l'Antipatico

sabato 9 agosto 2008

buone vacanze a tutti!


Ci prendiamo qualche giorno di meritato (almeno speriamo) riposo. Ogni tanto fa bene allo spirito (e al corpo) ritemprarsi con il dolce far niente. Un sincero augurio, quindi, a tutti voi affinchè possiate trascorrere delle serene e gioiose vacanze. Ci si rilegge, se ne avrete piacere, prossimamente.

giovedì 7 agosto 2008

il piccolo dittatore


Credevamo di essere i soli a parlar male del cavaliere, soprattutto alla luce degli ultimi misfatti da lui meticolosamente eseguiti da quando si è rimpossessato della poltrona di Palazzo Chigi. Ma ci sbagliavamo. E la riprova sta tutto nell'articolo (molto forte per la verità) scritto ieri dal professor Alberto Asor Rosa e pubblicato in prima pagina su il manifesto dal titolo molto esplicativo "Più del fascismo" e dedicato (manco a dirlo) al cavaliere. Ve lo riproponiamo integralmente. Mettetevi comodi: la lettura (impegnativa e non superficiale) dell'articolo vi prenderà una ventina di minuti. Ma ne varrà la pena. Buona lettura.
Il terzo Governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo. Il fascismo, con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obbiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo assai circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni. Berlusconi invece non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza, quella del sistema liberaldemocratico, cui nessuno per trent'anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo: è il figlio naturale del craxismo; è il figlio naturale dell'affarismo democristiano ultima stagione (ben altri titoli d'onore si possono inscrivere nel blasone storico della Dc); è il figlio naturale dell'incapacità dimostrata nella politica in questo Paese di rappresentare gli «interessi generali» e non quelli, inevitabilmente affaristici, anche quando non personalmente lucrativi, di piccoli gruppi autoreferenziali, che pensano solo a se stessi. Berlusconi, dunque, prima che essere fattore di corruzione, nasce da una lunga, insistita, fortunata pratica della corruzione: rappresenta fedelmente la decadenza crescente del pianeta Italia; per forza di cose non sa che governare attraverso la corruzione: la diffonde spontaneamente intorno a sé; crea un vergognoso sistema giuridico per difendersi quando sia stato colto in passato con le mani nel sacco e per continuare a farlo impunemente; modella l'Italia secondo il suo sistema di valori e, man mano che l'Italia degrada, ne viene alimentato. In un articolo apparso sul Corriere della sera (13 luglio), come al solito intelligente ed acuto, Ernesto Galli della Loggia se la prende con il «moralismo in un Paese solo», che sarebbe il nostro e che consisterebbe nel pensare che «L'Italia che politicamente non ci piace è fatta di gente moralmente ottusa guidata da un malandrino». L'accusa di moralismo astratto e vaniloquente - Galli della Loggia con la sua intelligenza dovrebbe ammetterlo - sarebbe molto meno pungente se la situazione italiana fosse quella da lui descritta. Insomma, il moralismo vano è fastidioso (lo dico con cognizione di causa, avendo studiato a lungo, e con analogo rigetto, gli antigiolittiani). Però alla lunga può diventare ancor più fastidioso che i critici del moralismo non ci dicano se al centro del problema non ci sia la corruzione dominante, e insieme con questa il suo principale rappresentante e beneficiario. Per corruzione non intendo soltanto, e neanche principalmente, l'appropriazione indebita di denaro pubblico e privato e il culto quasi parossistico del proprio interesse personale: ma la degenerazione del sistema dentro cui il gioco politico, sempre più solo formalmente, continua a svilupparsi: il malcelato disprezzo della Carta costituzionale; l'evidente estraneità alle «forme» (cioè alla «sostanza») della democrazia; la denegazione crescente della separazione dei poteri; l'incapacità dei politici - tutti - di sottrarsi al gioco mortale della pura autoriproduzione; la tendenza in atto a sottomettere tutto a un potere unico. E accanto a questo, la pulsione - per usare una vecchia ma non del tutto inadeguata terminologia - a connotare in senso sempre più ferocemente classista i valori cosiddetti condivisi della morale pubblica e le scelte di politica economica. È altresì evidente, come giustamente osserva Galli della Loggia, che vedere le cose in questo modo significa mettere all'ordine del giorno anche una riflessione sullo stato attuale della «democrazia rappresentativa» in Italia. Se infatti è per il voto degli elettori italiani che questo scempio può continuare ad ingrandirsi, questo non ci autorizzerà a buttare a mare per intero il sistema ma neanche a giustificare o ignorare lo scempio perché è il voto popolare, fatto in sé astrattamente positivo, a convalidarlo e produrlo. Se, ripeto, le cose stanno così, è evidente che c'è qualcosa (parecchio?) da cambiare o da aggiustare. Arrivo a una prima conclusione. Io mi sentirei di dire che questo è uno dei momenti della storia italiana in cui «questione sociale» e «questione nazionale» fittamente s'intrecciano, fino a costituire un unico «nodo di problemi» da affrontare insieme. Questo vuol dire che il bisogno di «unità», per quanto tormentato e difficile, è altissimo. Uno degli errori strategici più gravi che si siano commessi nel corso dell'ultimo ventennio è l'essere andati separati - riformisti e radicali - alle ultime elezioni: gli uni, vantandosene come della scoperta del secolo; gli altri, consentendovi con pallida e autolesionistica tracotanza. Per affrontare questo «nodo di problemi» è fin troppo evidente che le forze politiche dell'attuale opposizione risultano inadeguate. Perché la difficoltà attuale sia superata bisognerebbe che tutte le forze interessate, sia pure da angoli visuali diversi, guardassero fin d'ora a questo traguardo: sto parlando dunque di un processo, non di un arrangiamento fra capi e capetti. Del PD non saprei che dire se non che dovrebbe imparare presto a far bene il suo mestiere, che sarebbe quello, se non erro, di un partito moderato che guarda a sinistra (perché se decidesse, da partito moderato, di guardare a destra, il berlusconismo oggi tanto deprecato ci apparirebbe solo una tappa verso precipizi ancora peggiori). Sulla sinistra, che c'è e non c'è, e che in mancanza di altro si dilania, mi sentirei di fare alcune considerazioni di massima. Il recente congresso di Rifondazione Comunista ha avuto il merito di separare più nettamente che in passato i «comunisti» da tutti gli altri. I «comunisti» - per carità, bravissimi compagni, con cui non sarà impossibile mantenere rapporti - vanno per una loro strada, che non porta da nessuna parte. E gli altri? Gli altri dovrebbero porre alla base del loro futuro quel profondo ragionamento critico e autocritico, che finora è mancato e che lo stesso Bertinotti, se si escludono gli ultimi, disperatissimi mesi pre-elettorali, ha accuratamente evitato di affrontare. La cosa riguarda nello stesso modo l'intera galassia di quella parte della realtà politica italiana (che esiste, e come), la quale non s'adatta né alla formula corruttiva berlusconiana né all'opposizione moderata del PD né alle risposte, piene di pathos, ma programmaticamente e ideologicamente assai deboli del dipietrismo (e di altri fenomeni analoghi ma deteriori). Se mai ci sarà una Costituente di sinistra (come io mi auguro), mi piacerebbe che i suoi promotori tenessero conto che esistono tre comparti di problemi, uno programmatico, uno strategico e l'altro organizzativo, con cui - quali che siano le soluzioni da proporre - non si dovrebbe evitare di confrontarsi. Il comparto programmatico è di gran lunga il più importante, ma qui posso evocarne solo il principio ispirativo. Se non si è comunisti, si è riformisti: bisogna accettare l'inevitabilità di questo décalage storico. Ma ci sono molte forme di riformismo: e ciò che le distingue è il programma (di cui non c'è traccia alcuna nei recenti dibattiti, anche quelli congressuali!). Quella cui io penso è una forma molto radicale di riformismo, che preme su tutti i gangli della vita sociale, va più in là, s'occupa in modo più generale della «vita», delle collettività ma anche di ognuno di noi individualmente inteso, e propone soluzioni che spostano i rapporti di forza. Il cambiamento è in atto da quando lo si inizia, non c'è bisogno di arrivare al risultato finale per conoscerne tutti gli effetti. Dal punto di vista strategico non si potrà fare a meno di comporre in un quadro unitario «questione sociale» e «questione ambientale». La cosa, se si entra nel merito, è tutt'altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s'è vista ma neanche s'è visto un militante ecologista capace di «pensare» la «questione sociale» contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall'intreccio del «rosso» e del «verde». Infine: se qualcuno pensa che la crisi della sinistra si risolva creando un nuovo piccolo partito dei frantumi dei vecchi, farebbe bene a cambiare opinione il più presto possibile. Ciò a cui sembra opportuno pensare è un vasto e persino eterogeneo movimento di forze reali, che sta dentro e fuori i vecchi partiti e per il quale vale la parola d'ordine che l'unica organizzazione possibile è l'autorganizzazione: una rete di istanze e rappresentanze diverse, collegate strategicamente e non gerarchicamente, che assorba e rivitalizzi le vecchie forze piuttosto che viceversa. Certo, perché il discorso funzioni è necessario ammettere che tutte le volte in cui in Italia si riaffaccia una «questione morale» - cioè, come ho cercato di spiegare, un problema di degrado e di corruzione della vita pubblica e della democrazia - torna ad affiancarlesi l'ancora più stantia e veramente obsoleta parola d'ordine di una «rivoluzione intellettuale e morale». È questo cui pensiamo quando diciamo che la lotta al berlusconismo è al tempo stesso «questione sociale» e «questione nazionale»? Siamo retro al punto di rispondere tranquillamente di sì a questa domanda. In fondo tutto si riduce a questa semplicissima prospettiva: cambiare i tempi, i modi, le forme, i valori, i protagonisti dell'agire politico in Italia. Il resto verrà da sé.

lunedì 4 agosto 2008

fannulloni d'Italia


L'Italia è davvero uno straordinario Paese. Da noi anche la politica virtuale riesce a produrre effetti, se è accompagnata da qualche provvedimento mirato. A quanto pare, gli annunci del ministro Renato Brunetta stanno dando risultati sorprendenti. Da Aosta ad Agrigento centinaia di dipendenti pubblici, i cosiddetti "fannulloni", vengono individuati e gli arresti e le denunce fioccano come se piovesse. Con l’aggiunta di qualche licenziamento: provvedimento inaudito fino a qualche tempo fa. Forse in tutti questi anni i sindacati avranno tirato troppo la corda? Forse perché, magari, vedendo alberghi e spiagge molto meno affollati del solito, c’è un sussulto di timore, e quindi di responsabilità, da parte della società italiana? E’ presto per dirlo, ma occorre sperare in qualche tenue inversione di tendenza.
Naturalmente, nessuno pensa che, dopo decenni di inettitudine, la nostra pubblica amministrazione si possa magicamente trasformare in quella svizzera. Ma come si vede, Pietro Ichino aveva ragione da vendere. Due anni, il libro «I fannulloni» - che oggi è un termine entrato di prepotenza nel vocabolario della lingua italiana per indicare i dipendenti pubblici scansafatiche - venne accolto a base di insulti da tanti settori politicamente «corretti»: addirittura qualcuno scrisse che Ichino fosse stato «colpito dal solleone».
La situazione attuale è stata creata da un insieme di circostanze che vede coinvolti da una parte certo gli statali assenteisti ma dall’altra anche medici compiacenti, politici distratti, dirigenti incapaci, finanzieri disimpegnati. E che dire di quei magistrati che davano sistematicamente torto al datore di lavoro, pubblico o privato che fosse? Si è alimentata una grande giostra dell’irresponsabilità che ha appesantito le casse dello Stato, aumentando l’inefficienza della pubblica amministrazione e producendo devastanti esempi a cascata per l’intera collettività. Questi danni chi li pagherà mai? Cosa diciamo alle giovani generazioni che hanno un presente così nebuloso? Per un fatto morale, è doveroso mandare via i dipendenti assentisti. Ma dato che gli esempi debbono provenire dall’alto, attendiamo che sia anche la volta dei politici fannulloni, quelli che pigiano i tasti degli altri durante le votazioni del Parlamento e che si intascano i soldi dei portaborse. Brunetta sta dando l’esempio per quanto di sua competenza: ci attendiamo che Gianfranco Fini e Renato Schifani facciano altrettanto. Naturalmente, al ritorno dalle vacanze, che per i nostri onorevoli saranno molto diverse e più lunghe di quelle degli italiani normali. Certo che però loro è difficile licenziarli. Però magari mandarli a casa con il voto delle urne non sarebbe una cattiva idea...

domenica 3 agosto 2008

sotto schiaffo dal caimano




Non c'è niente da fare. Sarà una nostra impressione ma da come stanno le cose attualmente in politica nel nostro Paese difficilmente ci libereremo del caimano. Non c'è giorno che il cavaliere non utilizzi per riaffermare la sua superiorità di comando, una sorta di giogo invisibile ma costantemente presente nella nostra vita di umili cittadini asserviti al suo potere. Non si tratta solo di leggi ad personam o di laidi esercizi di impossibilità di dialogo. Si tratta di ben altro. La non effettiva opposizione della sinistra (e di quello che ne resta) al suo strapotere, al suo endemico e mai risolto conflitto di interessi, al suo scandaloso modo monotematico di amministrare il Paese. Questa non è solo una nostra modesta opinione e considerazione. No, perchè leggendo l'editoriale di ieri mattina di Antonio Padellaro su l'Unità, dal titolo esplicativo "Ve lo dà lui il dialogo", ci accorgiamo che anche il direttore del quotidiano comunista non si allontana da ciò che pensiamo. Ed è per questa ragione che vi vogliamo riproporre integralmente questo intelligente articolo. Bisogna dargliene atto. Silvio Berlusconi mantiene sempre le minacce che rivolge. Fresco di trionfo elettorale disse alla nostra Natalia Lombardo che era così arrabbiato con l’Unità che ci avrebbe fatto togliere il finanziamento pubblico. Ma no, stia tranquilla, era una battuta soggiunse poi con il sorriso da Caimano. Proprio in queste ore la promessa viene realizzata con un taglio micidiale, presupposto di certa chiusura per numerosi quotidiani quasi tutti di opposizione. Ai vertici del PD aveva anche chiesto di darsi una regolata e che un giornale siffatto (il nostro) andava “dismesso”. Il Cavaliere non è stato ancora accontentato. Ma lui sa aspettare. Sull’ultimo Espresso, Giampaolo Pansa sostiene, citando un D’Alema d’annata ’95 o ’96 che criminalizzare Berlusconi significa solo rafforzarlo. Pansa ricorda che sull’Espresso di allora lui, Rinaldi e il sottoscritto si divertivano a sbranare ogni settimana il Berlusca. Poi però aggiunge: «Con quale risultato? Berlusconi è più forte che mai ed è tornato per la terza volta a Palazzo Chigi». Osservazione interessante ma che ci sentiamo ripetere da una vita, da quando cioè l’uomo di Arcore ha cominciato a impadronirsi della politica italiana. La tesi è questa: contrastare Berlusconi e opporsi con decisione al suo uso privato del potere esecutivo e legislativo (a quello giudiziario ci penserà tra poco) è il modo migliore per non liberarcene mai. Come replicare? Forse solo invocando la controprova. Vorrei proporre a Pansa e ai tanti che nel PD la pensano come lui qualche possibile titolo di una Unità finalmente non più faziosa. Impronte ai bimbi Rom? «Luci e ombre dei provvedimenti sulla sicurezza». Il Lodo Alfano? «Una misura che può contribuire alla governabilità». La legge sulle intercettazioni che imbavaglia la libera stampa? «Un freno necessario alle continue violazioni della privacy». Non è facile parodia. È l’intonazione usata dalla quasi totalità dei giornali italiani. È vero, noi, il manifesto e qualche altra voce isolata abbiamo invece calcato i toni. Accusato. Drammatizzato. E abbiamo fatto bene. Caro Giampaolo, vorresti davvero farci credere che all’origine del quindicennio berlusconiano c’è la “criminalizzazione” operata da un paio di testate che fra poco, probabilmente, saranno messe nella condizione di non più nuocere? Noi, in combutta con la formidabile massa d’urto costituita da Rosy Bindi, Paolo Ferrero, Gianclaudio Bressa, Nichi Vendola? Vuoi davvero dirci che senza questo combinato disposto di insopportabile livore, Berlusconi da quel dì sarebbe tornato a occuparsi delle soubrette di Drive In? Non viene il dubbio che sia esattamente il contrario, che l’eterno ritorno del Caimano si deve alla molle, incerta, indefinita strategia di molti suoi avversari che in tre lustri di storia nazionale, e mentre i nostri capelli (e le nostre speranze) imbiancavano non sono mai riusciti, per dirne una, a votargli contro uno straccio di legge sul conflitto di interessi? Non viene in mente che la causa delle nostre disgrazie non deriva da qualche titolo un po’ più strillato bensì dalla sottile tecnica suicida con la quale in soli diciotto mesi si è accoppato l’unico premier, Romano Prodi, che era riuscito per due volte di seguito a sloggiare da Palazzo Chigi quello di cui sopra? Non si è sfiorati dal dubbio che l’insopportabile nenia del dialogo immaginario abbia rappresentato per l’opposizione un pessimo freno a mano? Tanto più, e qui siamo davvero al paradosso, che lui il dialogo non lo vuole proprio perché non ne ha bisogno e, anzi, forse gli fa anche senso? Tranquilli, ci penserà la sua maggioranza a sistemare questo povero Paese. Mentre altri passeranno il tempo ad almanaccare sui patti della crostata e della spigola. O a prendersela con gli ultimi giapponesi nella giungla perché non danno il loro fattivo contributo alla giusta pacificazione del Paese.

venerdì 1 agosto 2008

oscurantismo sul giornalismo


Il governo ha sentenziato la condanna a morte di una parte del mondo editoriale italiano. E come spesso accade per i provvedimenti concepiti con disinvoltura dal ministro dell'Economia, è la parte più debole dell'editoria italiana che ci rimetterà. Quella cioè che, non riuscendo a vivere della raccolta pubblicitaria, vive grazie ai contributi diretti dello Stato in virtù del principio che l'esistenza di una stampa libera, indipendente e pluralistica sia uno dei pilastri della democrazia.
Per essere concreti. Se alla fine la finanziaria estiva del governo verrà approvata con la stessa fretta con cui è stata partorita, giornali come il Manifesto, Liberazione, Europa, L'Unità, Il Foglio, Libero, Il Secolo, La Padania avranno di fronte giorni particolarmente bui. In termini di bilancio e posti di lavoro.
Il tutto è contenuto nell'articolo 44 del decreto legge 122, intitolato «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi all'editoria». A leggerlo, di riordini, pur reclamati da più parti, non se ne vede l'ombra. Come di semplificazioni del resto. A meno che per semplificazione non si voglia intendere il colpo di scure ceco e indifferenziato dei contributi diretti, quelli appunto di cui vive l'editoria cooperativa, non profit e di partito, 229 testate in tutto. Quella fetta d'informazione, cioè, la cui raccolta pubblicitaria arriva al 20 per cento dei ricavi quando va molto bene.
Il fabbisogno per il 2008 dell'editoria nel suo complesso è stata stimata intorno ai 589 milioni di euro, 190 per i contributi diretti e 399 per gli indiretti, agevolazioni fiscali, elettriche e satellitari. Quei contributi di cui godono principalmente le grandi testate come il Corriere della Sera, La Repubblica o Il Sole 24 ore. Quei quotidiani, cioè, che spesso hanno nei loro bilanci sostanziose raccolte pubblicitarie. Qualche volta superiori agli incassi delle vendite. La finanziaria del precedente governo aveva già previsto per il comparto uno stanziamento di 414 milioni, dunque già al di sotto del fabbisogno. Ma ora Tremonti ha fatto di meglio e ha sforbiciato da quella cifra 87 milioni nel 2009 e 100 nel 2010 solo sui contributi diretti «lasciando intonsi i 305 indiretti», come dice un preoccupato comunicato di Mediacoop.
Insomma, un attacco tale al diritto soggettivo ai contributi diretti, che anche la maggioranza ha mugugnato parecchio. All'inizio di luglio in Commissione Cultura alla Camera votò un emendamento con l'opposizione in cui si chiedeva di «escludere qualsiasi riduzione delle risorse destinate ai contributi diretti». Ma per ora non c'è stato niente da fare e ieri Alessio Butti, senatore del PdL, ha confessato di non poter nascondere la sua «profonda delusione per i tagli apportati indiscriminatamente all'editoria». Così, ha detto, si «mettono seriamente nei guai decine di giornali venduti in edicola, che hanno migliaia di abbonati e occupano centinaia di giornalisti». Anche il senatore del PD, Vincenzo Vita, durante la discussione ha definito quello che sta avvenendo come un «delitto perfetto». «Un'iniziativa - ha detto - lesiva di un fondamento della democrazia qual è la libertà di informazione». Si dirà: pari e patta, a rimetterci saranno sia i partiti di maggioranza che quelli di opposizione. Ma non è così. Basti pensare alla potenza di tiro mediatico che, al di là dei giornali direttamente di partito, esprime Silvio Berlusconi rispetto a tutti gli altri per capire la differenza. Evidentemente il premier, già proprietario di grandi televisioni, è quanto meno poco interessato ai piccoli giornali. E ha fretta di chiudere anche questa vicenda tant’è che per fare passare la norma viene posta la fiducia. Un nuovo elemento di pericoloso deterioramento del clima democratico che va ad aggiungersi allo smantellamento di un diritto costituzionale quale la libertà di informazione.
Berlusconi corre come un treno per raggiungere, stazione dopo stazione, i propri obiettivi, per non dire i propri interessi politici e imprenditoriali. E il PD e la sinistra? Corrono come i gamberi, all’indietro. E si vedono smantellare colpo su colpo un patrimonio politico e culturale di grande portata. Con la prospettiva, non propriamente esaltante, di scivolare ancor di più nel limbo del dimenticatoio politico di tanti italiani che appena poco più di 100 giorni orsono avevano loro espresso una tangibile fiducia con il voto. Sembra già passato un secolo...