l'Antipatico

sabato 31 ottobre 2009

la morale del caso Marrazzo


L'altra sera la puntata di Annozero (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e80d4cf5-edef-484e-9e94-ac1f7ce59eeb.html?p=0") è stata interamente dedicata ai riflessi politici e personali scaturiti dal caso Marrazzo, di cui ho già parlato nell'altro mio blog (http://tpi-back.blogspot.com/2009/10/un-trans-chiamato-desiderio-di-vendetta.html). Onore al merito per Santoro il quale, così facendo, non ha prestato il fianco alla solita stampa spazzatura made in Berlusconi che tempo fa lo invitava a trattare anche il caso del trans (http://rassegnastampa.formez.it/rassegnaStampaView2.php?id=184247) e non soltanto della escort. Detto fatto. Televisivamente parlando è stato un altro boom di ascolti, con 6.125.000 italiani incollati davanti al video per seguire le due ore di trasmissione. E a margine di ciò viene facile esprimere qualche piccola riflessione. Quello che mi colpisce d'acchito del caso Marrazzo è che, rispetto allo scandalo delle escort e delle lolite varie che frequentavano Palazzo Grazioli e Villa Certosa, la cosiddetta società civile fa una sostanziale differenza quantitativa (e forse qualitativa) rispetto ai due casi, come a dire che Berlusconi era ancora entro il limite mentre Marrazzo questo limite lo ha superato. A mio modo di vedere il punto è un altro e non riguarda il dubbio se sia più grave per un uomo sposato (che ricopre un ruolo istituzionale) andare con le ragazzine o con i transessuali. Il punto è il seguente: quanto conta ancora cercare un nesso e una coerenza tra pubblico e privato? Ha ancora senso chiedersi chi è veramente una determinata persona e non soltanto quello che questa persona fa? Forse, andando a riguardare un pò di storia, si potrebbe scoprire che non solo ha senso farlo, ma che porsi questo semplice quesito potrebbe rappresentare un evento nuovo, anacronistico, quasi surreale. Solitamente, per la società, contano solo i fatti (quelli pubblici, ovviamente) e mai l'identità di colui che compie quei fatti. Un pensiero millenario che ha le sue radici nell'antica filosofia greca e che ci ha abituato inesorabilmente a credere in una visione dell'uomo come un essere scisso: un uomo che non potrà mai risolvere le sue più profonde contraddizioni e perversioni ma che, tutt'al più, potrà controllarle con la coscienza e con la ragione vigile. Ovviamente potrà compensare talune debolezze personali (come Marrazzo ha definito le sue frequentazioni trans...versali di via Gradoli) con grandi opere pubbliche o politiche o filosofiche o letterarie o artistiche (stile le barzellette del Cavaliere...). Sono quelle le cose che contano, non altro. Basterebbe poco per ripescare, nel passato storico, esempi eclatanti di illustri pensatori, di grandi statisti o di indimenticati artisti (per non dire di immancabili psicanalisti) rispetto ai quali non contava nulla essere un nazista, un pedofilo, un violentatore o uno schizofrenico. Quello che contava era la scissione che sta a dimostrare come ci siano due persone diverse anzichè una. Il messaggio subliminale è che siamo tutti così: siamo tutti scissi, anche se non facciamo, non scriviamo, nulla di particolare o di importante nella nostra vita. Partendo quindi da una visione dell'uomo che dice che tutti hanno una bestia dentro di sè (e che hanno il loro ben da fare per tenerla a bada) e che alcuni membri della società fanno qualcosa di eccelso e che solo per questo debbono essere giudicati. Anche se ricoprono un ruolo pubblico, anche se potrebbero essere presi ad esempio. Tanto siamo tutti fatti così. Ma è proprio vero? E' proprio così sciocco chiedersi se esiste un nesso tra la filosofia esistenzialista di Heidegger e il fatto che lo stesso avesse una tessera del partito nazista in tasca? O il nesso tra i romanzi e le poesie di Pasolini e il fatto che lo scrittore massacrato fosse omosessuale e praticasse la pedofilia? Qualcuno potrebbe obiettare che queste sono libertà personali e che non vanno giudicate nè condannate perchè quello che conta è il pensiero, magari espresso in azioni e in parole scritte. Ma queste parole chi le ha scritte? Un'altra persona? Certo che no. Siamo fatti di anima immortale e di corpo corruttibile. E qui ritorna la scissione. E tornando al caso Marrazzo, perchè allora il Governatore del Lazio si è sentito in dovere di lasciare la sua carica (mentre altri non avvertono la sua stessa esigenza) e di ritirarsi dalla scena politica? Fino a prova contraria Marrazzo ricopriva un ruolo pubblico di amministratore: poteva benissimo continuare a svolgere in maniera egregia il proprio lavoro, con o senza frequentazioni di transessuali. E allora, in questo specifico caso cosa è accaduto? Cosa si è rotto nel meccanismo? L'ex Governatore ha confessato, in un'intervista al quotidiano la Repubblica, di aver toccato il fondo nel momento in cui ha notato la reazione della figlia davanti alle immagini trasmesse dalla tv, davanti al fatto compiuto, alla rivelazione del vizietto. Ma quei fatti, quelle azioni, quelle scelte di vita esistevano già prima, andavano avanti da anni e rappresentavano quasi il segreto di Pulcinella. Invece sembrava che tutta quella sfera privata di Marrazzo, per il solo fatto che non era ancora stata messa sotto l'occhio di bue della stampa e della televisione pruriginosa e affamata di gossip, non esistesse. Non fosse mai esistita. E allora cos'è questa? Perversione sessuale o schizofrenia? E' proprio vero che un uomo (o una donna) che svolge un'attività pubblica, che ha una responsabilità verso la comunità, piccola o grande che sia, non ha (o non dovrebbe avere) una vita privata? O meglio, non dovrebbe averla fintanto che s'intende (per vita privata) quel lato oscuro della personalità che qualcuno vorrebbe farci credere essere ancora perverso, malato, disumano e diabolico? A ben vedere, e con il lume della ragionevolezza, è sufficiente che la vita privata sia cristallina, coerente con la vita pubblica e con l'attività politica svolta. Non si avvertirebbe, così, la necessità di renderla pubblica e di darla in pasto a famelici cultori dell'informazione un tanto al chilo. Tutt'al più, se proprio qualcuno ci tenesse a svelarla, piuttosto che nuocere avrebbe l'effetto contrario: rinforzerebbe, gioverebbe e giustificherebbe, nella realtà dei fatti, quelle che sono le idee e le azioni pubbliche di una determinata persona. Il problema sarebbe solo rappresentato dall'esatta definizione di vita privata cristallina. In fondo, ma proprio in fondo, tutti noi vorremmo averla una vita cristallina. Senza scissioni. e che rappresenti un bell'esempio per tutti. Anche per quelli che non avvertono l'esigenza di seguire l'esempio rappresentato dal gesto di Marrazzo. Quello di rassegnare le dimissioni, ovviamente.

sabato 24 ottobre 2009

il momento della scelta


Domani, domenica 25 ottobre, finalmente il Partito Democratico incoronerà il nuovo segretario nazionale di quello che dovrebbe essere (e che mi auguro ardentemente sia) il maggior partito di opposizione del nostro Paese. Quello stesso partito che un giorno, spero non troppo lontano, dovrà prendere le redini del comando e della guida politica, nonchè sociale ed economica, che porterà l'Italia fuori dal guado del berlusconismo e dal conseguente abbrutimento morale e materiale in cui attualmente si trova. L'elezione del nuovo segretario del PD sarà la prima e forse unica certezza all'interno di un florilegio di indecisioni e di stati di confusione. Le incognite la fanno da padrone: non si sa se vincerà il segretario-traghettatore (Franceschini) o lo sfidante favorito dai rumors (Bersani) o perchè no il terzo incomodo (Marino). Non si sa se andranno a votare in tanti come due anni fa per Veltroni (tre milioni e mezzo) o come quattro anni addietro per Prodi (quattro milioni e trecentomila). Non si sa se il prossimo segretario sarà più combattivo, più pugnace e meno gentile nei confronti del Cavaliere. Non si sa se miglioreranno o peggioreranno i rapporti del PD con l'alleato scomodo (Di Pietro) o con quello possibile (Casini). Non si sa neanche se qualcuno tra gli eventuali sconfitti del dopo nomina farà le valigie e abbandonerà la bella compagnia. A ben vedere non sono pochi gli interrogativi nell'immediata vigilia dell'evento anche se la prima incognita (quella sul nome del leader) contiene in verità tutte le altre. Osservando lo stato attuale delle cose, mi viene da rimarcare come i due maggiori indiziati alla carica di segretario abbiano messo insieme, in omaggio alla tradizione delle mescolanze passate, due squadre con molti oriundi. E una in particolare (la Binetti) ha terremotato ancor di più la situazione con il suo esasperato dissenso in coda alla proposta di legge sull'omofobia targata PD. Al netto dei torti e delle ragioni, comunque, quello che colpisce è il poderoso incedere del caos, delle continue frammentazioni e delle ripicche storiche di antiche e mai sopite rivalità all'interno della galassia rossa. Il fatto principale (e quasi mai sufficientemente biasimato) è che il Partito Democratico ha stabilito il suo insediamento su un territorio politico molto esteso, anche troppo, che va dai teodem alla Fiom. Lo ha fatto, purtroppo, rimandando al futuro il compito di elaborare un'identità che tenesse tutti insieme nel nome del riformismo e dell'antiberlusconismo. Lo ha fatto, è questo il punto, dall'angolo dell'opposizione che in genere è il luogo meno agevole per aggiustare le cose. Lo avesse fatto durante i tempi della maggioranza di governo sarebbe stata tutta un'altra storia. Ma l'ha fatto anche senza una leadership forte e incontrastata (purtroppo non ne nascono più di Berlinguer...): Veltroni ha avuto il suo daffare nel lottare contro le correnti avverse; Franceschini ha ereditato tutti i suoi avversari e non tutti i suoi alleati. L'ex vice di Veltroni ha reagito attaccando Bersani e D'Alema provocando, forse a sua insaputa, uno scenario da guerra di tutti contro tutti che, di solito, non credo sia il miglior viatico per una nuova avventura politica. In buona sostanza il bilancio è alquanto critico e il pronostico per quello che avverrà a partire da domani lo è ancora di più. Ma a mio avviso, e nonostante tutto, il PD ha almeno tre frecce al suo arco: la prima è rappresentata dall'oggettiva difficoltà all'interno della maggioranza del Popolo della Libertà, alle prese con la grana Tremonti che induce a pensare in positivo, per il PD ovviamente, in caso di un peggioramento delle cose nella casa berlusconiana. Se (come sembra) dovessero accentuarsi i problemi per il PdL, è ovvio che il principale partito dell'opposizione vedrebbe risalire le sue quotazioni politiche ed elettorali. La seconda freccia in mano al PD è rappresentata dalla mobilitazione che susciterà nella gente l'evento di domani: se dovessero affluire nei gazebo molti più elettori rispetto alle previsioni, è quasi scontato che l'aria cambierà, in meglio ovviamente, contribuendo a portare in seno al partito un clima più respirabile, più sereno e finanche più ottimistico rispetto alla possibilità di mandare a casa il Pifferaio di Arcore. E per finire la terza freccia: la nuova leadership, qualunque essa sia (personalmente faccio il tifo per Bersani). Il nuovo segretario del Partito Democratico avrà dalla sua una nuova e mi auguro lunga luna di miele con l'elettorato: potrà sfruttare la spinta di un'investitura popolare per dare al suo partito la sterzata di cui ha bisogno. E se davvero una di queste tre frecce raggiungerà il bersaglio (e da lunedì mattina lo vedremo) allora, e solo allora, si potrà intravedere la prima luce, per quanto fioca, alla fine del tunnel nerissimo del berlusconismo del terzo millennio. E non ci sarà bisogno di inforcare occhiali protettivi...

martedì 20 ottobre 2009

e il ministro Brunetta boccia l'ultima ricetta (di Tremonti)


Bisogna dire che il ministro Renato Brunetta è un tipo che non si risparmia (solo la natura si è risparmiata con lui...): ogni qualvolta se ne presenta l'occasione, a seguito di un intervento di un suo collega di governo piuttosto che un'esternazione per la polemica del momento sul giudice Mesiano, lui è sempre lì in prima linea o per meglio dire in prima pagina. Si affanna, ribadisce, censisce, dice a questo e dice a quello. Insomma non fa passare mai invano il suo tempo a disposizione, creando il presupposto per una legittima domanda: ma qualche volta trova il tempo per copulare con la sua compagna? Protocollato l'inquietante interrogativo andiamo avanti. A seguito dell'uscita, alquanto inattesa e forse intempestiva, del buon Giulio Tremonti su posto fisso e dintorni (http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=NQ5XW) il ministro bonsai ha sentito l'ineludibile esigenza di intervenire (http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/economia/occupazione/no-brunetta/no-brunetta.html) e dire la sua non prima di aver dato altre sue interpretazioni a due avvenimenti degli ultimi tempi: a proposito di una presunta impennata dell'assenteismo nelle fila della Pubblica Amministrazione (lui dice nell'ordine del 22% in agosto e settembre, forse non calcolando che esistono anche le ferie...) Renatino Brunetta si infervora e in un'intervista a La Stampa (http://stampa.ismea.it/Viewer.aspx?Date=Today&ID=2009101913977791) dice che vuol tornare a punire i fannulloni e i furbacchioni che hanno approfittato della sua benevola riduzione dell'orario di controllo per chi sta in malattia a casa (da 11 a 4 ore) e poi, a proposito dell'attacco mediatico al giudice Mesiano, solidarizza e quasi prende le sue difese mandando un pò in frantumi la casa di vetro di berlusconiana fattura nella quale tutti sono obbligati all'uniformità di giudizio e di pensiero. A volte sorprende davvero il ministro bonsai e riesce ad essere triviale e antipatico come simpatico e buffo (o puffo che dir si voglia), mai comunque stantìo e banale. In definitiva la sortita contro il pensiero tremontiano sul posto fisso è stata la classica ciliegina brunettiana sulla torta governativa: il maitre (e mezzo) di Palazzo Vidoni si diverte a bocciare ricette (o presunte tali) delle quali non sente la necessità nè tantomeno la validità della preparazione. A margine di tutto ciò mi sembra opportuno segnalare una sorta di manifesto anti-Brunetta scritto dalla redazione di una non meglio conosciuta Empire Berlesque tutta da leggere (http://rassegnastampa.formez.it/rassegnaStampaView2.php?id=182365). Con un consiglio per il ministro: non transiti da solo nel centro di Roma. A quanto pare i Berlesque sono leggermente incazzati.

domenica 18 ottobre 2009

una spallata contro la riforma (sull'aborto) di Zapatero


Se qui in Italia le polemiche sulla pillola RU486 non accennano a diminuire, che bisogna dire allora della manifestazione di ieri andata in scena a Madrid? Una moltitudine variopinta e rumorosa di gente ha gridato NO alla proposta di legge dell'esecutivo di Zapatero che consente l'interruzione di gravidanza alle minorenni senza il consenso dei genitori. Un NO gridato da un milione e mezzo di persone che vale 112.000 vite (quelle perse nel 2007) o 138.000 (quelle che potrebbero essere interrotte quest’anno). Un NO che il governo di Josè Luis Rodriguez Zapatero non dovrebbe ignorare troppo facilmente, perché è la seconda volta in pochi mesi che viene rovesciato come una doccia fredda sul progetto legislativo poco attento ai sondaggi e agli umori dei cittadini. Ma se lo scorso marzo a scendere in piazza a Madrid furono in 500.000, ieri la città spagnola (riscaldata da un piacevole sole di ottobre) si è trasformata nella capitale della vita invasa dal milione e mezzo che dicono NO alla riforma ma che dicono anche SI' alle donne, ai nascituri, agli aiuti alla maternità (che la Spagna dimentica). È stata la manifestazione più importante contro l’aborto nella storia del Paese iberico: il ddl di Zapatero che liberalizza l’aborto entro le prime 14 settimane (permettendolo fino a 22 settimane in caso di malformazione o rischio fisico e psicologico per la donna) ha scosso la società spagnola dal silenzio con cui per anni ha assistito all’aumento esponenziale degli aborti (+126% in dieci anni). Una marea di bandiere, magliette e cappellini rossi (dell’organizzazione Diritto di vivere) ha attraversato il tronco centrale del Paseo della Castellana, dalla piazza Colon fino alla Porta d’Alcalà. Qui, su un grande palcoscenico, si sono susseguite testimonianze e dichiarazioni. Le donne erano numerosissime: le vere protagoniste della giornata. Molte di loro hanno attraversato la dura esperienza di una gravidanza inattesa quando erano ancora molto giovani, senza aiuti pubblici. Ieri hanno manifestato contro una modifica che fa tremare madri e padri: le 16enni e le 17enni, secondo la nuova legge, potrebbero abortire da sole, senza il permesso dei genitori e senza doverli neppure avvisare. E poi c’erano famiglie, nonni, coppie di giovani (ancora senza figli) e ragazzi, adolescenti o già universitari. L’ambiente era festivo, rilassato, ma allo stesso tempo impegnato. Il progetto di legge di Zapatero non piace agli spagnoli. Oltre il 58% è contrario a permettere alle 16enni di abortire liberamente, il 46% non considera necessaria la riforma, il 55,6% pensa che una vera politica a favore della natalità ridurrebbe gli aborti: sono i dati di un recente sondaggio del quotidiano La Razòn. Ma l’esecutivo socialista preferisce trasferire la polemica su un piano inferiore: lo scontro politico. Fra le centinaia di migliaia di persone c’erano anche alcuni rappresentanti di spicco del Partito Popolare: dall’ex premier Josè Maria Aznar alla presidente della regione madrilena Esperanza Aguirre. E così per il numero due dei socialisti, Josè Blanco, la partecipazione del PP al corteo è un’iprocrisia: «Quando governava Aznar ci furono centinaia di migliaia di aborti, ma la destra non disse nulla». Ma questa volta, è onesto riconoscerlo, ad affrontare direttamente l’iniziativa del governo sono stati i cittadini comuni, i madrileni e gli spagnoli arrivati nella capitale da tutto il Paese con 700 autobus. Sono loro, alla fin fine, che hanno reclamato una risposta. Che credo non sarà affatto facile e risolutiva da parte di Zapatero...

confronti improponibili


Ci sono momenti in cui mi piacerebbe vedere un'altra Italia: invece sono costretto, mio malgrado, a digerire questa cicuta ributtante costituita dall'insieme degli estratti peggiori del berlusconismo, oltre che dal sensazionalismo becero e vigliacco della stampa e della televisione made in Arcore. Un voltastomaco continuo e incessante cui nemmeno vagonate di Enterogermina riescono a porre rimedio. E mentre assisto a tutto questo sfacelo italiano, mi vengono in mente i dati relativi alla vera e sostanziale realtà della situazione nel nostro Paese: una recente ricerca traccia il profilo dei poveri che continuano a vivere in Italia in condizioni da Burkina Faso. Sono principalmente meridionali e disoccupati cronici, con un titolo di studio basso e un nucleo familiare numeroso. Le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà spendono meno di 230 euro al mese e sono circa il 5% del totale. All'attuale classe politica italiana tutto ciò non interessa affatto e allora mi sembra giusto fare un paragone tra chi si è autoproclamato l'eletto dal popolo e chi (poco più di 60 anni fa) tracciava il solco della vera natura del buon capo di governo che guida un Paese. Diceva Alcide De Gasperi: "Noi, governo e Parlamento, abbiamo una responsabilità verso la nazione: quella di osservare i princìpi fondamentali della democrazia che sono legge uguale per tutti, subordinazione dei partiti al bene supremo del Paese, sforzo reciproco di trovare (ciascuno nella funzione che gli spetta e nel rispetto delle opinioni) la via per consolidare un regime di libertà, instaurando oltre che nelle leggi anche nel costume il metodo democratico sinceramente voluto e onestamente applicato". Parole pronunciate il 1° giugno 1948 dal miglior presidente del Consiglio che il nostro Paese abbia mai avuto, altro che Berlusconi. De Gasperi fece questa dichiarazione dopo le elezioni del 18 aprile, in una situazione ben più complessa rispetto a quella di oggi, ovvero dopo una drammatica campagna elettorale, in un quadro internazionale da guerra fredda e con la più forte e agguerrita sinistra dell’Occidente.
Altri tempi, altri uomini, altro spessore. Nessuno, allora, si sognava che il voto popolare (la DC di De Gasperi, da sola, aveva sfiorato il 49% dei voti) potesse autorizzare a delegittimare le istituzioni o la Carta costituzionale. Oggi, invece, non c’è limite al peggio. Si è innestata una marcia indietro nella cultura democratica, si picconano i muri portanti della casa comune (come dice giustamente Bersani), si delegittimano gli organi di garanzia, si attaccano le più alte cariche dello Stato, si usano in televisione toni da osteria poco galanti verso le donne, ci si appella al popolo o alle piazze, pur avendo in Parlamento una larga maggioranza.
Di questo passo, la via verso il baratro è segnata, se non ci fermiamo per tempo. E se non rimettiamo in gabbia i falchi della politica, liberando le colombe.
Dalla follìa di questi giorni si può e si deve uscire, nell’interesse del Paese. La decisione della Corte costituzionale sul Lodo Alfano non mette in discussione il diritto-dovere di governare per chi ha vinto le elezioni. Ribadisce solo che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. È scritto nell’articolo 3 della Costituzione. Certo, quella Carta ha sessant’anni. C’è bisogno di qualche ritocco nelle applicazioni, non certo nei princìpi. Resta, comunque, la stella polare per la civile convivenza degli italiani, al di là delle diverse opinioni politiche. Ma nulla di serio si costruisce sulle macerie, tanto meno senza la collaborazione di tutti.
Chi ha avuto un ampio consenso dal voto popolare ha ancor più responsabilità nel servire il Paese, non nell’appropriarsi delle istituzioni, sfrattando dalla casa comune chi non la pensa allo stesso modo. Più alte sono le responsabilità, più elevato deve essere il senso dello Stato e della democrazia, che si fonda sulla divisione dei poteri. È grave dare del vile al Presidente della Repubblica, ma è altrettanto grave sbeffeggiarlo e non prendere in considerazione quel che dice.
Non c’è investitura popolare che possa essere usata come grimaldello per scardinare la centralità del Parlamento, mortificato dal ricorso continuo al voto di fiducia (25 in soli diciassette mesi di governo). O per tenere in pugno i parlamentari, già asserviti da una legge elettorale che, espropriando il popolo di un suo diritto, ha dato ai capi di partito il potere di nomina.
E mentre la politica è alle prese con i bizantinismi, tre milioni di italiani fanno la fame. Soprattutto se hanno perso il lavoro. La crisi svuota il carrello della spesa. E qualcuno la fa solo tra gli avanzi dei mercati. Sono i dati di una ricerca del Banco alimentare, che lancia l’allarme in Italia. «Questa povertà», hanno detto i ricercatori, «non è un'invenzione dei mass media, ma è un'amara e dura realtà di cui fanno una terribile esperienza centinaia di migliaia di famiglie italiane». Basterebbe questo ritratto doloroso e drammatico per far venir voglia, a chi pensa di essere il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, di cambiare rotta (politica e personale) e di mettersi realmente al servizio del Paese. Come fece De Gasperi. Ma purtroppo Berlusconi non sarà mai come lui.

venerdì 16 ottobre 2009

come cambiò il destino politico (e televisivo) dell'Italia


A volte la memoria storica di questo nostro beneamato Paese è un pò fallace. Per fortuna che c'è qualche giornalista, come Andrea Fabozzi de il manifesto, dalla risoluta e spiccata formazione mentale non ancora intorpidita, che ci viene in soccorso e ci ricorda come andarono i fatti 25 anni fa, quando il Pifferaio di Arcore, allora intimo amico di Bettino Craxi, riuscì grazie all'aiuto decisivo del defunto leader socialista a cambiare le regole della comunicazione televisiva e un pò anche quelle del vivere quotidiano. Per rinfrescarsi la memoria è d'uopo dare un'occhiata al seguente filmato (http://www.youtube.com/watch?v=ihAb-ARVRn0). Da quel mese di ottobre del 1984 tante cose sono cambiate (purtoppo in negativo) nel nostro Paese; la metastasi berlusconiana ancora oggi sta provocando irrimediabili effetti nefasti su tutti noi e la cura risolutiva ancora non si riesce ad intravederla. Spero vivamente che qualcuno dei tre candidati del PD, dopo il fatidico 25 ottobre, riesca a capire e a commercializzare l'antidoto contro il veleno letale del premier. Almeno si riuscirà a salvare qualcosa di ancora salvabile, finchè si è in tempo. Ora vi lascio all'articolo rievocativo di Andrea Fabozzi scritto ieri sul quotidiano diretto da Valentino Parlato. La mattina del 16 ottobre 1984 cambiò la storia della televisione italiana. E anche il destino politico del Paese. Tre pretori spedirono la polizia postale (si chiamava Escopost) a interrompere le trasmissioni televisive di Canale 5, Rete 4 e Italia 1, a Roma, Torino e Pescara. Niente Puffi. E niente Dallas, Dinasty, Maurizio Costanzo Show e Superflash per due milioni di spettatori, quelli di Lazio, Piemonte e Abruzzo, su 13 milioni che le televisioni private di Silvio Berlusconi raccoglievano ogni giorno. Fuori dalla legge. Perché trasmettere lo stesso programma in contemporanea su tutto il territorio nazionale (la «interconnessione») era vietato. Con i ponti radio e il sistema delle videocassette accese in contemporanea, il Cavaliere aveva aggirato il divieto stabilito dall'articolo 195 del codice postale: così dissero i pretori Eugenio Bettiol (Roma), Giuseppe Casalbore (Torino) e Nicola Trifuoggi (Pescara). Quattro giorni più tardi, dopo aver ricevuto Berlusconi a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Bettino Craxi emanò un decreto, che il presidente della Repubblica Pertini velocemente firmò, per rimettere le cose a posto. Trasmissioni prorogate per un anno. Da allora in poi nessuno più fermò l'avanzata del Cavaliere che, esattamente dieci anni dopo, passò dalla tv alla politica. Il blocco dei tre pretori fu il suo momento più difficile. Ne uscì, e ringraziò Craxi con una lettera che è spuntata fuori due anni fa dall'archivio personale dell'ex leader socialista depositato al Senato. «Caro Bettino, grazie di cuore per quello che hai fatto. So che non è stato facile e che hai dovuto mettere sul tavolo la tua credibilità e la tua autorità. Spero di avere il modo di contraccambiarti». Questa lettera straordinaria di Berlusconi a Craxi è stata pubblicata per la prima volta da Sebastiano Messina su Repubblica nel 2007. Non ha bisogno di commenti: «Ho creduto giusto non inserire un riferimento esplicito al tuo nome nei titoli tv prima della ripresa per non esporti oltre misura. Troveremo insieme al più presto il modo di fare qualcosa di meglio. Ancora grazie, dal profondo del cuore. Con amicizia, tuo Silvio». Le protezioni del governo Craxi, l'assalto ai giudici e l'appello alla «volontà del popolo» furono evidentemente coincidenti e accettati totalmente dai suoi telespettatori: in quei pochi giorni di venticinque anni fa c'era già la storia di oggi. Compresa l'abilità di Berlusconi. I pretori, infatti, non avevano oscurato le tv private ma solo vietato la trasmissione in simultanea degli spettacoli. Fu il Cavaliere a decidere il black-out. Per drammatizzare. Cominciarono le telefonate al centralino di Palazzo Chigi. Scattò la protesta dei volti noti tv. Maurizio Costanzo organizzò puntate straordinarie del suo show dal teatro Giulio Cesare, Corrado si lamentò, Guglielmo Zucconi su Rete 4 fece parlare i «teleutenti». La concessionaria della pubblicità di Berlusconi, Publitalia 80, diffuse i primi sondaggi: il 91% degli italiani era contro i pretori. L'Avanti di Craxi sperimentò la prosa che lo renderà celebre negli anni di Tangentopoli: «Nel vuoto di potere si sono inseriti altri poteri non democraticamente responsabili ... pretori notoriamente aderenti a gruppi dell'estrema sinistra ... un metodo illiberale». Anche il Pci si preoccupò. Il responsabile comunicazione di massa del partito era un non ancora quarantenne Walter Veltroni: «Non ci si deve rallegrare che emittenti televisive vengano oscurate e non si può non ragionare sulle conseguenze che questo può avere sullo stato di aziende, piccole e grandi, e sull'occupazione. Ci sono poi anche le abitudini degli utenti consolidate in anni di offerta televisiva che non possono essere ignorate». Le ragioni di tanta prudenza si capiranno poi, quando il primo «decreto Berlusconi» fu fatto cadere alla Camera e Craxi ne preparò subito un altro che conteneva anche la riforma del vertice Rai. Nuove regole per la nomina del Cda di viale Mazzini, del presidente e dei direttori delle testate radiofoniche e televisive. Nell'accordo, tenuto a battesimo dal direttore generale della Rai Biagio Agnes, la direzione del nuovo Tg3 fu assegnata ai comunisti. Ad opporsi restarono i parlamentari della sinistra indipendente e alcuni democristiani di sinistra. Il Pci mantenne il voto contrario, ma rinunciò all'ostruzionismo che avrebbe certamente fermato un decreto presentato tardi per la conversione. E invece il voto finale arrivò il 4 febbraio 1985 alle undici di sera, un'ora prima della scadenza del decreto. Decisiva la partecipazione al voto dei senatori missini. Il giorno dopo un'edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale certificava la prima grande vittoria di Silvio Berlusconi.

martedì 13 ottobre 2009

catastrofi annunciate & promesse rimandate


Questa volta credo che la tragedia avvenuta all'inizio di questo mese a Messina non avrà lo stesso esito pomposamente sbandierato dal presidente del Consiglio in Abruzzo. L'alluvione che ha devastato Giampilieri, Scaletta Zanclea, Molino, Altolia e Briga Marina segue, in questa occasione, uno spartito diverso da quello del dopo terremoto de L'Aquila. Le solite promesse cui ci ha abituato il Pifferaio di Arcore questa volta non avranno seguito: ho la netta impressione che l’ennesimo melodramma con colpo di spugna finale stia per andare in scena sul palco del teatrino Italia. Il dolore, le lacrime, i funerali, gli applausi e le contestazioni. Il copione prosegue con il solito ritornello della reazione del Paese nei momenti difficili, dell'impegno del governo a ricostruire ed infine il silenzio. Sembra già tutto scritto nella sceneggiatura del dopo alluvione. L’immane tragedia che ha sepolto sotto il fango uomini, donne e bambini dei paesini della fascia costiera del messinese ha dei responsabili ben precisi: i governi centrali, regionali e locali di questi ultimi anni. Quella di Messina è stata una catastrofe annunciata, dove l’ondata di maltempo ha solo innescato una bomba ambientale pronta ad esplodere da tempo, alimentata dal gravissimo dissesto idrogeologico causato dalla cementificazione selvaggia, dal disboscamento, dall’incuria e dall’abusivismo galoppante. Una situazione di grave e diffusa illegalità conosciuta a tutti i livelli istituzionali, dal governo e dal ministero dell’Ambiente, presieduto dalla siciliana Stefania Prestigiacomo, passando per la Protezione Civile nazionale e regionale, per terminare con la Regione Sicilia di Raffaele Lombardo. Tutti sapevano, ma hanno continuato a fare finta di niente. Sullo sfondo di questo scenario di morte e distruzione, famelici signori del mattone si leccano i baffi pregustando la gustosa torta della ricostruzione. E tanto per non cambiare copione ha già avuto inizio lo scaricabarile tra i governanti locali, regionali e nazionali, in seguito all’inchiesta aperta dalla Procura per disastro colposo. Le impressionanti foto scattate nell’ottobre 2007 (quando un’analoga alluvione aveva sepolto nel fango Giampilieri, Scaletta e le loro frazioni) erano molto più di un’avvisaglia. Ancor prima, vasti fronti di frana nel 1994 e nel 1996 avevano fatto dichiarare lo stato di calamità naturale nella zona. Sfogliando le pagine di un rapporto-indagine del 2006 di Legambiente, si è appreso che 273 comuni dell’isola erano classificati ad alto rischio di alluvioni e frane. Nella sola provincia di Messina erano ben 91. Dopo l’alluvione del 2007 erano stati previsti interventi per 11 milioni di euro dal piano strutturale elaborato dalla Protezione Civile regionale, ma di quei soldi al Comune di Messina, per Giampilieri, sono arrivati in un primo momento solo 45 mila euro, utilizzati per consolidare un terrazzamento a monte dell’unica strada che ha resistito al nubifragio e 900 mila euro in un secondo momento per lavori in consegna proprio nei giorni del disastro. Stessa sorte per Scaletta Zanclea dove, dei 20 milioni richiesti per i progetti di risanamento, sono arrivati solo 500 mila euro, sufficienti appena a ripulire il paese dal fango. E la Protezione Civile? Dopo l’alluvione del 2007 fu redatto un piano di interventi poi consegnato alla Regione siciliana fra novembre e dicembre di quello stesso anno. Di quel piano non se n'è saputo più nulla. E i sindaci? Sapevano benissimo che la collina si stava sgretolando e che molte famiglie continuavano ad abitare in case dalle fondamenta lesionate dalla precedente alluvione, ma non hanno mosso un dito. E Berlusconi e la sua ministra Prestigiacomo? Hanno preferito destinare i pochi fondi rimasti per combattere il dissesto idrogeologico in zone assai meno pericolanti, ma più alla moda e più vicine al cuore di facoltosi industrialotti, veline, stagiste e rispettivi lenoni istituzionali. Le emergenze di Giampilieri e Scaletta sono state ignorate, ritenendo più urgenti il ripascimento della baia di levante dell’Isola di Vulcano, la ricostruzione della spiaggia a Stromboli, nonché gli interventi di sistemazione dell’area costiera a Panarea per 288 mila euro. Combinazione vuole che in quest'isola la Prestigiacomo possieda una bella villa di famiglia. Poi uno dice che pensa sempre al male...

domenica 11 ottobre 2009

Scalfari & Bocca, due signori del giornalismo




Questa domenica sono rimasto letteralmente affascinato dalla lettura di due straordinari pezzi di giornalismo: il primo è l'editoriale che Eugenio Scalfari ha dedicato al Caimano (http://rassegnastampa.formez.it/rassegnaStampaView2.php?id=180360) e il secondo è l'intervista che Giorgio Bocca ha concesso allo scrittore e critico letterario Oreste Pivetta (http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=NMGW3). Leggendo quello che hanno da dire i due decani e signori del giornalismo italiano sono rimasto realmente colpito dall'unanimità di giudizio sullo sfacelo, pauroso e irreversibile, al quale la scriteriata condotta politica e personale del Pifferaio di Arcore ci sta conducendo. Posso modestamente aggiungere che buona parte del pensiero di Scalfari e di Bocca è stato sempre coerentemente portato avanti da chi vi scrive e soprattutto nell'ultimo periodo grazie alla preziosa e intelligente collaborazione del mio amico DAVIDE. Credo sia sufficiente questa personale sottolineatura per far capire ai lettori di questo blog quanta passione politica, intellettuale, sociale e morale metta in tutto ciò che scrive chi da quattro anni (costantemente e coerentemente) invita le coscienze di questo Paese, che transitano per questo modestissimo blog, a fare fronte comune per debellare definitamente quello che Scalfari e Bocca chiamano con il giusto nome: un cancro. Che poi ha le fattezze dell'attuale presidente del Consiglio.

venerdì 9 ottobre 2009

riflessioni sul lodo bocciato


Ogni volta è la stessa storia: qualsiasi giudizio espresso comporta una sostanziale spaccatura tra i pro e i contro e la sentenza del Lodo Alfano non si è sottratta a questa regola non scritta. Bisogna partire, comunque, da un assunto che a mio giudizio dovrebbe valere sempre: una sentenza della Corte costituzionale è un atto giuridico e non politico. Che può tuttavia avere serie conseguenze politiche. Sulla base del ricorso presentato da alcuni magistrati di Milano e di Roma, la Corte ha svolto un ragionamento geometrico. Il Lodo Alfano contraddice un principio materiale (il principio di uguaglianza, scritto nell'articolo 3 della Costituzione) e anche un principio formale (che impone il ricorso a una legge costituzionale, in caso di deroga a uno o più principi scritti in Costituzione). Eccepire di fronte a questo sillogismo è certo possibile ma è solo un tributo a interessi di parte. E comunque è ormai del tutto inutile. Le conseguenze politiche di questa decisione possono e debbono essere profonde. Cozza contro un ostacolo insormontabile una strategia eversiva dispiegatasi durante l'intera parabola politica di Silvio Berlusconi. Viene al dunque uno scontro la cui posta in gioco non è l'orientamento politico di un esecutivo, ma la forma stessa del governo, la logica del rapporto tra governanti e governati, tra potere e cittadinanza. Questo è il punto, al di là del fatto che il motivo determinante dell'azione eversiva del capo della destra sia la volontà di difendere, con tutti i mezzi, i propri interessi economici e un enorme patrimonio accumulato grazie a protezioni politiche e a collusioni col malaffare. Com'era prevedibile, Berlusconi ha reagito alla sentenza della Corte con inaudita violenza. I suoi insulti hanno colpito le massime autorità istituzionali della Repubblica, compreso il Capo dello Stato. La Consulta è stata raggiunta da accuse infamanti, accompagnate da un corteo di minacce. Non è una novità, anche se si tratta di fatti gravissimi, poiché l'insulto alle istituzioni, soprattutto se pronunciato da chi ricopre alte funzioni pubbliche, mina alle radici la loro autorità e credibilità. Non è una novità, ma è certo il segno di un pericolo divenuto oramai estremo. Sino alla settimana scorsa, la scena politico-mediatica era segnata da alcuni fatti, che oggi stanno sullo sfondo: la penosa vicenda delle notti brave di Berlusconi, con il corteo delle sue risibili giustificazioni; la guerra contro i giornalisti e le testate indisciplinate, culminata nella lista di proscrizione stilata in puro stile piduista dall'on. Cicchitto; lo scontro fra Tremonti e le grandi banche, a copertura del disastro di una mancata politica economica, che lascia il Paese senza difese contro la recessione. Poi, negli ultimi giorni, due avvenimenti hanno sconvolto una situazione già molto instabile: prima è arrivata la pesante condanna pecuniaria a carico di Berlusconi per la corruzione del giudice che decise a favore della Fininvest lo scontro con De Benedetti per il controllo della Mondadori; poi è entrata in scena la Consulta, chiamata a giudicare della costituzionalità del cosiddetto Lodo Alfano, per mezzo del quale Berlusconi era sin qui riuscito a tenersi alla larga dalle aule di giustizia. La rabbiosa e minacciosa reazione del Pifferaio di Arcore ha indotto qualche giornale ad evocare pericoli di golpe. Di certo, il passato piduista di Berlusconi (e, a sentire Licio Gelli, anche il presente) non è certo una credenziale di lealtà costituzionale. E non lo è nemmeno la presenza ai vertici del suo partito di altri membri della P2. Fatto sta che i proclami e gli insulti di queste ore suonano inequivocabili, e segnano un salto di qualità rispetto ai precedenti attacchi rivolti agli avversari e ai poteri sottratti al suo controllo. Silvio Berlusconi rappresenta un grave pericolo per la tenuta del nostro sistema democratico. Non tenere presente questo dato di fatto sarebbe, nell'attuale frangente, l'errore più nefasto. Egli ha già fatto molto, grazie a un'enorme rete di complicità politiche ed economiche, per devastare l'Italia e renderla simile a lui nel disprezzo della legalità e nella pratica della prevaricazione. Oggi è colpito duramente, ma non si rassegna a uscire di scena. È un uomo disperato, che tuttavia dispone ancora di un potere enorme. Non si dimetterà, finché disporrà ancora di una maggioranza parlamentare. Al contrario, farà di tutto pur di rimanere in sella e travolgere chi ostacola le sue mire totalitarie. La sorte di Berlusconi dipende in larga misura dalle forze che potrebbero abbandonarlo. Purtroppo lo stesso non si può dire con altrettanta certezza di un'opposizione debole e inefficace, non di rado incline ad assecondarne, nei fatti, le decisioni. Se, dopo ogni esperienza di governo del centrosinistra, Berlusconi è stato, nonostante tutto, puntualmente rieletto, non ci si può limitare a denunciare le sue responsabilità. Oggi, un pò in ritardo, Franceschini si cosparge il capo di cenere per la mancata legislazione in tema di conflitto di interesse. Fa senz'altro bene, benché il discorso dovrebbe riguardare anche la decisione, nel '94, di non applicare a Berlusconi la normativa sulla ineleggibilità, inaugurando una fase di drammatica regressione politica e morale e precipitando il Paese verso una devastante avventura. Ma il punto è ancora un altro. La destra prende i voti perché da quindici anni l'altra parte politica, quando vince e governa, non cambia nulla rispetto alle sue politiche: nulla per quanto concerne il diritto di essere rappresentati nelle istituzioni fuori dalla gabbia del bipolarismo; nulla per contrastare le degenerazioni oligarchiche della classe dirigente; nulla, soprattutto, per tutelare i diritti del lavoro e rispondere ai bisogni di chi ha difficoltà a sbarcare il lunario. Lo strapotere mediatico di Berlusconi è l'arma vincente perché quando mancano le cose concrete anche le sole parole bastano a illudere. È giunto il momento di porre fine a questa situazione. Sia pur tardivamente, le forze democratiche debbono avere un sussulto di responsabilità. Debbono trovare il modo di rispondere unitariamente al pericolo che sovrasta la democrazia italiana. E debbono lavorare per dare vita a una stagione di garanzia costituzionale, che sani la patologia dei conflitti di interesse e cancelli una legge elettorale liberticida, chiudendo la sciagurata parentesi della cosiddetta Seconda Repubblica. Il Paese se lo aspetta. Se lo aspettano il mondo del lavoro, il mondo della cultura, i giovani lasciati senza prospettive da una classe dirigente egoista e miope. E' giunto inevitabilmente il tempo che ciascuno faccia la propria parte per restituire all'Italia la dignità perduta. Senza se e senza ma. Adesso.

giovedì 8 ottobre 2009

in caduta libera


Allora è andata. Questa sentenza della Consulta è arrivata e ha lasciato molti sorpresi. Il maggiore organo della Giustizia, in base a elementi semplici e indiscutibili della Costituzione ,ha bocciato l'ennesima legge ad personam della banda di Silvio, togliendogli lo strumento che credeva lo potesse proteggere dai giudizi penali che su di lui pendono da ormai più di 15 anni. Siccome ha aperto mari e spaccato monti per avere questa legge, ora che gliela hanno affossata, silvio è davvero incazzato. E quindi ancora più velenoso, se si può. La sua furia è esplosa ieri dopo la decisione con tutta la sua forza, caricando testa bassa col cerone e la cravatta che lo soffocavano, contro tutti: attacchi ormai smisurati a giudici della Consulta e Napolitano. Non c'è proprio ormai più nessun rispetto per nessuno che non la pensi come lui, e che quindi non assecondi il suo pensiero, ma sopratutto il suo desiderio di comando. L'Italia sicuramente, ma forse anche il mondo, è sotto la dominazione dei sinistri ed è Lui che tutti devono ringraziare solo per il fatto di esserci , perchè lui salva il mondo, dalla ignobile condizione in cui la farebbero precipitare gli altri. ("saremmo nella situazione in cui tutti sappiamo")..i suoi argomenti sono di una brutalità e una semplicità tremenda, allo stesso tempo infantile e aggressiva..classici elementi del vero dittatore. Il popolo mi ama, ho il settanta, ottanta, novantacinque percento del gradimento, e quindi schiacceró chiunque mi ostacoli, perchè è cattivo e di sinistra. Il refrán è ormai vecchio, stantío e ritrito, ma lui continua a usarlo come un randello, perchè evidentemente funziona, sulle menti del suo popolo che lo adora. Questi deliri vengono ripresi dai fedelissimi, dotati pure loro di grande rozzezza e aggressività da vecchio squadrista, quali Gasparri, o esagerate vieppiù nel delirio schizofrenico-xenofobo e nazionalpopolare della sempre più ottenebrata mente di Bossi, il quale minaccia la guerra padana a ogni piè sospinto. C'è chi partecipa ma più pacatamente, anche se in maniera ferma da scagnozzo fedele e tenace, come Bondi o Scajola. C'è chi non commenta, prudente, come Schifani. O chi quasi preoccupato ormai, come Lupi, chiede di passare oltre e continuare sulla brillante strada del meravilgioso governo del PdL. Poi c'è Fini, che ormai merita un trattamento a parte. La sua strategia è chiara ai più, ed è -ahimé- l'elemento più interessante e solido che chi abbia a cuore la democrazia in Italia segue con grande apprensione. Fini dice al ducetto impazzito che sta con lui, ma che deve darsi una calmata e rispettare le istituzioni. Queste parole faranno solo imbestialire ancora di più il nostro Salvatore, che mai e poi mai gli darebbe retta. Lui ormai è invorticato nella sua spirale di potere e pazzia e non sarà cosa facile strapparlo dal trono. Spesso mi trovo a pensare che se non fossimo in Europa saremmo già una vera dittatura, con Santoro & C. desaparecidos e compagnia bella. Altro che paese in mano alle sinistre. O forse non a tanto, ma sicuramente lui non esiterebbe ad azionare ben più potenti leve del potere , se ne avesse la possibilità, per cristallizzarsi alla guida del Paese. L'Italia non è mai stata in una situazione politicamente peggiore di quella odierna, secondo me. Neppure nei periodi più bui del terrorismo e delle stragi si era arrivati a tanto scontro tra chi governa e il resto del mondo e della società. O quantomeno le anomalie e le storpiature democratiche di quei tempi erano dovute a fattori principalmente esterni al goveno stesso. Qui siamo al delirio di un pazzo che ha saputo abilmente conquistare il potere e controllare efficacemente la società. Quello che c'è sul piatto oggi, è la possibiltà di spingere fino in fondo la difesa di chi sta resistendo a questo stato di cose. Pochi, tutto sommato; però se ancora un organo istituzionale riesce ad aver il coraggio di applicare i principi della democrazia e della Costituzione, assumendo ovviamente uno status "politico", ma dettato ormai solamente dal livello dello scontro alzato dalla politica berlusconiana, ciò vuol dire che c'è ancora la volontà di combattere questo deplorevole stato di cose. E che a farlo sará le gente onesta che c'è nel nostro Paese, che non ha miliardi da far tornare con lo scudo, che non pensa ormai solo più in rosso o azzurro, che è stanca di slogan e vuole ridare alla nostra nazione il volto migliore che le appartiene, quello della solidarietà, del lavoro, dell’ingegno, dell’arte e della bellezza, della pace e del dialogo, che insomma vuole un'altra Italia invece di questa barzelletta sconcia e pietosa che è divenuta oggi. Dobbiamo, dobbiamo più che mai avere la forza, oggi o mai più, di liberarci di questo cancro. Di ritornare quantomeno un paese rispettabile e che cerca di sostenere la sua economia in questi difficili momenti. Smettere di crederci al centro del mondo e che solo quello che succede in Italia è degno di nota. Ritornare un Paese Democratico, una Repubblica fondata sui valori della Costituzione. È in gioco tantissimo oggi, e mai come ora sono preoccupato per il destino del mio paese, come partecipe alla lotta, per quanto mi è possibile. Credo che, come ho già detto in precedenza, sia in atto l'inizio della fine di questo deleterio pagliaccio. Non sarà facile nè rapido. Ci vorranno sangue e lacrime, ma finirà cosí, deve finire così, perchè altrimenti l'ennesima legittimazione di questo stato di cose, di questo leader, ci delegittimerebbe in maniera quasi irreversibile. Io confido che alla fine si arriverà alla scompaginazione di questo governo, vuoi per una causa o per un'altra delle ormai molte possibili, prima della fine della legislatura. E che allora si riapriranno i giochi, ma probabilmente con nuovi attori. Che non saranno quello provenienti dalle file del povero PD, sempre più floscio e senza voce, davvero incredibilmente e assurdamente pietoso, impersonando la grottesca caricatura di quella sinistra così tanto vituperata dal ducetto. E neppure quelli agguerriti e sbirreschi delle file Di Pietriane. Credo che sarà un frammisto-ricomposto della vecchia, cara, placida DC. Nuovamente verrà proposto agli italiani quel tranquillizzante impasto soporifero e un pò bigotto, ma tanto caro e giustamente ipocrita pensiero democristiano, in salsa riveduta e corretta, modernizzato e al passo coi tempi, aggiornato schieramento di Centro. Montezemolo sta già saggiamente muovendo le sue pedine. Fini tesse la sua tela. Casini si tiene pronto con le sue legioni. Tanti, nel PD, si fregano le mani pronti a saltare il fosso, per migrare a più note e consone musiche celestiali. Insomma, si torna a casa! Ora, se questa analisi sará corretta, io che posso definirmi un uomo di sinistra, ne sarei oltremodo felice. Fondamentalmente per due ragioni. Una è che siamo finiti cosí tanto in basso, che qualsiasi cosa che sembri anche lontanamente democratica, civile, normale, è molto più che benvenuta. La seconda è che ormai personalmente mi è chiaro che dal PD e da DP e dai vecchi affezionati della falce e il martello, ormai non c'è più nulla di buono da sperare. Triste ma realista. E poi, diciamocelo chiaro, la sinistra, nella sua polifacetica accezione di oggigiorno, in questa Italia non governerá MAI. Non riuscirà mai ad avere una maggioranza solida, e se anche l'ottenesse, ipoteticamente, non riuscirebbe mai a governare per la sua inefficienza e la cronica frammentazione. Coalizioni con DP o vari-ex-PCI sono già state ampiamente provate e naufragate. Quindi quello che c'è da sperare, è che ritorni appunto il vecchio caro scudo crociato (riveduto & corretto in salsa 2010) che si appropri delle ottenebrate menti dei tanti seguaci di Silvio e che tranquillizzi l'agitazione provocata da tanti anni di martellamento mediatico from Arcore. L'italiano medio, il buon vecchio coglione, citando una brillante definizione di G. di Cataldo, tornerebbe ad avere la sua guida, il suo pastore che lo guida nel noto e familare mondo ipocrita, ma col sorriso stavolta, e non più con a maschera di cera col trapianto e il membro pneumatico, robe da film horror di serie Z. E i tanti che oggi si struggono odiando il ducetto impazzito, tirerebbero finalmente un respiro di sollievo, e ricomincerebbero la loro vita, confrontandosi questa volta con un avversario, politico, e non con un nemico implacabile e giustiziere divino. Se così sarà, non è dato sapere. Bisogna continuare a lottare e a credere che meritiamo di meglio di questa spazzatura, che oggi abbiamo davvero la possibilità di cambiare, di avere un futuro migliore, come italiani.

mercoledì 7 ottobre 2009

a proposito di libertà di stampa


Sono trascorsi pochi giorni dalla manifestazione indetta dalla FNSI a Roma per la libertà di stampa e di informazione e mi piacerebbe far conoscere, a quei pochi lettori che frequentano questo blog, qualche mia sommessa opinione a tal riguardo. Premetto che per ragioni personali non ho potuto partecipare ma ho seguito la diretta su Repubblica TV (http://tv.repubblica.it/copertina/verita-e-potere-in-piazza-per-la-liberta-di-stampa/38052?video=&pagefrom=1) e sono rimasto favorevolmente colpito dalla partecipazione, come numero e come intensità, delle persone. Però ho notato che le polemiche che ne sono seguite (alla manifestazione a alla sua motivazione di fondo) sono state alquanto aspre, pregiudiziali e irragionevoli e non aiutavano a capire di che cosa si stesse discutendo, quali fossero i valori in campo e quali, eventualmente, le decisioni da prendere. A mio modo di vedere molti addetti ai lavori (forse per far piacere al Pifferaio di Arcore) hanno fondamentalmente strumentalizzato i veri obiettivi e il fulcro centrale della manifestazione stessa, alzando un polverone per tenere sempre più lontani i lettori (e i cittadini) dalla difesa della libertà di stampa come reale valore, principio e fondamento della nostra democrazia. A ciò bisogna aggiungere anche il rovescio della medaglia: il problema è stato mal posto. Non è a rischio nel nostro Paese (secondo me) la libertà di stampa, di opinione, di critica e di cronaca. Non lo è mai stata, nemmeno nei momenti meno incoraggianti della nostra vita pubblica. Il sistema dei mass media è talmente articolato e diffuso nelle venti regioni (quotidiani, periodici, radiotelevisioni, riviste specializzate, blog, etc...) che parlare di compressione della libertà di stampa equivale a inventarsi il problema che non c’è. L’articolo 21 della Costituzione resta la garanzia piena e primaria per tutti. Ai cittadini la quantità delle informazioni, su tutti gli aspetti della nostra vita, non manca certamente. Il problema va posto in altri termini e riguarda la responsabilità e la moralità della stampa. Notizie e opinioni debbono camminare insieme, ma senza discostarsi dal compito fondamentale del giornalismo come patrimonio della collettività. Se un giornale smette di essere quello per cui è nato e strada facendo diventa di fatto un partito non può che prendersela con se stesso. Alludo chiaramente a Libero e a il Giornale che di certo hanno stravolto l'iniziale progetto editoriale, uniformandosi negli anni al volere (e al potere) di Berlusconi. Perciò è inutile, e sommamente rischioso, mistificare: fingere di essere un giornale quando, invece, si è diventati un partito. E anche quando, al colmo dell’ipocrisia e della doppiezza, si ritenesse di essersi comportati esclusivamente come giornale, occorre essere pronti a pagarne tutte le conseguenze. Invece di sbertucciare e minimizzare l'evento (come hanno fatto Feltri, Belpietro e Fede nella sua immonda diretta di sabato pomeriggio) sarebbe molto più utile e deontologicamente corretto ragionare sulla responsabilità e sulla moralità della stessa stampa e di certa informazione televisiva (oltre a Fede cito Minzolini) e su come vengono usati e per quali cause, gli strumenti della comunicazione di massa. Qui verrebbero fuori compiti e obblighi per tutti i soggetti della comunicazione: gli editori che, nella maggioranza dei casi, si servono dei loro giornali per obiettivi che con la correttezza della informazione hanno ben poco a che fare; certi giornalisti che, in mancanza di una solida formazione professionale, rischiano su molti argomenti di essere mediamente meno preparati dei lettori, dei radio ascoltatori, dei telespettatori e dei blogger; molti cittadini che non sempre hanno una vigile coscienza critica e che, con la loro passività, decretano il successo (di audience e di mercato) per trasmissioni qualitativamente scadenti o per giornali francamente illeggibili. E poi ci vorrebbe un maggiore senso di responsabilità, per sfuggire alle insidie della strumentalizzazione, anche dalle stesse strutture associative dei giornalisti: a cominciare dalla Federazione della Stampa che, rappresentando soltanto il 24 per cento dei giornalisti italiani, versa in una grave crisi di rappresentatività e che dovrebbe pensare di più alla tutela e alla vicinanza nei confronti di quei tanti precari che, nelle redazioni di molti giornali, risultano essere dei perfetti ectoplasmi, abbandonati a loro stessi, con contratti (quando ce ne sono) da fame e con la considerazione (delle firme più conosciute) praticamente vicina allo zero.

sabato 3 ottobre 2009

lo schiaffo morale di Fini al Cavaliere


Ancora una volta bisogna dare atto ad un giornalista veramente capace, testardo, vero cacciatore di notizie (sto parlando di Marco Lillo), il merito di aver dato il via all'evento istituzionalmente più rilevante di questa settimana: la rinuncia ad avvalersi del lodo Alfano da parte del presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini, in un procedimento a seguito di querela da parte dell'ex pm di Potenza (ora di Napoli) John Henry Woodcock. L'articolo di Lillo era passato quasi inosservato (http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=NIVTC) ma fortunatamente qualcuno, anche se di ideologia contraria, ancora legge il nuovo dell'editoria italiana, ovvero il Fatto Quotidiano come nel caso dell'onorevole Giulia Buongiorno, legale di Fini. E così l'evidenza dei fatti è davanti agli occhi di tutti: c’è chi si ripara sotto lo scudo del lodo Alfano, per proteggersi dalle inchieste giudiziarie (come Berlusconi) e chi ci tiene a far notare che se non si ha nulla da temere a quello scudo si può serenamente rinunciare. C’è chi se lo può permettere, come Fini. E chi non può, come Berlusconi, perché senza lo scudo finirebbe travolto dal processo Mills che all’avvocato inglese è già costato la condanna a 4 anni e 6 mesi per corruzione e nei confronti del premier è stato sospeso in attesa del verdetto della Corte Costituzionale di martedì prossimo. Intanto Gianfranco Fini ha dato una lezione di etica istituzionale e personale facendo imbestialire Berlusconi grazie a questa abile mossa comunicativa (e per uno come il Pifferaio di Arcore, maestro della comunicazione, deve essere stato uno smacco bruciante). L’allievo Fini ha superato il maestro Berlusconi. Gianfranco fa un figurone sul lodo, Silvio una figuraccia. Il premier, in questo momento, è mediaticamente messo alle corde: un doppio e tremendo knock out tecnico portato al mento prima da Santoro con i suoi 7 milioni e mezzo di telespettatori e poi da Fini con lo schiaffo morale della rinuncia al lodo. E oggi a piazza del Popolo 300 mila italiani gli stanno facendo capire che è meglio se abbandona il ring, subito, prima di ricevere il terribile gancio da parte della Storia che lo potrebbe mettere definitivamente al tappeto.