il PD? Personalmente tendo verso la seconda opzione, come ha anche indicato nel suo intervento al Lingotto la Serracchiani (http://www.youtube.com/watch?v=X77dvaMU8LI). Anche perchè la gente si è stufata del ping pong delle candidature e delle mozioni di sfiducia verso questo o verso quello. Il periodo che stiamo attraversando, anche grazie alle imprese del nostro beneamato presidente del Consiglio, non mi pare dei più floridi e dei più invoglianti all'ottimismo. È alquanto imbarazzante ammetterlo, per qualche verso è persino drammatico, ma se dovessimo votare domani per le politiche ci troveremmo a dover scegliere fra uno schieramento costretto a difendere il proprio leader con difficoltà sempre maggiore e un’opposizione che riesce a galleggiare solo grazie alle disgrazie altrui. Un vecchio marpione della politica come Castagnetti ha sintetizzato la situazione così: «Dobbiamo sperare sempre nelle ragazze del presidente del Consiglio o riusciamo anche a far credere di essere un partito vero di opposizione che punta a governare il Paese?». Bella domanda, non c'è che dire. Comunque, per chi non se ne fosse accorto, abbiamo un capo del Governo, padrone della sua maggioranza, sia pure in mezzadria con Bossi, che si dibatte in difficoltà sempre maggiori e perde credito all’estero, e un Partito Democratico che non è né a vocazione maggioritaria, come disse Veltroni, né tantomeno a vocazione governativa e, infine, non riesce a essere nemmeno opposizione nonostante i tentativi generosi di Franceschini, che a ben guardare qualche risultato mi sembra l'abbia prodotto. Il Paese, in verità, avrebbe bisogno di sapere se c’è un’alternativa credibile e invece nel PD (almeno come la vedo io) si è aperto un balletto deprimente sui nomi, che non ha nessun significato, se non quello di mostrare un partito che si perde dietro vecchie diatribe piuttosto che aprire una discussione seria sulla sua identità e su cosa proporre agli elettori circa i problemi che più assillano il Paese. Ho la netta impressione che anche il PD stia cincischiando sulle risposte da dare alla crisi che continua a preoccupare le famiglie, ai drammi sociali della disoccupazione, alle nuove povertà, alle sfide dell’imprenditoria grande, media e piccola sempre più in difficoltà. La settimana scorsa i giornali raccontavano di Bersani che si candidava a guidare il PD sostenuto da D’Alema, Enrico Letta e altri, mentre Franceschini puntava alla riconferma sostenuto da Fioroni, Marini, Sassoli e altri ancora. Non una parola sui programmi, sulle cose da fare. A volte ai giornali piace anche così. Bisogna pur dire che che la nascita del Partito Democratico è stata affrettata e che i suoi dirigenti si sono trovati subito di fronte alle elezioni politiche lo scorso anno, a quelle europee quest’anno, mentre già si debbono preparare alle regionali dell’anno prossimo senza aver avuto il tempo di metabolizzare entrate e uscite di leaders o presunti tali. Il tempo che rimane prima del congresso non è certo tantissimo e quindi, a maggior ragione, gli elettori avrebbero il diritto di sapere se il PD resterà un partito e non una babele.
I nomi vengono dopo, non prima. La sensazione che si ha di fronte alla proposta di Bersani o a quella di Franceschini è che siano ambedue insufficienti, perché dietro c’è un agglomerato confuso e indeterminato, che non sa da che parte stare.
In questi mesi che lo separano dal congresso di autunno, il PD deve riuscire nell’impresa di convincere gli italiani che, se da una parte (per il Pifferaio e i suoi sodali) le cose non vanno, dall’altra c’è pronta un’alternativa credibile. Per centrare l’obiettivo la condizione è che il congresso sia vero. Franceschini da giovane ha vissuto una vicenda simile, quando la DC nel 1976 celebrò un congresso durissimo al termine del quale fu eletto per una manciata di voti Zaccagnini. Fu vera politica, e quando vennero i giorni dell’ira con il sequestro Moro i partiti italiani fecero fronte comune contro lo sfacelo e la disgregazione. Quella era classe dirigente. Quella di oggi non ho ancora ben capito cosa sia.

domenica 28 giugno 2009

la corruzione come regola di vita


Pochi giorni fa la Corte dei Conti, nella sua consueta relazione annuale, ha messo il dito nella piaga sociale da sempre fedele accompagnatrice delle regole di vita di molti personaggi pubblici italiani, non ultimo il nostro caro presidente del Consiglio: la corruzione. E guarda caso (quando si dice la combinazione...) nell'ultimo numero del settimanale L'espresso un bell'articolo alquanto rivelatore a firma di Peter Gomez ci svela qualche dietro le quinte di un incontro segreto tra il premier e due giudici costituzionalisti che il prossimo 6 ottobre saranno incaricati di vagliare l'incostutizionalità o meno del famigerato Lodo Alfano (presente anche lui alla cena simil carbonari). Per chi volesse leggersi l'articolo si accomodi pure: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/consulta-la-cena-segreta/2102905&ref=hpsp. Tornando al discorso sulla corruzione mi viene da sottolineare come, in quel famoso febbraio del 1992, quando la cloaca di Tangentopoli fu scoperchiata dal ciclone di Mani Pulite, alla maggioranza degli italiani onesti parve d’essersi tolti finalmente dalla pelle una rogna antica divenuta dura come una scorza. Una rogna denominata comunemente corruzione, una specie di cancro indolore, paesaggio dell’ordinario mercimonio fra potere e denaro. Per qualche tempo l'Italia sognò di essersi liberata per sempre da una piaga endemica, intanto che una rivoluzione politica apriva il panorama di una Seconda Repubblica. Purtroppo non c’è voluto molto tempo per capire che il sogno stava sfiorendo, che un Termidoro qualsiasi avrebbe riportato le acque burrascose a ricomporsi in bonaccia, e la polvere dell’esplosione della fogna a ricadere un po’ per volta a ricomporre il grigio. Il fatto è che un ciclone giudiziario non bastava, non bastava una rivoluzione politica: occorreva una rinascita morale. Questa mancò, questa non ci fu. L'altra mattina la Corte dei Conti ci ha avvertito che la corruzione è ancora una piaga che provoca un danno di 50-60 miliardi di euro all’anno. E la stessa cosa l’aveva detta l’anno scorso. E la stessa cosa era stata saputa e ridetta anche negli anni precedenti. E risalendo il tempo ancora, la corruzione scoperta (cioè passata per denunce e processi) risulta pressoché stabile negli ultimi quattro anni, con 3.000 reati all’anno nel libro nero. Ma alla fin fine i reati sono solo l’epifenomeno della corruzione. La corruzione è concetto morale più grande, più grande del codice penale inchiodato al minimo etico. La corruzione non si legge più alla stregua del cittadino concusso, del funzionario comprato, del favore venduto, degli appalti truccati, della mazzette scambiate, del tradimento. La corruzione è soprattutto tutto ciò che sfugge alle maglie dei codici, che dribbla gli scogli del peculato e della malversazione ma che gestisce benissimo il traffico d'influenza, l’olio che lubrifica gli ingranaggi, la raccomandazione, lo scambio di favori senza busta e retrobusta ma con altri favori. Un modo di arricchire e di arricchirsi con accesso a finanziamenti e provvidenze che sarebbero dettate per l’aiuto dei poveri, trasformando il pane dei poveri nella preda divorata dai furbi. Non senza ragione la Convenzione mondiale contro la corruzione, approvata nel 2003 dall’assemblea generale dell’Onu, chiama corruzione non solo le tangenti, ma anche i favori, i privilegi, le opacità dei finanziamenti, il riciclaggio; e poi aggiunge le corruzioni nel settore privato, e questo diventa una specie di shock etico, fuori dei codici. Per chi intende la tensione morale di questa assise del mondo, la corruzione è il tradimento dell’onestà. Vien da pensare che si può corrompere qualsiasi cosa, a questa stregua; persino un campionato di calcio (ricordate Moggiopoli?), o magari una qualsiasi banale amministrazione di condominio. L’Italia, con sei anni di ritardo, si è messa solo pochi giorni fa a ratificare la Convenzione Onu, con un voto al Senato. Il ritardo fa impressione, perché intanto nella graduatoria della corruzione, come percepita dalla gente (vedi Transparency International Italia, http://www.transparency.it/ind_ti.asp) l’Italia ha ottenuto un brutto voto costante, simile a quello dei Paesi in via di sviluppo. Che vergogna. La costanza della vergogna nell’alternarsi di destra e sinistra rende la rampogna costante. Diciamo basta, cambiamo. Cambiamo a cominciare da noi, è chiaro, ma rammentando con fermezza ai potenti di ogni turno un aforisma di qualcuno che certamente fu in grado di dire qualcosa di sensato: «La vita non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto (Alessandro Manzoni)».

sabato 27 giugno 2009

Eugenio Scalfari visto da vicino da Giampaolo Pansa




Per chi come il sottoscritto è stato, per così dire, iniziato alla lettura del quotidiano la Repubblica già dal primo numero (in quel fatidico mercoledì 14 gennaio 1976) grazie anche alla scelta di un fratello ancora fedele al quotidiano attualmente diretto da Ezio Mauro, l'aver letto nell'ultimo libro dato alle stampe dall'ex vicedirettore dell'epoca Giampaolo Pansa (dal titolo Il Revisionista) un lungo capitolo dedicato al fondatore e primo direttore Eugenio Scalfari è stato come tornare, con gli occhi di un bambino, nel luogo e nel tempo di un momento della mia vita indimenticabile, cara e preziosa, che purtroppo mai più potrò rivivere ma che porterò per sempre nel mio cuore. So con certezza che questa rievocazione farà piacere, oltre che a mio fratello, anche all'amico Mauro che del giornale scalfariano è tutt'oggi un fervido sostenitore. Per tutti gli altri che non hanno vissuto direttamente quel periodo a cavallo tra la metà degli anni Settanta e Ottanta, il lungo estratto dal libro di Pansa che mi accingo a riproporre può sostanzialmente aiutare a conoscere, seppur di riflesso e indirettamente, la bontà di un'epoca anche politicamente genuina, libera, non inquinata dal berlusconismo attuale e permettere così un raffronto a dir poco indicativo rispetto ai tristi giorni nostri. Vi consiglio di prendervi tutto il tempo necessario per la lettura. Sappiate in anticipo che non ve ne pentirete. Buona lettura a tutti. Era troppo potente il PCI degli anni Settanta. Doveva emergere per forza qualcosa o qualcuno in grado di limitarne il consenso, l’autorità, il prestigio. Però non era possibile che fosse un partito nuovo. Il campo risultava troppo affollato. L’Elefante Rosso e la Balena Bianca si mangiavano da soli più del settanta per cento dello spazio disponibile. Ma a insidiarli poteva essere un giornale. E fu così che, nel gennaio 1976, nacque “la Repubblica” di Eugenio Scalfari. Avrei dovuto esserci anch’io nella pattuglia dei fondatori. Alla fine del maggio 1975, Scalfari mi telefonò per dirmi che voleva vedermi. E mi convocò per il 2 giugno, festa della Repubblica, in un residence di Milano, in piazza Santo Stefano, a due passi dalla turbolenta Università Statale. Sapevo bene chi era Eugenio. Avevo letto i suoi articoli sull’“Espresso”, uscito proprio nel giorno dei miei vent’anni. Per noi ragazzi di provincia, laici e pencolanti a sinistra, quel settimanale era un Vangelo. Alla pari del “Ponte” di Piero Calamandrei e del “Mondo” di Mario Pannunzio. Ma Scalfari l’avevo visto dal vivo una sola volta. E non mi era piaciuto per niente. Era un pomeriggio del gennaio 1970. Lui guidava a Milano un corteo contro la repressione. E io stavo sul fronte opposto, ma soltanto per motivi professionali: lavoravo per “La Stampa” di Ronchey e, come si usa dire, dovevo coprire l’evento. Mi ero piazzato alle spalle del vicequestore Vittoria, un signore di mezza età, mite, cortese. Di solito toccava a lui decidere la carica della polizia. Con un sospiro, si metteva l’elmetto, indossava la fascia tricolore e ordinava i regolamentari squilli di tromba. Accadde così anche quel pomeriggio. Però non rammento se la carica fu violenta o blanda. Ricordo bene, invece, la figura di Scalfari, a quel tempo deputato socialista. Non aveva ancora la barba e si difendeva dal freddo con un magnifico tre quarti di montone. A non piacermi fu la sua aria supponente. E le occhiate arroganti che scagliava sul povero dottor Vittoria. Come per dirgli: io sono io e tu non sei nessuno. Ma adesso che ci penso, le occhiate di Eugenio potevano essere di apprensione e anche di paura. Del resto, Scalfari non era abituato agli scontri di piazza. Quel 2 giugno 1975 ci scrutammo per bene. Lui aveva cinquantun anni ed era un direttore famoso, io ne avevo trentanove e lavoravo da inviato per il “Corriere” di Piero Ottone. Scalfari mi mostrò le prove grafiche della futura “Repubblica”. Ebbi l’impressione di un giornale piccolo e magro, anche se molto innovativo. E non ne rimasi entusiasta. A colpirmi fu Scalfari. Ieratico, fervido, sicuro di sé, del tutto tranquillo e certissimo di riuscire nell’impresa. Mi spiegò che “la Repubblica” non sarebbe stato un giornale omnibus, buono per tutti i lettori. Voleva rivolgersi a una classe-guida: gli imprenditori, i quadri sindacali, i funzionari, gli insegnanti, gli studenti, i politici nazionali e locali. Aggiunse che intendeva farne un quotidiano liberal. Capace di essere una voce della sinistra, ma senza riguardi per nessuno, a cominciare dagli errori e dai difetti della sinistra italiana alla quale si sarebbe rivolto. Poi concluse annunciando che aveva già iniziato a costruire la squadra di “Repubblica”. E snocciolò i nomi di Gianni Rocca, il suo secondo, di Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Massimo Fabbri, Gianni Locatelli. Voleva aggregarmi alla compagnia come inviato sulle faccende italiane. Gli dissi di no. Intendevo lasciare il “Corriere” soltanto dopo la partenza di Ottone. Lo ringraziai e ci salutammo. Quando “la Repubblica” apparve, il 14 gennaio 1976, in via Solferino le risate si sprecarono. Lietta Tornabuoni sogghignò: «Sembra il “Corriere dei piccoli”!». La nostra sicumera divenne alterigia il giorno che cominciammo a misurarci con i giovanotti di Eugenio. A parte la pattuglia di giornalisti senior, erano dilettanti allo sbaraglio. E inclini alle balle spaziali. Nel giugno 1976, quando a Genova le BR uccisero il magistrato Francesco Coco e la sua scorta, “Repubblica” sparò un titolone di prima pagina che strillava: “I carabinieri lo sapevano”. Poi il “Corriere” di Ottone finì. Il 21 ottobre 1977 Piero se ne andò appena in tempo per non incocciare nell’epoca della Loggia P2. Scalfari fu così generoso da ripresentarmi un contratto da inviato. E all’inizio di novembre misi piede in piazza Indipendenza. In compagnia di Bernardo Valli, anche lui uscito da via Solferino. Ho lavorato a “Repubblica” per quasi quattordici anni: il primo da inviato, gli altri da vicedirettore a fianco di Rocca. Non mi era mai successo di restare tanto a lungo in un quotidiano. E oggi mi sembra un tempo immenso. Impossibile da rievocare in queste pagine. Qui mi limiterò a ricordare qualcosa su Scalfari. Il fondatore, il padre-padrone, il capo assoluto, l’anima e il corpo del giornale. “Repubblica” non sarebbe mai nata senza il suo genio professionale. E senza l’aiuto della Mondadori, allora guidata da Mario Formenton: editore coraggioso e galantuomo di quelli rari, affiancato da Giorgio Mondadori, figlio di Arnoldo. Nell’autunno del 1977, Scalfari aveva cinquantatre anni ed era alto, magro, con una gran barba grigio bianca e il portamento fra l’altero e il solenne. Carlo Caracciolo, il suo vecchio amico e socio, avrebbe poi detto: «Eugenio porta la testa come il Santissimo in processione». Era il tocco della perfezione per il ruolo che Scalfari si era scelto: il mattatore di un quotidiano tutto diverso dagli altri. E destinato a influenzare in modo profondo la stampa italiana, obbligandola a cambiare. Ma sulle prime il futuro di “Repubblica” non sembrava per niente fatto di rose e fiori. Quando entrai in piazza Indipendenza, il giornale non navigava in acque tranquille: vendeva poche copie e la pubblicità scarseggiava. Tuttavia Scalfari aveva un’illimitata fiducia in se stesso. Ed era convinto che, prima o poi, il successo sarebbe arrivato. Ecco la prima regola che vidi applicare da Barbapapà, come lo chiamava la parte più giovane della redazione. La regola diceva: non dubitare mai delle proprie superiori capacità ed essere sempre certi di sfondare. Era questa sicurezza granitica a renderlo forte. E a non fargli mai perdere di vista il traguardo che si era dato: conquistare il primato fra i quotidiani nazionali. Scalfari sapeva più di chiunque che non sarebbe stato facile arrivarci. L’ambizione non bastava, bisognava applicarsi al compito con una dedizione totale. Di chi è disposto a profondere tutte le proprie energie intellettuali e fisiche pur di non fallire, ma di vincere, e di vincere come nessuno prima ha fatto. Anche negli anni successivi mi avrebbe sempre sorpreso la forza di Eugenio. Era una pila inesauribile di vitalità. Mi sarebbe capitato di vederlo triste, angosciato, ferito, persino umiliato, però mai stanco. Alle dieci della sera, al termine di una giornata stressante, era inevitabile sentirsi degli stracci. Ma a Scalfari non accadeva. Ritornava in piazza Indipendenza dopo una cena di lavoro con chissà chi e si disponeva a cambiare quasi tutto. Per rimediare ai nostri errori. O semplicemente per fare meglio, sempre meglio. Era anche un modo per riaffermare di continuo il suo ruolo di comandante indiscusso della squadra di giornalisti. Tutti scelti da lui, uno per uno. Un vantaggio del quale altri direttori non disponevano, ma che andava reso concreto ogni giorno. Nell’autunno del 1977, la banda di “Repubblica” non superava i sessanta redattori. In parte erano firme strappate ai quotidiani già sul mercato. Ma in maggioranza si trattava di giovani alle primissime armi. Su di loro Eugenio aveva un potere assoluto che lui sapeva esercitare con l’accortezza di far sentire importante chiunque. Ne era una prova la riunione del mattino, dove si decideva il programma della giornata. L’incontro non era riservato soltanto ai capiservizio e al vertice del giornale, come accadeva nelle altre testate. Anche l’ultimo dei redattori poteva parteciparvi. Con diritto di parola, di proposta e di critica. Barbapapà ascoltava tutti. O fingeva di ascoltarli. Su un foglietto prendeva nota delle obiezioni e dei consigli, anche quando sapeva che erano inutili o da non tenere in conto. Era un esempio astuto di democrazia professionale che serviva a registrare gli umori della truppa e, al tempo stesso, ribadire la propria autorità. E ogni volta, dopo aver fatto un esame impietoso del numero appena uscito, Scalfari informava la sua gente sui progressi nella vendita del giornale. A partire dalla primavera del 1978, quando ebbe inizio il boom di “Repubblica” grazie al lungo sequestro di Moro, tutte le mattine Scalfari leggeva alla redazione il bollettino della diffusione. Da allora mantenne questa abitudine sempre, con una scansione via via più trionfale: «Abbiamo superato “Il Messaggero”, vendiamo più della “Stampa”, ci stiamo avvicinando al “Corriere”...». Rammento un suo proclama scherzoso: «Quando avremo battuto il “Corrierone”, vi sarà riconosciuto il diritto allo stupro e al saccheggio!». Ma il tono del comandante in capo non sempre poteva essere trionfale. Spesso risultava arduo trasformare un’idea giusta o un’intuizione felice in un articolo ben fatto, croccante, scritto con eleganza vivace ed esattezza di dati. In quel caso, Barbapapà era costretto a vestire i panni dell’insegnante deluso, alle prese con una scolaresca riottosa a imparare. Ho sott’occhio un suo ordine di servizio del 21 dicembre 1978, consegnato a tutti i redattori: “Cari colleghi, devo dirvi con molta franchezza che la qualità media del lavoro, sia di scrittura che di controllo e messa in pagina, e anche di acquisizione di notizie, è deludente. In questo periodo ci sono stati esempi macroscopici di trascuratezza, di leggerezza professionale e addirittura di irresponsabilità. Questa situazione si protrae fin dall’inizio della vita di ’Repubblica’...”. Spesso i rilievi erano diretti a singoli giornalisti, sempre per iscritto. Anche in quel caso la lezione era dura, ma si concludeva con un consiglio per poter “fare meglio”. Ne leggo una: “Roma, 23 febbraio 1980. Caro X, il tuo pezzo di ieri è nettamente inferiore alla tua capacità e all’importanza del fatto di cronaca che ti era stato affidato... Fin dalle prime righe il servizio deve portare il lettore al centro dell’atmosfera di quanto è accaduto. Ha bisogno di una prosa adeguata. Di una descrizione dei personaggi da far rivivere sulla pagina, con i loro sentimenti, le loro angosce, i loro dolori, la loro violenza... Fare il cronista non è un mestiere facile, richiede spessore umano, intuito, rapidità, cultura”. Ma è nel rapporto con i partiti che Scalfari si rivelò imbattibile. Nel confronto-scontro con le tante parrocchie politiche, a cominciare dalle più forti, Eugenio era mosso da una convinzione ferrea: il direttore di “Repubblica” contava molto di più di qualsiasi leader di partito. Riassunta così può apparire una presunzione senza fondamento. Invece era una rivoluzione copernicana per il giornalismo italiano. Molti direttori si sentivano piccoli rispetto a questo o a quel big. Scalfari era certissimo dell’opposto. Il Sole era lui, Barbapapà, mentre i leader politici erano soltanto dei pianeti senza importanza che gli ruotavano intorno. Un giorno spiegò alla truppa: «Quando loro non ci saranno più, il nostro giornale sarà ancora qui, sempre più influente, sempre più letto». Nel braccio di ferro con i partiti, Scalfari aveva un’arma segreta, un metodo di guerra imprevedibile e in grado di spiazzare chiunque: la linea politica libertina di “Repubblica”. L’aggettivo “libertino” gli piaceva molto, applicato al suo giornale e quando parlava di carta stampata. Per esempio, sosteneva che fare bene un settimanale come “L’Espresso” era possibile soltanto se il giornalista scelto per dirigerlo era capace del libertinaggio più sfrenato. Lo disse quando uno dei nostri colleghi più bravi, Paolo Pagliaro, caposervizio della politica interna, lo informò di aver ricevuto un’offerta dal settimanale di via Po e che l’aveva accettata. Scalfari tentò invano di dissuaderlo. Gli disse: «Tu sei un uomo d’ordine, tutto d’un pezzo, molto coerente e rigido anche con te stesso. Sei il contrario del libertino. Quello che invece occorre a un giornale come “L’Espresso”». Per direttore libertino, Eugenio intendeva un giornalista spregiudicato, fantasioso, sorprendente, capace di cambiare sempre cavallo e non impacciato da troppi lacciuoli. E anche pronto a contraddirsi. Disposto a pubblicare un servizio o un’opinione che smentiva quanto aveva stampato nel numero precedente. Determinato a ospitare firme che facevano a pugni l’una con l’altra. “La Repubblica” di Scalfari fu per anni un giornale dedito al libertinaggio intelligente. La pagina dei commenti non era monocorde come accade oggi. Anche gli articoli sfornati dalla redazione spesso si contraddicevano. L’esempio più clamoroso fu la coesistenza di due linee opposte nel raccontare e giudicare il terrorismo brigatista: quella di Bocca e la mia. Nella primavera del 1980, Scalfari arrivò al punto di farci scontrare in un dibattito destinato alla pubblicazione. Il risultato fu una doppia pagina della sezione Cultura, scritta da un giovane e preoccupato Lucio Caracciolo. Anche in questa scelta l’obiettivo di Eugenio era sempre lo stesso: raccontare la complessità della situazione italiana, conquistare nuovi lettori e dimostrare ai partiti che era lui, e non loro, a condurre il gioco. Dall’avamposto di piazza Indipendenza, il Libertino andò subito all’assalto dei lettori comunisti, strappandoli uno per uno a una tetra “Unità” e a un traballante “Paese sera”. Scalfari vinse a mani basse. Tanto da far dire a Giancarlo Pajetta: «“La Repubblica” è il secondo giornale dei comunisti che però lo leggono per primo». I militanti del PCI vennero conquistati con la linea della fermezza nei molti giorni del sequestro Moro. Il calvario del leader democristiano fu raccontato da noi con una cura senza precedenti. E procurò al giornale un successo di vendite decisivo. La prima fotografia di Moro nel carcere delle Brigate Rosse mostrava il prigioniero che teneva in mano una copia di “Repubblica”. Uno spot orrendo, ma formidabile. Quasi una manna dal cielo, che nessuno in piazza Indipendenza si aspettava. I democristiani cominciarono a leggere “Repubblica” nello stesso periodo. Compresi quelli che erano per la trattativa su Moro. E non l’abbandonarono più. In seguito, quando Ciriaco De Mita divenne segretario della DC e restò a Piazza del Gesù per sette anni, dal 1982 al 1989, il Libertino si prese una sbandata per l’Uomo di Nusco. Era convinto che avrebbe modernizzato l’Italia, al punto di trasformarla in una Svizzera mediterranea. Ma si ravvide presto. E soprattutto non si sentì mai inferiore al gran capo della Balena Bianca: era Scalfari a consigliarlo, e non il contrario. Fu a corrente alternata anche il rapporto con Bettino Craxi, divenuto segretario del PSI proprio nell’anno di nascita di “Repubblica”. Ma in questo caso il libertinaggio di Scalfari fu assai contenuto. I due non si potevano soffrire, com’era fatale tra protagonisti che un tempo avevano vissuto nello stesso partito. Erano diventati deputati nel medesimo anno, il 1968, e nella medesima circoscrizione, la Milano-Pavia. E lì avevano cominciato a non sopportarsi. Per le solite questioni legate al voto di preferenza, ma soprattutto a causa del carattere, più ancora che della posizione politica. Bettino riteneva Eugenio un subdolo filocomunista e lo avversava con asprezza. E non poteva accettare che un direttore di giornale si sentisse superiore a chi era stato scelto dagli elettori, ossia dal popolo. Eugenio lo ripagava con gli interessi. A dividerli senza rimedio fu poi una disistima profonda. Durante il sequestro di Moro, lo scontro divenne pesante. Craxi era per la trattativa e Scalfari per la fermezza. L’elezione di Sandro Pertini al Quirinale, sostenuta da “Repubblica” e contrastata invano da Bettino, li separò ancora di più. I craxiani arrivarono a dire che Barbapapà era il capo del Pinf, il Partito irresponsabile dell’informazione. Eugenio li ricambiò coniando per il leader del PSI il soprannome di Ghino di Tacco, il bandito di Radicofani. Senza mettere nel conto che, per schernirlo, Craxi avrebbe cominciato a firmare in quel modo i suoi corsivi sull’“Avanti!”. Nella primavera del 1989, Scalfari e Caracciolo vendettero a Carlo De Benedetti le loro azioni del Gruppo Espresso-Repubblica. E diventarono miliardari. L’Ingegnere gli suggerì di costituire un fondo di solidarietà per i giornalisti del quotidiano e del settimanale. Così avrebbero potuto aiutare i colleghi in difficoltà e le loro famiglie, utilizzando una quota microscopica dei tanti denari ricevuti. Ma entrambi rifiutarono il consiglio di De Benedetti. Per tirchieria o perché non ritenevano che tra i loro compiti ci fosse anche la beneficenza. Smentendo la loro proverbiale astuzia di imprenditori, non seppero rendersi conto di quanto stava per succedergli in casa. O forse lo immaginavano, però se ne infischiarono. Dopo la vendita, un malumore prima mai visto incrinò la redazione di “Repubblica”. E anche il carisma di Barbapapà ne fu intaccato. Lo si vide alla fine di quell’anno, quando Silvio Berlusconi scatenò la guerra di Segrate per la conquista della Mondadori e di “Repubblica”. Una parte dei giornalisti, con Bocca in testa, si schierò con il Cavaliere, suscitando l’ira stupefatta di Eugenio. Poi emerse la mediazione di Giulio Andreotti, condotta con intelligenza da Giuseppe Ciarrapico. Il Libertino salvò il giornale, ma non il proprio mito personale. Rimase il comandante in capo di piazza Indipendenza. Però troppo carico di soldi per poter conservare l’immagine illibata che tutti i leader debbono sempre mostrare alla truppa che li segue. Cominciò qualche partenza non prevista da Eugenio. Il primo ad andarsene subito, all’inizio del 1990, fu Giuseppe Turani. Sembrava molto legato a Scalfari e aveva scritto con lui "Razza padrona", un bestseller sul capitalismo italiano, uscito nel 1974. Era la star dell’economia di “Repubblica” e passò al “Corriere della Sera” proprio quando stava cominciando lo scontro con Berlusconi. Barbapapà si sentì pugnalato alla schiena. Ma qualche anno dopo gli perdonò lo sgarbo e lo volle di nuovo al giornale. Io lasciai “Repubblica” nell’estate del 1991. A guerra di Segrate conclusa e dopo aver pubblicato nel 1990 dalla Sperling & Kupfer "L’intrigo", un libro molto repubblicano, anzi scalfariano, sul conflitto con Berlusconi. Claudio Rinaldi mi aveva chiesto di andare con lui all’“Espresso”. Scalfari non la prese bene, come se il mio fosse un gesto di insubordinazione. O un tradimento. Quando lo seppe, mi disse a denti stretti: «La tua stanza resterà vuota. E Rocca rimarrà l’unico vicedirettore». Nell’aprile 1996 anche Scalfari se ne andò, lasciando la direzione del giornale al più giovane Ezio Mauro. Da pochi giorni aveva compiuto settantadue anni. Rimase nel gruppo, come editorialista principe di “Repubblica” e dell’“Espresso”. Via via diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo. E lo sguardo non più rivolto alla ciurma redazionale, bensì a un orizzonte lontano che pochi riuscivano a intravedere. Il trascorrere degli anni ha cancellato i rapporti tra noi. Per colpa mia o per colpa sua. Forse per colpa di entrambi. Quando morì Gianni Rocca poco più di tre anni fa, ci ritrovammo a dare l’ultimo saluto a un amico che, con Barbapapà, aveva costruito più di chiunque il successo di “Repubblica”. Nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi. Non ne rimasi stupito. Era il febbraio 2006 e avevo già cominciato a pubblicare i miei lavori revisionisti. Sapevo che a Scalfari non erano piaciuti. L’aveva fatto capire nel rispondere a una lettrice del “Venerdì”, il supplemento settimanale di “Repubblica”. Quella signora gli aveva chiesto se avrebbe letto un mio libro uscito in quei giorni. Eugenio rispose di no. E si disse certo che non potevo aver raccontato nulla di nuovo. Scalfari aveva un rapporto curioso con il fascismo. Da giovane era stato un mussoliniano entusiasta e aveva scritto su “Roma fascista”, il giornale del Gruppo universitario della capitale. Poi era stato espulso dal GUF per aver sostenuto in un articolo che il partito era inquinato nella sua tempra morale da profittatori attenti solo ai propri interessi. Dopo l’armistizio non aveva fatto nessuna scelta. Troppo astuto per aderire alla Repubblica sociale e poco coraggioso per andare con i partigiani. Quando aveva vent’anni riparò con i genitori in Calabria, a Vibo Valentia, in una proprietà degli Scalfari. Dove se ne rimase tranquillo sino al 1946. Nei tanti anni trascorsi insieme a “Repubblica” non abbiamo mai discusso della guerra civile. Eravamo antifascisti entrambi. Ma di quella guerra, e delle polemiche storiografiche e politiche su una stagione di sangue, a Eugenio non importava niente. Forse le considerava faccende senza rilevanza, vecchie e noiose. Faccende da reduci. E lui non era reduce da nulla. Quando gli capitava di occuparsi della Resistenza, Scalfari di solito si sdraiava sul luogo comune, sulla linea più banale. Ma incappando in giudizi non sempre coerenti. All’inizio degli anni Novanta, scrisse in un editoriale su “Repubblica”: «La guerra partigiana e la Resistenza non furono un fatto di una piccola minoranza combattente, ma di tutto un popolo». Niente di strano, lo aveva già detto il comunista Longo, in un libro del 1947. E lo ripetevano tutti i retori della lotta di Liberazione. Poi Giordano Bruno Guerri, sul “Giornale” del 6 giugno 1994, lo pizzicò rinfacciandogli una contraddizione. In uno dei suoi libri, "L’autunno della Repubblica", pubblicato nel 1969 da Etas Kompass, aveva sostenuto l’esatto contrario: «La Resistenza fu un fatto di minoranza, limitato sia geograficamente (interessò soltanto l’Italia a nord dell’Arno) sia socialmente». Quisquilie, cose da nulla. Rispetto alle bordate che il PCI di Enrico Berlinguer sparò contro “Repubblica”. Quando si rese conto che Scalfari era davvero un libertino. E non voleva saperne di fare i comodi delle Botteghe Oscure.

martedì 23 giugno 2009

questa insopportabile disaffezione per il referendum


A bocce ferme, come si suole dire, il ragionamento sul dopo referendum mi viene meglio. Le prime ore di domenica avevano comunque già dato il responso sul flop dell'affluenza alle urne, confermato in modo crudele e matematico ieri pomeriggio. E alla luce di questo ennesimo fallimento di un referendum abrogativo una riflessione su tale istituto si impone nei fatti. Il mancato raggiungimento del quorum per la validità di questo referendum elettorale, è bene sottolinearlo, è in massima parte frutto di una consapevole scelta da parte delle elettrici e degli elettori di questa malata democrazia italiana. E le ragioni sono evidenti. Ancora una volta i cittadini hanno inteso ribellarsi all'ennesimo tentativo, provocato o sostenuto dai principali partiti, di togliere di fatto il diritto di voto a quanti non si riconoscano nelle loro proposte. Che le principali forze parlamentari possano giungere ad auspicare una distorsione, per via elettorale, del carattere rappresentativo dell'organo parlamentare stesso, e che tale risultato si sia tentato di raggiungere per via di un referendum sono elementi che la dicono lunga sull'attitudine di devozione alla democrazia di parte della nostra classe politica. Ma non è ora il momento di discutere del ruolo dell'astensionismo quale strumento di difesa dell'opportunità di mantenere una effettiva rappresentatività del Parlamento, senza vedere schiacciata la propria libertà di voto dall'assenza di alternative oltre la scelta tra i due schieramenti potenzialmente maggioritari. Cosa resta allora dell'istituto referendario? Con la deliberazione referendaria i cittadini possono soltanto rispondere con un SI' o con un NO ad un quesito che non soltanto viene loro imposto, ma che giunge loro corredato altresì delle interpretazioni indispensabili al fine di comprenderne gli esiti, di collocarne gli effetti nel già di per sé complesso sistema normativo. Così come per la comprensione dei quesiti, la interpretazione dei risultati del referendum è infatti in balìa dei soggetti che abbiano accesso agli strumenti di comunicazione di massa, con tutti i rischi connessi all'assoluta assenza di pluralismo, come nel caso dell'Italia. I cittadini non scelgono l'oggetto della deliberazione, che viene loro imposto dai promotori; non possono discuterne i contenuti; non possono emendare il quesito. Possono soltanto decidere se andare a votare e se votare SI' o NO alla richiesta. E se il referendum può essere utilizzato come strumento di opposizione, molto spesso rischia all'opposto di divenire strumento di regime, per trascinare in una delibera plebiscitaria un'iniziativa delle minoranze al potere, ammantandola così del crisma della volontà popolare. Oppure esso può assumere il significato di una vera e propria ordalìa per la soluzione di un conflitto politico, ordalìa che matura in un contesto di crisi su sollecitazione di soggetti dotati del privilegio di un diretto canale di comunicazione con il popolo. Per salvare il referendum dalla crisi in cui lo hanno ridotto gli abusi e le distorsioni procurate dai professionisti di tale strumento, l'istituto va allora ricondotto entro i confini del disegno costituzionale in cui era stato pensato, per rappresentare uno stimolo, una provocazione, una sanzione politica nei confronti delle istituzioni rappresentative, ma non la chiave di volta per consentire ad una occasionale parte politica di assumere la gestione diretta di una determinata fase della vita istituzionale del Paese. Come i limiti previsti dall'art. 75 della Costituzione lasciano intendere, i referendum non possono incidere sulle materie fondamentali dell'indirizzo politico né sulle materie che non possono essere lasciate nella disponibilità della sola maggioranza, tra le quali dovrebbe essere evidentemente ricompresa la legge elettorale. Tale istituto non può divenire strumento della determinazione della politica nazionale alternativo alla rappresentanza parlamentare. I controlli previsti dalla Costituzione e dalla legge, al fine di evitare abusi ed effetti distorsivi, devono essere resi conformi alla vocazione di tale istituto, imponendo legislativamente alla Corte Costituzionale di abbandonare la via dell'arbitraria asistematicità nel giudizio di ammissibilità del referendum. Forse una strada possibile sarebbe quella di alleggerire la pressione mediatica ed istituzionale sulla Corte, anticipando il controllo di ammissibilità ad una fase anteriore alla raccolta complessiva delle firme, prevedendo una prima fase di presentazione del quesito, magari con il sostegno di centomila sottoscrizioni e soltanto dopo la relativa dichiarazione di ammissibilità, la previsione della fase di vera e propria formulazione della richiesta, sostenuta da almeno un milione di elettori. Non credo invece che sarebbe saggio eliminare il quorum di validità del referendum abrogativo, cosa che implicherebbe oltretutto una revisione della Costituzione, a fronte dei rischi di affidare una delibera che incida su una legge della Repubblica al solo consenso di un'esigua minoranza. E' vero, si potrebbe pensare ad una riforma dell'istituto referendario che abbia questi o altri connotati. Ma non prima di aver comunque riflettuto e lottato per la pretesa di un ritorno ad una effettiva democrazia rappresentativa, con un Parlamento liberamente eletto e rappresentativo di tutti i cittadini, non soltanto dei leaders dei due principali partiti. O addirittura di uno soltanto.

domenica 21 giugno 2009

tutte le topolone del potere politico


Avrà pure 72 anni, ma la gnocca gli piace eccome. Avrà la prostata fuori uso (come ha maliziosamente ricordato Vittorio Feltri in un suo recente editoriale) ma certi giochetti si possono fare anche nelle sue condizioni. Insomma, per farla breve le donne del Pifferaio non stanno a guardare il pelo nell'uovo, ma danno una semplice occhiata al loro conto corrente che, è indubbio, aumenta il saldo disponibile ogni qualvolta avviene un incontro a Palazzo Grazioli o a Villa Certosa. Tanto per fare il riassunto delle puntate precedenti, Patrizia D'Addario dixit: «Sono arrivata a Roma e sono andata in taxi in un albergo di via Margutta, come concordato. Un autista è venuto a prendermi e mi ha portato all'Hotel de Russie da Giampaolo Tarantini. Con lui e altre due ragazze siamo entrati a palazzo Grazioli in una macchina con i vetri oscurati. Mi avevano detto che il mio nome era Alessia». Alessia, dunque: bel nome. Un annuncio di escort con questo nome e con il numero di cellulare compariva fino a qualche tempo fa sulla Gazzetta del Mezzogiorno, il quotidiano più letto di Bari. Alessia alias Patrizia. Poi Sabina Began. E poi ancora la parlamentare topolona (copyright Dagospia), al secolo Elvira Savino e la rossa ex del Grande Fratello, Angela Sozio, una delle veline trombate (mai termine fu più appropriato per questa vicenda) dalle liste del PdL per le europee dopo l'editto di Veronica Lario sul ciarpame. È questo il quartetto di donne emerso sinora, a vario titolo, dall'inchiesta di Bari. La Began fece conoscere la Savino al Cavaliere; poi al matrimonio della Savino, Tarantini vide il beato Silvio, e il giorno dopo il Pifferaio e Tarantini volarono a Bari, insieme con la Sozio, per la Fiera del Levante; infine Tarantini fece arrivare la D'Addario a Roma per una festa a Palazzo Grazioli. Una catena di affetti e di amicizia. E che in questi giorni, segno del destino e ironia della sorte, ha incrociato un'altra notizia dallo stesso sapore boccaccesco che infuocò il giugno di tre anni fa. Era di questi tempi. Salvo Sottile, portavoce dell'allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, venne arrestato per la Vallettopoli scoperta da Henry John Woodcock, famigerato pm di Potenza. Concussione sessuale, questa l'accusa iniziale per Sottile. Un alto funzionario della Rai, anch'egli coinvolto, al telefono gli disse: «Ho parlato oggi con il direttore generale, che mi ha confermato che essendo la tipa una grande gnocca per quella trasmissione gli fa anche comodo». I due si riferivano a una stellina di nome Elisabetta Gregoraci, poi fidanzata e moglie del multimanager Flavio Briatore. E ancora: «Ci facciamo fare un bel pompino». Di qui la concussione sessuale. Quell'estate non si parlò d'altro. Chiamatelo pure gossip. A un certo punto saltò fuori un misterioso centrista fedifrago beccato da un paparazzo su uno yacht in mezzo al mare. Mastella captò le voci e smentì. I sospetti si addensarono su Casini. Ma non era vero nulla. Balla, non gossip. Era il 2006. Si era votato da poco e tra Prodi e Berlusconi fu un quasi pareggio, col primo a spuntarla per un pelo. Il Cavaliere fece la campagna da solo, anche perchè all'epoca la fondazione Fare Futuro muoveva i suoi primi passi e non imperversava quotidianamente in nome e per conto di Fini. Il ministro degli Esteri aveva ancora un partito. C'era solo Luca Barbareschi che tuonava: «In RAI abbiamo portato solo le zoccole». Le versioni sono due. Altri testimoni riferiscono che disse mignotte. In ogni caso la sostanza non cambia. Sottile è stato condannato dal tribunale di Roma (dove nel frattempo era stata trasferita l'inchiesta) a otto mesi di reclusione per aver fatto accompagnare alla Farnesina con un'auto blu la Gregoraci e un'altra starlette. Tutto qui. All'epoca, però, berlusconiani ortodossi e berluscones di AN usarono lo scandalo per indebolire Fini. Addirittura Maurizio Gasparri attaccò la Gregoraci, protagonista di uno spot, definendola un cattivo esempio. Lei reagì con violenza e in modo allusivo: «Sono stufa di essere tormentata, chi è senza peccato scagli la prima pietra». Non solo: in alcuni ambienti di AN, alla notizia dell'arresto di Sottile, furono stappate bottiglie di champagne. Del resto c'era da capirli, i colonnelli di AN. Allora erano sei, due per corrente, e tre di loro vennero decapitati un anno prima da Fini. Motivo? Gossip, ovviamente. Nulla di nuovo sotto il sole. Ancora estate, stavolta luglio del 2005. In un bar del centro di Roma, La Caffetteria di piazza di Pietra, un cronista de Il Tempo intercetta dal vivo una conversazione tra Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri e Altero Matteoli. I primi due di Destra protagonista, l'altro di Nuova alleanza. Parlano di Fini e sembra di sentire il nome Stefania. Dicono che «Gianfranco è malato, è dimagrito, gli tremano le mani. O guarisce o sono guai». Il sottotesto alla discussione e alla malattia del leader sono le voci su un presunto flirt di Fini con la ministra azzurra Stefania Prestigiacomo. I due, alcuni mesi prima, erano stati artefici di uno strappo nella maggioranza a proposito del referendum sulla fecondazione. Tre sì e un no. Ebbene, dieci giorni dopo la conversazione della Caffetteria, il capo di AN fece la sua prima epurazione. Azzeramento degli incarichi. La Russa commentò: «Capisco la sua reazione, Gianfranco non poteva rimanere immobile. Ma dissento da un certo eccesso di legittima difesa». Oggi la partita erotico-politica si gioca a ruoli invertiti. È Fini che ha la tentazione di lucrare sulle difficoltà del premier. Senza contare che ha un bel sassolino da togliersi dalla scarpa. Fu quando lasciò la moglie Daniela Di Sotto e andò a convivere con Elisabetta Tulliani: su Mediaset, a Striscia La Notizia, trasmisero un video della Tulliani col suo ex compagno, Luciano Gaucci. Il sesso è un'arma e può far cadere regimi e leader. Come capì tanti anni fa, sempre a destra, Benito Mussolini. Ecco cosa scrisse Gian Carlo Fusco: «Nel giro di poche settimane tutti i gerarchi che ne facevano parte, salvo rarissime eccezioni, avevano perso la grinta della vigilia. Si erano ammosciati, mondanizzati, rivelandosi avidi di comodità, di belle donne, di luce blu diffusa dall'abat-jour. Allontanando subito da Roma il playboysmo, bordelliero e rissaiolo, il Duce aveva creduto di assicurare al partito quella rispettabilità che gli era indispensabile per trasformarsi in regime». Il problema, oggi, è che il Cavaliere non è un gerarca qualunque. Almeno credo.

sabato 20 giugno 2009

tante domande, nessuna risposta


In genere quando si fanno delle domande, di qualunque natura esse siano, ci si aspetta sempre una qualche plausibile risposta. Se non proprio la soluzione al quesito, perlomeno un azzardo di verità, un barlume di conoscenza per cercare di capire il perchè e il percome. Ma non sempre tutto ciò è possibile. Prendiamo la situazione attuale creatasi nel nostro Paese all'indomani dell'ennesimo pornoscandalo. Quante domande sono ancora senza risposte. Tante. Credo sia legittimo e soprattutto necessario porsi degli interrogativi alla luce degli eventi, repentini, che si stanno susseguendo sulla scena politica e sociale. Uno che in genere ci capisce, l'onorevole Massimo D'Alema, domenica scorsa nel corso del programma In 1/2 ora condotto da Lucia Annunziata, ha detto che qualcosa in Italia sta avvenendo. Qualcosa che forse gli italiani non hanno ancora percepito. E ha aggiunto: «Ci saranno delle scosse in arrivo». E ha proseguito affermando: «Avremo momenti di conflitto, delle difficoltà imprevedibili. Teniamoci pronti». Queste affermazioni, così espresse, appaiono sibilline. A chi erano rivolti quei messaggi cifrati? Per cercare di decriptarle è utile allargare la panoramica sulla vicenda politica e sociale italiana degli ultimi tempi (e non soffermarsi soltanto sul puttanificio di Palazzo Grazioli a Roma). Abbiamo un primo ministro, eletto alle scorse politiche da una marea di voti, riconfermato sostanzialmente nella sua popolarità alle elezioni europee. Eppure la popolarità del premier, da diverse settimane a questa parte, si è incrinata. Prima le motivazioni della sentenza che ha condannato in primo grado l'avvocato inglese David Mills per falsa testimonianza, perché si era fatto corrompere dal gruppo Fininvest, poi diventato Mediaset. Ma il primo ministro non è processabile grazie al Lodo Alfano. Subito dopo il clamore suscitato dalle frequentazioni napoletane del premier. Poi lo scontro sulla veridicità dei dati allarmanti riportati dal Governatore di Bankitalia Mario Draghi sulla situazione economica del Paese. «Sono dati sbagliati», aveva affermato il premier. Per giungere in un crescendo di esternazioni, difficilmente sopportabili, fino all'affermazione cardine: «In magistratura ci sono dei grumi eversivi», pronunciata di fronte alla platea della Confcommercio. Pochi giorni fa la notizia della nascita della Guardia Nazionale, composta da gruppi appartenenti alla destra eversiva, e la riconferma della decisa volontà, da parte del ministro Roberto Maroni e della Lega, di avere la propria Guardia Padana. Infine l'apertura di un'inchiesta, da parte della Procura di Bari, su appalti e festini a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa. Cosa sta succedendo quindi in questo Paese, alla luce di una situazione economico-sociale così grave? Cosa si vuole favorire con la legge, appena approvata alla Camera, sul divieto delle intercettazioni? Non certo la difesa della privacy. Piuttosto si vuole legalizzare l'illegale. La disoccupazione presto non sarà più gestibile. Il malumore sociale monta. Questo crescendo di tensione, avvertibile nell'aria da chi ha ancora l'istinto della sopravvivenza, è sintetizzabile nell'annuncio fatto da D'Alema. Come risposta, o come cassa di risonanza, ad un presidente del Consiglio che afferma che intorno a lui è in atto un complotto eversivo. La domanda fondamentale è: ma chi avrebbe interesse a deporre il premier? E per quale motivo, per quali interessi, dato che gode di una larghissima maggioranza parlamentare? L'attuale primo ministro è al potere dal 1994. Dall'avvento della seconda Repubblica, nata dal sangue delle stragi del 1992-93. Dal 2001 praticamente ininterrottamente, a parte la parentesi del governo Prodi. Ma da quindici anni questa seconda Repubblica è ferma. La dialettica parlamentare risulta azzerata. La magistratura ostacolata e definita eversiva, la stampa praticamente imbavagliata. Ora anche il web corre il serio rischio di finire sotto il mirino censorio dell'esecutivo. Qualcosa si sta muovendo, è vero, si avverte. Il figlio di Vito Ciancimino, in questi giorni, è interrogato dalla procura di Caltanissetta e di Palermo. Potrebbe diradare i troppi dubbi che ancora avvolgono la trattativa Stato-mafia del 1992-1993. Sotto casa di Ciancimino è stato trovata una macchina rubata. Un segnale di poco conto molti penseranno. Ma le bombe a Milano, Firenze e Roma del 1993 erano state stipate tutte dentro a macchine rubate. «Ci saranno delle scosse», ha detto D'Alema. «Vado via perché arriva una stagione di bombe», disse Craxi nel 1993. Quelle bombe ci furono veramente e poi smisero di colpo. Forse perché quella ritorsione posta in atto, sotto forma di messaggi incrociati tra i poteri, fu respinta saldamente al mittente? O il contrario? Da quindici anni questo Paese, in realtà, si sta sgretolando. Se adesso la misura è colma, se ci dovesse essere una caduta imprevedibile, una scossa non gestibile, se l'opposizione non fosse in grado di traghettare l'Italia fuori dal vuoto di potere pericolosissimo che si creerebbe, chi ne approfitterebbe? C'è un silenzio surreale che avvolge la caduta libera, non più il declino, di questo Paese. Chi può salvarci? Dove sono i partiti di sinistra, dove è la proverbiale mobilitazione di massa? E gli intellettuali, se ancora ne esistono, perché non parlano? C'è ancora in questo Paese una piccola ma agguerrita parte sana nel tessuto nazionale che non vuole arrendersi? C'è ancora una speranza per un'ultima tenuta flebile di una democrazia che è già dimezzata? C'è chi pensa alla spallata definitiva per buttarla giù? Tante domande, quasi nessuna risposta, per ora. Riguardo ai mezzi si tratta solo di trovare i più adeguati. Se la partita decisiva è in seno al Parlamento spero proprio che il Partito Democratico e gli altri partiti di sinistra, dimostrino di non essere come i liberali e i socialisti nel 1922, altrimenti l'Italia che fino a ieri conoscevo e che oggi non è già più, domani non sarà più recuperabile. E a quel punto non servirà più aver trovato le risposte a tutte quelle domande.

venerdì 19 giugno 2009

il pornoromanzo popolare del Pifferaio


Immagino quanti italiani, in questi ultimi giorni, si stiano interrogando su come un presidente del Consiglio possa scivolare così in basso per questioni diciamo così pornoromantiche. Che il premier sia sempre stato un grande estimatore dell'universo femminile non è un mistero per nessuno; che possa anche essere un erotomane incallito fa un certo effetto. Ora, non vorrei anticipare l'inchiesta dei giudici baresi, ma se qualcuno ha opportunamente deciso di sigillare e rinchiudere in cassaforte registrazioni audio e fotografie scattate con il telefonino qualche cosa di strano e di preoccupante (istituzionalmente parlando) ci dovrà pur essere. L'ennesimo capitolo del romanzo popolare "Il Cavaliere e le donne" fa arrabbiare e non poco il nostro premier. Il presidente del Consiglio continua a parlare di una strategia eversiva, di un complotto per toglierlo di mezzo. A mio parere credo sia difficile (anche se in cuor mio ci spererei...), visto e considerato il 35% dei voti conquistati dal suo partito alle recenti europee. Difficile, visto anche il controllo sulle sue televisioni e su un paio di reti pubbliche. Eppure re Silvio grida ai quattro venti la sua rabbia. Lesa maestà. Intanto però iniziano a diventare davvero troppe le rivelazioni di esponenti del gentil sesso sugli inviti a cena del Cavaliere. Va da sé che i berluscones si schierano come pretoriani a guardia dell'Imperatore. Arrivano a paragonare il premier a Salvador Allende, che morì con il mitra in mano per difendere il palazzo della Moneda dal colpo di Stato militare (e della Cia), che avrebbe portato al potere il generale Pinochet. Il Pifferaio come Allende? La risata è consentita. Anche perché la tesi complottista vede nelle vesti del generale un defilato Gianfranco Fini, con aiutante di campo l'ineffabile Massimo D'Alema. L'applauso è consentito. Di questo si parla in questi giorni, del resto poco o nulla. Dall'Abruzzo alla crisi economica, passando per la missione di pace in Afghanistan, domina il silenzio. La politica diventa pettegolezzo, e in questa dimensione il Pifferaio di Arcore si trova meglio che a discutere della ricostruzione post-terremoto, delle richieste degli industriali per far ripartire l'azienda Italia, del caso Mills. «Non mi farò condizionare», assicura il presidente del Consiglio che in vista dei ballottaggi di domenica e lunedì promette (com'è suo solito) mari e monti. «Dal 15 settembre al 30 novembre, 15 mila persone troveranno qui ricostruita una casa molto comoda, inserita nel verde e dotata di servizi», dice nel corso di una visita (l'ennesima) alla caserma della Guardia di Finanza di Coppito. Sempre più in alto, come nella pubblicità di una famosa marca di grappa. Fra le tante, il Cavaliere torna a parlare del referendum elettorale. All'inizio aveva detto sì, poi aveva detto no, poi aveva detto ni, adesso ridice sì. Giravolte spaziali. Ma si sa, l'uomo di Arcore è fatto così. Una volta avrebbe detto che scendeva in campo, adesso invece, scende in campo, ma solo a metà. Il beato Silvio dichiara che andrà a votare e che voterà sì. Nel frattempo sta facendo un tour-de-force televisivo degno di un maratoneta. Lui fa politica così, i suoi lo amano anche per questo. Comunque sia, il Caimano si può anche permettere di dire che personalmente voterà sì. Tanto il messaggio astensionista è già passato. Per la verità è anche già passato il messaggio che il nostro premier è un grande puttaniere, ma questo è un altro discorso che forse ritroveremo più avanti, dopo i ballottaggi. Intanto le ultime notizie raccontano che stranamente l'altro ieri il presidente del Consiglio ha lasciato L'Aquila senza fare la pur annunciata conferenza stampa. Tanto ha già detto tutto alle televisioni, senza dover rispondere a domande scomode. Al resto pensano i suoi pretoriani, compatti in difesa del loro porno Imperatore.

giovedì 18 giugno 2009

se il presidente del Consiglio ci leggesse...


...capirebbe, forse, che non ce l'abbiamo con lui (che strano, sono tornato a scrivere in terza persona...vabbè) ma che ci piacerebbe, se mai ci leggesse veramente, ricevere (anche sotto forma di commento anonimo) una sua risposta a questo strano modus vivendi che da qualche tempo sta ostinatamente perseguendo. Uno stile di vita che, speriamo ne convenga, non si addice proprio a un capo di governo, peraltro in età avanzata, simbolo della guida esecutiva di un Paese additato da tutti come uno dei più belli del mondo, con le sue meravigliose bellezze naturali (ecco, qui gradiremmo un non fraintendimento) apprezzate da chiunque le abbia mai viste almeno una volta nella vita. Gradiremmo altresì sapere le motivazioni che spingono uno statista del livello del signor presidente del Consiglio a non voler dire finalmente cosa ci sia di vero o di verosimile in tutto questo battage mediatico in cui donnine e favori (non abbiamo ancora ben capito di che genere) la fanno da padroni nel microcosmo assai glamour che ruota intorno alla figura del nostro onorevole premier. Il nostro piccolo appello odierno (nato dalla consultazione casuale delle visite al nostro blog che non certo per la prima volta vedeva una entrata dal computer della presidenza del Consiglio dei ministri) è tutto qui. Non ci sembra di aver chiesto la luna, nè tantomeno un passaggio a sbafo sulle linee aeree di Stato, come altri personaggi ben più importanti (e intonati) di noi. Se la cosa può interessare al signor presidente del Consiglio (o a chi per lui), noi rimarremmo in attesa di un suo gentile e cortese cenno di riscontro. Nella speranza di non dover attendere l'età della pensione.

mercoledì 17 giugno 2009

non basta la visita a favore di telecamera


Quando ieri ho visto in tv le immagini della protesta del popolo aquilano terremotato, che protestava civilmente sotto le finestre di Palazzo Chigi e di Montecitorio, mi si è stretto il cuore e ho ripensato a quanta propaganda condita dalle solite belle parole sia stata fatta dalla squadra di governo del nostro ineffabile e infallibile presidente del Consiglio. Un premier che fa dire al suo portavoce quanto sia stato clamoroso il successo della visita al cospetto del presidente americano e che addirittura il colloquio ha avuto la durata record di due ore, invece dei sessanta miniti previsti dal protocollo. Ecco, questi sì che sono i successi politici di cui vantarsi, non certamente dare ascolto alle lamentele dei sindaci di quei paesi terremotati che non avranno un euro per la ricostruzione perchè non rientrano in quei parametri disegnati dalla fervida mente ragionieristica del capo della Protezione Civile. E allora che cosa ti combina adesso il premier dopo la rumorosa contestazione di ieri? Ti organizza l'ennesimo viaggetto in Abruzzo per far vedere, a favore di telecamera (meglio ancora se targata Mediaset), che lui è sempre presente e attento al richiamo di dolore degli abruzzesi e che mai e poi mai potrebbe far mancare loro il suo preziosissimo e disinteressato aiuto. Certo, bisogna ammetterlo: per chi, all’Aquila e nell’Aquilano, ha vissuto due mesi e mezzo fa il terremoto questa visita odierna del Pifferaio di Arcore contribuisce in maniera essenziale all'elaborazione del lutto. Ma a parte le facili battute bisogna seriamente dire che dopo lo choc, dopo la presa d’atto d’essere sopravvissuti, dopo la conta delle perdite, dei danni e di quanto tutta la vita sia cambiata per il popolo abruzzese, questo è il tempo in cui in ogni essere umano si attiva un’inconscia regressione alla fase precedente: tutto è stato un sogno, un incubo, anzi, dissoltosi con le luci del giorno. Ma le luci del giorno non portano via la visione (al massimo portano la prestante figura del premier...). Illuminano una città e un’intera area dell’Abruzzo distrutte, disabitate, devastate e l’involontaria regressione al prima si ferma brutalmente al dopo, mozzando il respiro: non è stato un sogno. Questo è parte di ciò che il contesto mediatico non trasmette. Non per sua colpa, per forza di cose: i media devono presidiare l’informazione, percorrere la spirale di aggiornamento del dato, rincorrere la copertura della notizia e il lutto non fa notizia. Così, lo stesso doveroso avvicendarsi all’Aquila delle più alte cariche istituzionali dello Stato, l’imminente G8 che vi si terrà, la presenza saltuaria della politica (e del Pifferaio) hanno determinato un fungo di mediatizzazione sempre più astratto e sollevato dalla sottostante tragedia. Bisogna allora riscendere un attimo nei cuori, praticare un fall out in ciò che gli aquilani vorrebbero sentire e non sentono, probabilmente, da nessuno. Ciò che gli aquilani vorrebbero sentire ha invece a che fare con dimensioni senza tempo, perché senza tempo sono la vulnerabilità dell’essere umano e l’inesausta domanda che accompagna la sua vicenda terrena, vale a dire la presenza del male nel mondo e il suo senso, nucleo incandescente di ogni teologia. Ciò che gli aquilani vorrebbero sentire si colloca proprio nell’alveo delle tre virtù teologali: fede che ce la faranno; speranza di tornare un giorno, in qualche forma, nella loro devastata e bellissima città; carità, soprattutto, nel senso di charis, cioè di presenza, amorosa e partecipe, degli altri alla loro tragedia, avvertita nettamente con la mobilitazione spontanea che questa tragedia ha prodotto e che, in mezzo a tanta negatività, ha posto in luce una valenza commovente della comunità italiana e internazionale. Bisogna proseguire su questa strada. Anche senza le visite a favore di telecamera.

domenica 14 giugno 2009

il Sultano & il Colonnello


Molte analogìe mi sono venute in mente osservando gli ultimi tre giorni della settimana che si va a concludere. Quelle tra il nostro presidente del Consiglio e il Colonnello libico Gheddafi appena rientrato in tenda (quella sua in Libia, non quella di Villa Pamphili a Roma) dopo la sua colorita e per certi versi imbarazzante visita di tre giorni in Italia, o per meglio dire nella Capitale. L'analogìa principale è quella data dal carattere dell'uno e dalla strafottenza dell'altro. Ambedue, alla fin fine, se ne fregano di quello che pensano e che fanno i loro rispettivi oppositori. Per adesso il Pifferaio ricorre alle leggi ad personam e alle televisioni tutte tette e culi per distrarre il popolo del panem et circenses. Almeno per ora si circonda di robusti bodyguard piuttosto che di attraenti amazzoni meglio se vergini. Non mi sembra (e spero che sia proprio così) che voglia seguire l'esempio del suo amico Colonnello che rinchiude nelle carceri i suoi oppositori politici, regnando incontrastato da 40 anni. Certo, il Pifferaio regna da 15 anni ma l'aspettativa di vita non credo gli permetterà di raggiungere il record del suo invidiato amico libico. Comunque, a parte le battute, la situazione mi sembra alquanto seria. Sia dal punto di vista politico, sia da quello della morale e dell'educazione. La questione è questa. Siamo diventati un Paese in cui il rispetto delle regole, persino quelle semplici della buona educazione e del rispetto degli altri, è completamente in disuso. Le leggi e i tempi li detta il Sultano (non c'è bisogno che vi dica chi è) che del resto li vìola quando gli pare e piace e li modifica a suo uso, dunque così fanno i sudditi. Nel loro ambito, certo, ma lo fanno e considerano da sciocchi non farlo: da perdenti, da moralisti, da poveri. È l'andazzo generale, è lo spirito del tempo. Ecco che persino il normale gesto del presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, ovvero annullare un incontro dopo due ore di ritardo dell'invitato, diventa una specie di simbolo della resistenza. L'invitato era Gheddafi, atteso alla Camera da Fini, D'Alema, Pisanu e da decine di parlamentari e ospiti del convegno in agenda. Anche Gheddafi (che non è un Sultano ma un Colonnello) in generale fa come gli pare: d'altra parte è una delle caratteristiche proprie dei dittatori, per quando indicati dalle biografie ufficiali come dittatori buoni. Perciò non gli deve essere nemmeno passato per l'anticamera del pensiero l'idea di avvisare. Stava male o forse aveva la preghiera del venerdì islamico da espletare. Comunque aveva deciso di non andare e di non dover dare delle spiegazioni a nessuno. Gheddafi fa come vuole. Una parte degli italiani lo troverà senz'altro un esempio inarrivabile, la versione perfetta di modelli minori. Ad altri piace meno ma lo dicono poco: convenienza, timore, in qualche raro caso convinzione. Così è sembrata proprio una ribellione, quella di Fini. Accidenti: qualcuno dice no. Un respingimento di Stato, ma senza scherzare troppo su quei disperati che dalla Libia anziché con le amazzoni al seguito ci arrivano in barcone, in mare muoiono e se non muoiono tornano indietro. Persino Pierferdinando Casini, moderato per statuto, ha osservato che «va bene i soldi e gli interessi, ma la politica è fatta anche di valori e princìpi». Anche, effettivamente. Ci sarebbe poi da dire dell'incontro avvenuto prima che Gheddafi si sentisse male, o che dovesse pregare, con la ministra Carfagna e le donne di successo italiane alle quali il Colonnello ha dato lezioni di femminismo: nei Paesi arabi le donne sono pezzi di mobilio, ha detto. Qui si è opposta Rosy Bindi: prima di parlare di diritti delle donne bisognerebbe che la Libia ratificasse la Convenzione internazionale sui diritti dei rifugiati. Lo so, sarà bollata come una disfattista. Non capisce l'importanza della posta in gioco, sottilizza. In Iran lo sfidante moderato Moussavi annuncia la sua vittoria contro Ahmadinejad, poco dopo l'agenzia di Stato ribalta il risultato: ha vinto il presidente uscente. Sono momenti in cui diventa chiaro a cosa servano l'opposizione e la libera informazione. Da noi in Italia è per adesso ancora molto chiaro chi ha vinto e chi ha perso. Il Partito Democratico, per esempio, ha perso molte amministrazioni locali. Tuttavia in tanti altri casi ha vinto, inaspettatamente e in luoghi ostili: se ne parla meno. Bisognerebbe andare a vedere cosa sia successo lì dove il PD ha battuto il centrodestra, a dispetto dei pronostici, o è cresciuto fino a sfiorare il sorpasso. Magari ad osservare bene si capirebbe meglio quale potrebbe essere la formula, la combinazione vincente. Ascoltando le storie, prendendo nota. E chi ha da imparare può eventualmente farlo. Per non correre il rischio, in futuro, di diventare un tipo invidioso delle amazzoni altrui.

mercoledì 10 giugno 2009

un vuoto (politico) da riempire


Non vorrei tediare i miei lettori, ma qualche piccola considerazione post-voto non mi sembra fuori luogo. Dunque, per prima cosa vorrei rimarcare come l''appello «per una lista unica della sinistra alle elezioni europee», sottoscritto da duemila persone nel febbraio scorso, sia rimasto inascoltato. La sinistra, dopo essere sparita un anno fa dal Parlamento italiano, scompare anche dal Parlamento europeo. Paradossalmente, scompare per la mancanza di visione e di strategia unitaria dei dirigenti dei partiti, quando i comportamenti elettorali rivelano un'area di opposizione in forte crescita (6,5% se sommiamo Rifondazione e Sinistra e Libertà, 2,9% ai Radicali, 8% all'Italia dei Valori), a cui si affianca un forte astensionismo «di protesta». Il voto del 6 e 7 giugno dimostra che è temporaneamente rallentata l'onda del berlusconismo, con il suo attacco alla democrazia, mentre l'aggravarsi della crisi economica e dell'insicurezza alimenta una spinta populista verso la Lega Nord e Di Pietro; la crescita di queste forze non è che il riflesso del vuoto di una politica alternativa e dell'incapacità della sinistra di rappresentare gli interessi diffusi di cambiamento politico e sociale. La politica dei partiti è sempre più lontana dalla società, proprio quando più necessario sarebbe il ruolo della politica per affrontare le emergenze del Paese. Se l'obiettivo è ricostruire una nuova politica e una sinistra (sociale e solidale, ambientalista e pacifista, plurale e unitaria) capace di incidere sulla politica italiana ed europea, a mio modesto avviso ci sono quattro strade da percorrere. La prima. Il «passo indietro» dei partiti della sinistra nella loro configurazione attuale, e dei loro gruppi dirigenti, è il necessario punto di partenza. Occorre uscire dalle logiche politiciste e autoreferenziali che hanno portato alla competizione autodistruttiva tra le liste della sinistra. Una politica nuova deve unire rappresentanza, movimenti e società civile. Deve affermarsi un nuovo modo di fare politica, in cui non ci sia diversità tra forma e sostanza, mezzi e fini. Ora le forme della politica della sinistra sono percepite come non molto diverse da quelle degli altri partiti, e questo provoca disaffezione e distacco. La pari dignità tra le diverse forme dell'azione politica (nei movimenti, nel sociale, nel sindacato, oltre che nei partiti) deve essere alla base del modo di essere della politica. Bisogna pensare a un modello confederale, associativo e territoriale delle formazioni politiche, con incompatibilità tra responsabilità di partito e cariche elettive, limite temporale delle cariche, equilibrio di genere. Serve sviluppare le forme di democrazia diretta (primarie, uso del sorteggio per una parte delle cariche) attraverso le consultazioni e gli accordi formalizzati con movimenti e organizzazioni sociali. In queste cose passa il discrimine tra l'essere percepiti come parte della casta e una politica di cambiamento. Secondo punto. La sinistra non sa più leggere e interpretare la realtà sociale che le sta intorno. In poche parole non è più in grado di costruire una visione e una narrazione della sofferenza e del disagio sociale. E' indispensabile (sempre a mio giudizio) conoscere quello che sta accadendo nel Paese per effetto della crisi e del degrado della democrazia. E' auspicabile scambiare esperienze, comunicare una realtà nascosta dal clamore mediatico. Bisogna capire i meccanismi che hanno portato (nel mondo e in Italia) alla recessione, alla disoccupazione, con conseguenti disuguaglianze, impoverimenti, emarginazioni, forme di razzismo e di autoritarismo con la naturale riduzione degli spazi di democrazia e l'inevitabile distacco dalla politica. Il problema della sinistra in questi anni non è stata tanto l'insufficiente autonomia politica dei partiti dalle dinamiche sociali, quanto la totale autonomia dei partiti dalla società. È anche per questo motivo che forze come la Lega o Di Pietro hanno esteso il loro radicamento nelle classi popolari del Paese. Terzo punto. Bisogna raccogliere le proposte e le pratiche per delle politiche alternative. Sull'economia, occorrono misure per uscire dalla recessione nella direzione di uno sviluppo governato dalle scelte collettive e non dai mercati, che tuteli il lavoro più dei capitali, sostenibile sul piano ambientale, meno ingiusto nei rapporti Nord-Sud. Il lavoro deve tornare al centro dell'agenda della sinistra. Sulla politica è necessario raccogliere le proposte e le pratiche che possono contribuire a rinnovare la democrazia nei suoi aspetti essenziali (ad esempio, tanto per dire, le forme della rappresentanza elettorale, il ruolo del Parlamento, la divisione dei poteri, la libertà e il pluralismo dei mezzi di comunicazione), estendendo la partecipazione popolare alle decisioni collettive. Sono questi i contenuti che possono caratterizzare oggi una nuova politica della sinistra. Quarto e ultimo punto. Sono moltissime le realtà che in questi anni hanno mantenuto un impegno su questi temi negli ambiti più diversi (sindacato e società civile, enti locali e servizi pubblici, associazionismo e movimenti, giornali e mezzi di comunicazione, ricerca e cultura): credo che quest'impegno quotidiano debba acquisire una visibilità politica, rinnovando la partecipazione, definendo forme e contenuti della nuova politica. Sono questi i soggetti sociali che possono diventare protagonisti del cambiamento. Per dare espressione politica a una sinistra che sul piano sociale, e anche nei comportamenti elettorali, è tutt'altro che scomparsa, è necessario un processo costituente dove tutti concorrano alla pari, senza egemonie di gruppi e ceti politici consolidati. L'obiettivo è di rappresentare sul serio le istanze di cambiamento della società italiana. L'appello «per una lista unica della sinistra alle elezioni europee» aveva promesso nuovi appuntamenti per continuare questo lavoro. Questa volta dovranno essere categoricamente appuntamenti da non mancare. Altrimenti sarà meglio emigrare.

martedì 9 giugno 2009

caro Aldo, Rossaura ti scrive...


Ci potevo scommettere la quattordicesima. E' un classico. Bastava solo attendere qualche giorno: l'attenzione della mia amica Rossaura è stata inevitabilmente attratta dalla lettera di Aldo (che ho pubblicato domenica 31 maggio) e oggi ho ricevuto nella mia posta elettronica il commento della Venexiana. Ovviamente la sola lettura in prima battuta mi ha convinto a farne un post (come già è avvenuto in passato) e così lascio al giudizio del ragazzo ligure, estensore di quella struggente lettera, il senso della replica della signora del nord-est. E agli altri lettori di questo blog il gusto di conoscere (se ancora non l'avessero fatto) la sanguigna e accattivante prosa di una donna che il sottoscritto ha ammirato e coccolato fin dal primo giorno di conoscenza su OKNOtizie. Ciao Ross. "Ed ora mi ritrovo incazzato nero, senza ritegno, e rimpiango il PCI e Berlinguer, la sua lingua schietta ed efficace, la sua faccia di bronzo nel dire quello che pensava, rimpiango quei politici che non si attaccavano al gossip per sradicare un maledetto dittatore dalla coscienza nera, perversa, maledettamente ultra fascista. Sono quasi arrivato a considerare Fini "un possibile politico di sinistra". Tutto si ribalta, e non è che non hai più certezze nella vita, non hai più certezze nella politica, nei partiti, in quella cosa che dovrebbe essere la prima e vera certezza di un Paese che si dice sia democratico". Al caro Aldo ho sottratto solo alcune parole, che condivido. Solo povere parole che non toccano la sostanza della sua vita, della sua esasperazione. Non posso incoraggiarlo, non posso dirgli che la vita sarà migliore domani, perchè il domani non è nostro, non ci è dato da condividere. Eppure non posso dimenticare che abbiamo sogni simili. Che non possiamo negarli, non possiamo dimenticarli. Andare avanti a 33 anni è un dovere per se stessi e per la società intera. Una società che sarà migliore perchè non ci si è lasciati vincere. Perchè non si abbandona la lotta. Aldo non è solo. Deve trovare la strada per raggiungere la possibilità di realizzare i suoi ideali. Non esiste nessuna sinistra che con la bacchetta magica risolve i suoi problemi. Tantomeno oggi che la democrazia si è spenta e che ognuno pensa per sè. Oggi il nostro sogno da condividere è rifondare la "sinistra" e ricondurla in mezzo a noi, gente comune. Ridarle valore e significato attraverso la nostra volontà, l'onestà, la rettitudine, la capacità di riconoscere quella che è la questione morale della politica. Caro Nomadus, questa lettera mi ha toccato il cuore, come tante testimonianze a cui mi trovo di fronte negli ultimi tempi. Non accetto la depressione, non accetto di piangermi addosso. Lo sai tu, ma devono saperlo anche tutti quelli che si trovano a fare i conti con una realtà dura e poco generosa. Sono le nostre mani che costruiscono il nostro futuro e quello degli altri. Mai smettere di sperare, mai darsi per vinti. Mi scuso, non è una lezione di vita è soltanto la forza di affermare le mie idee. Che credo fermamente siano condivise da altri. Un bacio affettuoso. Ross

domenica 7 giugno 2009

chi ci azzecca?


In questa seconda giornata di votazione mi è venuta la voglia di scrivere un post cercando di fare una previsione politica. Il titolo è ovviamente messo lì a mò di parodia in omaggio al famoso ex pm di Mani Pulite che, con il suo intercalare molto simile a quello da me usato per titolare questo pezzo, ne fece una sorta di copyright nazionale e non. Tornando seri e appurato che, normalmente, le previsioni le azzecca solo chi non le fa, mi piacerebbe porre all'attenzione dei lettori di questo blog alcune mie riflessioni. L'attuale presidente del Consiglio è alla sua decima campagna elettorale nazionale dalla sua famosa discesa in campo del 1994 ed ha riprodotto (a mio giudizio) lo schema consueto a lui tanto caro, esasperando la personalizzazione su di sé e dando la colpa di tutto quello che accade nel nostro Paese alla sinistra e a Franceschini in particolare (per non parlare appunto dell'ex pm): ma stavolta ha fatto male. E vedremo perchè. Se tutti i segnali dell'ultimo anno berlusconiano li ho letti nel modo giusto, questo voto europeo doveva essere il coronamento di un anno di successi e di «imbarazzante consenso», e invece potrebbe segnare una battuta a vuoto nell’ascesa del Popolo della Libertà. Il motivo? E' presto detto. Se il Pifferaio di Arcore non riuscirà a superare abbondantemente la soglia del 40% dei voti, con il suo partito di plastica, finirà per offrire uno splendido assist al suo competitor di centrosinistra, oscurando il vero quesito che fino a poco tempo fa assorbiva ogni interesse: il Partito Democratico sopravviverà al suo annus horribilis? In questo spostamento di focus, dalla crisi del PD allo stallo del PdL, sta il succo dell’errore berlusconiano. Sarebbe inutile scaricarlo sulla campagna de la Repubblica, grande giornale d’opposizione che ha fatto il proprio mestiere. Quando va bene come quando va male, il problema della destra italiana è sempre nella dipendenza assoluta dalle fortune del suo capo e dalla sua vena del momento. Ogni lamentazione per l’accanimento di cui il Pifferaio sarebbe vittima può rivolgersi contro chi la esprime: è il beato Silvio di propria scelta che offre il petto e alza la testa, calcolando anche che il petto possa essere nudo, e che sulla testa possa esserci una bandana. È lui che va a Porta a Porta per politicizzare il proprio divorzio. E se l’Italia finisce nel mirino della stampa mondiale (anche perché Murdoch ha i conti in sospeso con un concorrente televisivo), prima di prendersela con la sinistra che «insuffla» i giornali stranieri, i pretoriani berlusconiani dovrebbero riflettere sui costi e i benefici del famoso conflitto di interessi. Questo danno al Paese è il Caimano che lo causa, non altri. Se davvero la storia di quest’anno di governo fosse una storia di successo, il PdL non avrebbe da temere, come invece teme. E se la prospettiva politica fosse tutta in discesa, non si sarebbe aperta in maniera tanto clamorosa nella maggioranza un’inedita questione settentrionale. Intendiamoci, parlare di crisi del centrodestra che governa l’Italia sarebbe pura propaganda; farlo poi ad urne aperte sarebbe un autentico azzardo. Il PdL da domani si riconfermerà comunque di gran lunga il primo partito italiano, aumentando forse il margine sul PD. In alleanza con la Lega, le percentuali già buone del 2008 saranno incrementate, pur rimanendo al di sotto del fatidico 50 per cento. A livello europeo, il partito del Pifferaio potrebbe in effetti rivelarsi la formazione leader all’interno del Ppe, per quanto la cosa abbia un valore relativo. Anche il PD, ipoteticamente con una decina di punti in meno del PdL, rischia di ritrovarsi partito leader nello schieramento progressista europeo, comunque lo si voglia chiamare. Insomma, la destra italiana da domani sarà comunque fortissima, elettoralmente e nella società. A meno di svolte traumatiche, questa dovrebbe continuare a essere la sua legislatura. Il problema è che l’anomalia di cui si scriveva prima fa precipitare il consenso di sedici milioni di italiani sulla testa e nel fisico di uno solo. Una grande forza diventa così anche potenzialmente una grande fragilità. Se a questo permanente punto critico si dovesse aggiungere il venir meno di alcune solenni promesse (due su tutte: la protezione universale dalle conseguenze della crisi e la rapidità della ricostruzione in Abruzzo), il gigante perderebbe molta della sua invincibilità. E se infine ricordiamo che, dopo le Europee ancor più che prima, governo e maggioranza dovranno subire i calcoli di Bossi, ecco che una legislatura blindata si rivela clamorosamente e imprevedibilmente instabile. Il Partito Democratico, partito leader dell’opposizione, ha scarsi meriti per tutto ciò. Il massimo che se ne possa dire, obiettivamente, è che esiste e resiste, il che sembra già molto. Tutta la gran polemica che si fa sul voto utile e il timore confessato da Franceschini per un forte astensionismo progressista dipendono in definitiva da questo: il PD, anche in un momento di difficoltà berlusconiana, non è considerato un’alternativa abbastanza credibile per il governo del Paese. Non è una novità, non sorprende, e non dipende certo dalle responsabilità di Franceschini. Per quel che vale, neanche dalle responsabilità di Veltroni. La crisi nel rapporto del centrosinistra con l’Italia risale molto indietro nel tempo. Rifacendo la storia in otto righe, prima l’allora Ulivo ha divorziato con i ceti produttivi che non conosceva né riconosceva, e poi il PD ha rischiato di divorziare da un elettorato tradizionale che non gli bastava più, e che si è sentito maltrattato e abbandonato. Non sono vicende che si raddrizzano in sei mesi o in un anno. L’importante è non fare errori che compromettano l’intero progetto di ricostruzione di un’alternativa: la tattica elettorale per recuperare voti in uscita non può diventare l’inseguimento di ogni malcontento e di ogni radicalismo. Mai si deve perdere di vista l’obiettivo grosso che è quel 40% di potenziale elettorale che al PD viene tuttora riconosciuto. Il partito di Franceschini reggerà. L’annus horribilis si chiuderà con un mal di testa, ma senza aver contratto virus mortali. La partita da domani si riapre, l’unità interna sarà un valore assoluto da preservare (in questi mesi, sincera o meno che fosse, è servita molto al recupero di simpatie) insieme alla feroce determinazione alla rivincita. La destra può essere ripresa, perché forse ha smesso di correre. Diamoci sotto.

sabato 6 giugno 2009

sindrome da contestazione


Se c'è una cosa che fa letteralmente imbufalire il Pifferaio di Arcore questa cosa ha un nome: contestazione. Che siano fischi, pernacchie o modi di dire, il solo pensiero che qualcuno possa in qualche modo contestarlo fa andare fuori di testa il premier italiano. E per rinfrescare la memoria collettiva basta andare nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano per poter ancora sentire riecheggiare la stentorea voce di Piero Ricca affermare "fatti processare buffone!" rivolto chiaramente al presidente del Consiglio o tornare a Piazza Navona a Roma per trovare ancaora sull'asfalto i segni di quando un coraggioso contestatore gli tirò addosso un bel cavalletto usato per la macchina fotografica. A distanza di tempo e ancora oggi la paura della contestazione (isolata o di massa) fa impallidire il Pifferaio e lo rende estremamente nervoso. Alla fine si arriva ai grandi numeri. I due ragazzi che a Napoli urlano a Silvio: «Non venire più in Abruzzo, ci rovini!». Identificati. Tra i cittadini che a Firenze hanno fischiato il premier: 15 identificati. Qualcuno fischia fuori dalle tendopoli abruzzesi. Identificato. Senza contare le situazioni in cui le contestazioni non arrivano nemmeno al trafiletto, e tocca addirittura al contestato darne conto. Le agenzie battono: «A Bari i contestatori erano uno sparuto gruppetto» e le virgolette sono di esponenti del Popolo della Libertà, cioè si dà il commento (sprezzante) ma non la notizia. E sul corteo de L'Aquila, nemmeno una riga, silenzio obbligatorio. Ad ogni apparizione pubblica del capo del Governo, insomma, media plaudenti, silenzio di tomba sui fischi e le contestazioni, gran lavoro delle autorità di polizia per identificare i «sediziosi», setacciare il pubblico per gli incontri del premier, dove non si entra se non si è provati sostenitori, e decidere, nel caso, a quale articolo del codice penale ricorrere. I video finiscono su Youtube, girano in rete, la contestazione negata dall'informazione e nascosta dai dipendenti del contestato diventa semiclandestina, una specie di samizdad negato al grande pubblico che di quelle grida sediziose non sa e non deve sapere. Andrea Camilleri l'ha chiamata la «sindrome del Raphael», ricordando le monetine lanciate a Craxi qualche lustro fa: nascondere ogni dissenso è imperativo categorico. Contestatori, fischi, «urla sediziose», tutto va negato e cancellato dai media, come nelle antiche e divertenti veline del regime, che si tratti della vita privata del premier («Ricordarsi che le fotografie del Duce non vanno pubblicate se non sono state autorizzate» - 1936) o della crisi economica («Non toccare l'argomento delle cosiddette code davanti ai negozi» - 1940). E questo si sa. La cosa più preoccupante, invece è il passaggio successivo: appurato che si può cancellare la realtà dai media; allo stesso modo si pensa di poterla cancellare dalle piazze, usare un questore, un vicequestore, un pubblico ufficiale come fosse un qualunque caporedattore dei tg di famiglia, insomma, un dipendente. «Identificatelo e portatelo via». Detto e fatto. Signorsì, signore. E allora a questo punto rimane una cosa da fare: contestiamolo tutti insieme il Pifferaio di Arcore. Oggi e domani abbiamo una gran bella occasione per farlo fuori. O almeno per provarci...