l'Antipatico

sabato 31 maggio 2008

un cavaliere partenopeo




Il ritorno a Napoli (nel giro di 10 giorni) di Silvio Berlusconi, per cercare di risolvere la tragedia napoletana della munnezza, ha di fatto sancito il "new deal" del pugno di ferro in guanto di velluto adottato dal cavaliere. I commenti a tal proposito, dopo la conferenza stampa di ieri di Berlusconi (circondato dai suoi aiutanti di campo Maroni, Bertolaso e Prestigiacomo), hanno sottolineato questo nuovo modo di comunicare di sua Emittenza, dall'espressione sempre seria e corrucciata, molto diversa rispetto a quella clownesca e irridente della campagna elettorale di due mesi fa. L'analisi politica di Giuseppe D'Avanzo su la Repubblica di oggi (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/rifiuti-10/arroccamento-cavaliere/arroccamento-cavaliere.html) ci trova perfettamente d'accordo. Ma l'articolo di Augusto Minzolini sulla prima pagina de La Stampa ci ha stregati. Il pezzo s'intitola "A muso duro" e ve lo vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura.
Se davvero il carattere principale del nuovo governo è il «decisionismo» come strumento per modernizzare e rendere efficiente uno Stato decadente, non bisogna meravigliarsi per le parole pronunciate ieri a Napoli da Silvio Berlusconi. Anzi, c’è una frase del Cavaliere rivolta ai magistrati napoletani che hanno giudicato incostituzionale il decreto sui rifiuti, che descrive in maniera lampante la nuova filosofia: «Un ordine dello Stato non può vivere in un empireo e pensare alle leggi come ad un moloch assoluto. Le leggi devono essere adattate per far vivere meglio i cittadini». Può essere la rivoluzione «copernicana» per il paese degli azzeccagarbugli, delle 100 mila leggi, leggine, codicilli, una logica di governo che se attuata fino in fondo è di per sé una grande riforma: tutto è subordinato alla «magia del fare», anche le leggi, se sono antiquate e fumose, debbono essere interpretate in modo da favorire una politica interventista che tende a risolvere le emergenze. Altrimenti il governo e il Parlamento, cioè il potere politico, sono pronti ad esercitare fino in fondo le proprie prerogative per cambiarle. È successo nella crisi a Napoli. Per risolverla Berlusconi si sta comportando come se si trovasse di fronte una calamità naturale, «l’eruzione di un vulcano - i paragoni sono suoi - o un terremoto». In frangenti simili è evidente che tutti gli «ordini» dello Stato debbono comportarsi in modo adeguato. Se non si è consapevoli di questo, come hanno dimostrato alcuni pm napoletani, il governo è pronto a prendere le misure adeguate, come la «superprocura». Ma la filosofia dell’intervento deciso, che è legittimato nella testa del Cavaliere dalla volontà dell’elettorato, non investe solo il caso Napoli ma tutto l’operato del governo. Altro caso la «crisi Alitalia». Per 18 mesi il governo Prodi, volendosi attenere alla normativa sulle privatizzazioni, aveva cincischiato. Era nata una trattativa con Air France che poi è morta, a sentire la compagnia francese, per colpa del sindacato. Per andare avanti è stato necessario un prestito ponte che prima è finito sotto i riflettori della Ue e successivamente i sindaci di Alitalia hanno preteso che fosse trasformato in capitale utilizzabile per non portare i libri in tribunale. Messo alle strette il governo Berlusconi si è comportato proprio come su Napoli. Giulio Tremonti con un decreto ha modificato la normativa di privatizzazione per Alitalia e il Consiglio dei ministri ha individuato subito in Banca Intesa l’«advisor» che dovrebbe condurre in porto la privatizzazione: se avesse dovuto rispettare le regole preesistenti, tra i tempi necessari per mettere in piedi una gara e tutto il resto, Alitalia sarebbe fallita ancor prima che Banca Intesa se ne potesse occupare. Insomma, quello che il passato governo non aveva fatto in diciotto mesi, il governo Berlusconi prova a farlo in 18 giorni. Si dirà: passando da un’emergenza ad un’altra, il cambiamento delle regole «scomode» per il governo del Cavaliere potrebbe diventare la regola «comoda». Il rischio c’è e non va sottovalutato. Ma è anche vero che nel caso dell’Italia ci troviamo di fronte ad un Paese che è in piena «emergenza nazionale». Delle due l’una: o si metteva in piedi un governo d’emergenza, sul tipo dei governi di solidarietà nazionale; o, visto che dal voto è uscita fuori una maggioranza chiara, l’attuale governo non può non usare in alcuni casi strumenti e normative straordinari per evitare il fallimento del «sistema Italia». Del resto le garanzie contro il rischio di una possibile «involuzione» autoritaria, Berlusconi le offre in altri modi. Se il Cavaliere del passato si poneva di fronte all’establishment in termini antagonistici, il «nuovo» Silvio tende ad esercitare su di esso, grazie al consenso di cui gode nel Paese, una gramsciana egemonia. Ne arruola pezzi su pezzi. C’è stata la conferma in blocco dei vertici dei grandi enti pubblici che per buona parte erano stati nominati dal governo Berlusconi del 2001, ereditati da Prodi e ora tenuti al loro posto dal Cavaliere. La stragrande maggioranza dei capi di gabinetto dei ministri di Berlusconi hanno collaborato in passato con i ministri di Prodi. Renato Brunetta, per dirne una, si è scelto come primo collaboratore Filippo Patroni Griffi, già uomo di Francesco Rutelli. E lo stesso vale per ruoli più delicati: a capo del coordinamento dei servizi segreti (il Dis) è andato Gianni De Gennaro, che ovviamente non è più l’amico di Luciano Violante ma l’uomo che ha ancora il dente avvelenato con la sinistra per via del G8 di Genova. Con nomi del genere, ovviamente, l’opposizione non ha potuto dir niente e il Cavaliere si contenta di aver fatto proprio un celebre motto di Mao: «Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi».

giovedì 29 maggio 2008

della pena non v'è certezza




Il Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli, in commissione Affari Costituzionali e Giustizia del Senato non usa mezzi termini nel fare un quadro generale della giustizia italiana. Definisce "indulto quotidiano" la situazione di incertezza della pena con cui conviviamo, di cui tutti parlano e nessuno fa niente. Dati allarmanti inoltre riguardo all’immigrazione clandestina, per combattere la quale, sostiene Manganelli, non sono sufficienti i contrasti all’ingresso. Occorrono anche controlli della permanenza sul territorio dei clandestini. "La certezza della pena non esiste", dice il Capo della Polizia di fronte alla commissione. In una tale situazione –prosegue- è "assolutamente inutile la risposta dello Stato e vanificati gli sforzi di polizia e magistratura". Il prefetto definisce "vergognosa" questa realtà, condizione sfavorevole alle azioni di contrasto dell’immigrazione clandestina. I dati che espone Manganelli sono drammatici. La loro eloquenza è schiacciante e dice più di mille commenti. Nel Nord-est italiano il 65-70 per cento dei crimini sono imputabili a immigrati clandestini. Questi arrivano nel nostro Paese non solo e non tanto attraverso gli sbarchi a Lampedusa, ma con un visto turistico. "Il 65-70 per cento dei clandestini –denuncia Manganelli- arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente". Occorre quindi -secondo il Capo della Polizia- "non solo un contrasto all’ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini". A sostegno delle sue dichiarazioni, Manganelli dichiara che, da gennaio ad oggi, "le forze dell’ordine hanno fermato 10.500 immigrati clandestini per i quali è stata avviata la procedura di espulsione: solo 2.400 di loro hanno trovato posto nei Cpt (Centri di permanenza temporanea). Ciò significa che 8mila clandestini sono stati perdonati sul campo essendosi visti consegnare un foglietto su cui c’è scritto ‘devi andar via’, che equivale a niente". Proprio tutti i torti, secondo noi, Manganelli non li ha. Il problema sta nell'attuazione e fattibilità delle nuove contromisure previste dall'ormai famigerato "pacchetto sicurezza" del ministro Maroni. Vedremo chi avrà ragione. Nel frattempo è iniziata la caccia al clandestino, nuovo reality game dell'estate 2008...

mercoledì 28 maggio 2008

l'Italia, Amnesty e il razzismo


L'Italia sta diventando un paese razzista, xenofobo, «pericoloso» per immigrati e rom , «domani per tutti noi». A dirlo è il focus del Rapporto 2008 presentato dalla direttrice dell'Ufficio campagne e ricerca della sezione italiana di Amnesty, Daniela Carboni, che ha sottolineato come «dichiarazioni discriminatorie da parte delle istituzioni e atti normativi approvati in modo affrettato e propagandistico» rischiano di aprire una vera e propria «caccia alle streghe».
Insieme al Rapporto Annuale 2008, Amnesty International ha presentato anche una scheda di approfondimento e aggiornamento sull'Italia dove discriminazione e xenofobia stanno crescendo di giorno in giorno e dove, con il nuovo "pacchetto sicurezza", essere clandestino dovrebbe diventare un reato.
Daniela Carboni parte proprio da un caso di cronaca piuttosto recente, l'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma lo scorso ottobre, per far capire come spesso gli eventi vengano distorti creando una caccia alle streghe indiscriminata. «La violenza su una donna è diventata l'occasione per discriminare una minoranza etnica», ha detto la Carboni. Giovanna Reggiani fu infatti uccisa da Romulus Nicolae Mailat, cittadino romeno ritenuto appartenente alla minoranza rom.
Il caso Reggiani scatenò critiche bipartisan contro la Romania e gli immigrati romeni, al punto che l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati in novembre espresse preoccupazione per il clima di intolleranza manifestato nei giorni successivi all'omicidio e per «lo stato di tensione nei confronti degli stranieri alimentato negli anni anche da risposte demagogiche alle tematiche dell'immigrazione messe in atto dalla politica».
Tra il 2007 e il 2008 si sono poi verificati numerosi attacchi violenti ad accampamenti rom e ad altre minoranze in diverse città. «Siamo allarmati dai toni discriminatori sui rom. Devono essere aperte inchieste, dati risarcimenti alle famiglie rom colpite a garantire sicurezza a queste comunità», ha affermato Daniela Carboni che ha poi lanciato un appello alle istituzioni italiane affinché «imparino che parlare di diritti umani per gli immigrati non è impopolare».
Critiche al cosiddetto "pacchetto sicurezza" che include un decreto legge che punisce con la reclusione e la confisca del bene chi affitta un immobile a un immigrato, e che rende una circostanza aggravante di qualsiasi reato quella di essere stato commesso da un immigrato irregolare. Nel disegno di legge si vuole portare anche a 18 mesi il tempo massimo della detenzione nei Centri di permanenza, oggi di 60 giorni. «Una riforma normativa che ha messo in allarme diverse Ong oltre allo stesso Alto Commissariato Onu per i rifugiati», ha fatto notare Carboni.
Ma Amnesty nella sua scheda esprime critiche anche al decreto Pisanu del 2005 che, nonostante le richieste della Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura, il governo di centrosinistra ha mantenuto pressoché immutato. Il decreto prevedeva l'espulsione di immigrati regolari e irregolari sulla basa di «una vaga definizione del rischio da essi posto» e senza tutela contro il rimpatrio forzato in paesi in cui rischiano la tortura o altri abusi. In base a questo decreto nel 2006 sarebbe dovuto essere espulso il cittadino tunisino Nassim Saadi, ma il procedimento di espulsione fu bloccato e poi annullato nel febbraio di quest'anno dalla Corte europea dei diritti umani.
Amnesty rileva anche altre lacune nella legislazione italiana, come il mancato recepimento nella sua interezza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: l'Italia è priva di uno specifico reato di tortura nel codice penale e ciò comporta delle ricadute sulla possibilità che le forze di polizia rispondano di eventuali abusi. A ciò si aggiunge la mancanza di forme di identificazione dei singoli agenti di polizia durante le operazioni di ordine pubblico, e l'assenza di organismi indipendenti di monitoraggio. Questa situazione si riflette ad esempio sui processi per le violenze commesse contro i manifestanti durante il G8 di Genova nel 2001. «Diversi imputati invece che essere puniti sono stati promossi», ha detto Carboni.
Se a livello internazionale la guerra al terrorismo sta erodendo la difesa dei diritti umani, l'Italia non è da meno. Anche nel nostro paese l'approccio delle autorità di governo è condizionato dalla politica del sospetto.
Caso esemplare è quello della rendition: il programma segreto della Cia per la cattura e detenzione fuori dalla legalità "normale" di sospetti terroristi. Come il caso dell'imam egiziano Abu Omar, prelevato a Milano nel 2003 e trasferito in Egitto dove avrebbe subito torture. Secondo Amnesty, il governo italiano non avrebbe collaborato pienamente alle indagini degli organismi internazionali che hanno "accertato precise responsabilità dell'Italia nelle rendition". Oltre ad Abu Omar il Parlamento Europeo ha chiamato in causa l'Italia anche per altri due casi.
Amnesty denuncia anche la scarsa trasparenza negli accordi bilaterali tra Italia e Libia sul pattugliamento marittimo congiunto delle coste per contrastare l'immigrazione irregolare, e critica duramente l'esportazione di armi da parte dell'Italia verso quei paesi che sfruttano i bambini soldato». "Lancio un appello al governo italiano - ha detto Daniela Carboni - scelga una volta per tutte se rispettare o violare i diritti umani sia nelle parole che negli atti".
L'Europa continua ad essere una «calamita» per quanti cercano di fuggire da violenze e povertà ma il Vecchio Continente continua a deluderli con approcci repressivi verso l'immigrazione irregolare, scrive Amnesty.
Ma il Vecchio continente che si considera ancora in prima fila nella lotta alla violazione dei diritti umani, è diventato complice degli Stati Uniti. E ora specie per i rifugiati ha assai poco da insegnare al resto del mondo. Troppi paesi europei sono pronti a rispedire persone ritenute sospetti terroristi in paesi dove rischiano di subire gravi violazioni dei diritti umani. Ma Amnesty denuncia anche il fatto che semplici migranti - uomini, donne e bambini - si sono visti negare anche l'accesso alle procedure per la richiesta di asilo e spesso vengono abbandonati in stato di completa indigenza. «Nuove leggi in Paesi come Belgio, Francia e Svizzera hanno limitato ulteriormente i diritti di richiedenti asilo e migranti», scrive Amnesty. Anche in Italia.

lunedì 26 maggio 2008

parlamentari d'Italia: meno istruiti ma più ricchi!




Che i rappresentanti del popolo italiano, seduti a Montecitorio e a Palazzo Madama, attualmente non fossero propriamente delle cime lo sapevamo. Che guadagnassero in maniera sproporzionata rispetto ai loro colleghi europei era cosa nota. Ma che anche rasentassero l'istruzione media da ciuchini francamente era un pò lontano dalla nostra immaginazione. E invece questo è il poco edificante quadro che esce da un bell'articolo pubblicato stamane a pagina 5 da La Stampa di Torino, a firma di Fabio Pozzo che vi vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura. La casta peggiora, ma ha le tasche sempre più piene. In sessant'anni, i nostri parlamentari sono diventati sempre meno preparati, istruiti e impegnati, ma non per questo più poveri. Il loro calo di qualità è stato inversamente proporzionale al loro reddito, che è invece cresciuto di oltre il 10% l'anno. Contro l'1,5%, ad esempio, dei loro colleghi Usa, rispetto ai quali guadagnano abbondantemente di più. Gli italiani sono gli onorevoli più pagati dell'Occidente: una busta paga di oltre 144 mila euro (più spese), contro gli 84.108 di un loro collega tedesco, gli 81.600 di un inglese, i 62.779 di un francese, i 35.051 di uno spagnolo e i 7.369 di un polacco, fanalino di coda delle indennità parlamentari in Europa. Entrare in parlamento è un affare, secondo uno studio presentato a Gaeta al decimo convegno europeo della Fondazione "Rodolfo De Benedetti", intitolato "Il mercato del lavoro dei politici", che ha analizzato le carriere degli uomini politici italiani a partire dal secondo Dopoguerra. Il neoeletto vede il suo reddito lievitare del 77% già nel primo anno di attività (rispetto all'anno precedente). E da questo momento in poi, può dormire tranquillo. Il suo reddito lordo dal 1948 al 2006 ha avuto un tasso di crescita medio annuo del 10% (l'indennità è agganciata alla retribuzione dei magistrati, che è saltata verso l'alto); dal 1985 al 2004 il suo reddito reale annuale è aumentato di 5-8 volte rispetto a quello di un operaio, di 6 volte rispetto a un impiegato, di 3-4 volte più di un dirigente. Dalla fine degli Anni Novanta, inoltre, il 25% dei deputati guadagna un reddito extraparlamentare superiore a quello della maggioranza dei dirigenti. Un onorevole italiano mette in tasca un'indennità che, nel 2006, era superiore di 35 mila euro rispetto a quella dei suoi colleghi Usa. Eppure nel 1948 i membri del Congresso degli Stati Uniti guadagnavano molto di più rispetto ai nostri. Il gap è stato colamto nel 1994: da allora ci fanno un baffo. La spiegazione? Oltre al lievitare dell'indennità, anche la possibilità di cumulare a quest'ultima altri redditi (ma solo per i privati), che agli onorevoli statunitensi è negata. "E' giusto che il cumulo venga eliminato", ha detto l'ex ministro dell'Interno, Giuliano Amato, per il quale è "inaccettabile" fare il parlamentare come scelta strumentale per rendere più redditizio il lavoro esterno. Altra garanzia di guadagno, è la durata della carriera politica. Quasi due deputati su tre restano in Parlamento per più di una legislatura, uno su dieci per più di 20 anni. la durata media è di 10,6. Con eccezioni: domani Francesco Cossiga compie 50 anni di vita parlamentare. Uscire dall'emiciclo, però, non significa abbandonare la politica: vi resta uno su due. Solo il 6% va in pensione, mentre il 3% finisce in carcere. I deputati della prima Repubblica (1948-1994) entravano in Parlamento con un'età media di 44,7 anni: nella Seconda è di 48,1. Nella Prima Legislatura (1948-1953) il 91,4% era laureato, nella Quindicesima (2006-2008) solo il 64,6%. Negli Usa la percentuale è invece aumentata: dall'88% al 94%. lo studio ha considerato il livello d'istruzione, il grado d'assenteismo e l'abilità intrinseca di generare reddito nel mercato del lavoro. La combinazione di questi indicatori "mostra che il livello di qualità media dei politici era maggiore nella Prima Repubblica". I deputati, allora, erano più istruiti e più abili, mentre il grado d'impegno in aula è comparabile. Ciò è dovuto, secondo la ricerca, all'aumento del potere di selezione delle segreterie dei partiti, rispetto agli elettori. Segreterie che hanno portato in Parlamento, grazie al "richiamo" degli stipendi elevati, deputati sempre meno preparati. Per ridurre questo effetto di "selezione avversa", dice lo studio, si potrebbe adottare un sistema elettorale maggioritario puro, nonchè eliminare il cumulo dei redditi e indicizzare l'indennità al tasso di crescita dell'economia. Ne guadagnerebbe anche l'impegno parlamentare, visto che ogni 10 mila euro di extra-reddito riduce dell'1% la partecipazione in aula.

domenica 25 maggio 2008

troppi favori per la Franzoni?




L'interrogativo del nostro post odierno nasce spontaneo dopo aver letto molti interventi (dotti e acculturati) di firme del giornalismo sui primi giorni di detenzione di Anna Maria Franzoni nel carcere bolognese della Dozza. Commenti che vanno dal solidale con la condizione umanamente ristretta di una donna e di una mamma (e di una moglie), al qualunquista con l'assioma che chi sbaglia deve pagare, all'indispettito (e altro) di chi vede dei favoritismi, dei privilegi non certo consentiti ad altri meno noti (mediaticamente parlando) detenuti. Poter abbracciare i propri figli e il marito dopo appena 48 ore di reclusione non è mai successo negli annali della giudiziaria. Persino il più furbetto del quartierino attese due settimane a Regina Coeli prima di poter abbracciare (e sbaciucchiare) la sua prosperosa Anna. Eppure la Franzoni, in virtù del suo "potere" televisivo assegnatole dal buon Vespa, ha fatto chiudere un occhio (anzi, tutte e due) alle istituzioni penitenziarie. Così si evince da due ottimi articoli apparsi oggi su La Stampa. Il primo, a firma di Lodovico Poletto, recità così.
Mamme con i bimbi in braccio e mamme con i bimbi per mano. Donne che si asciugano gli occhi e annuiscono: «Certo che lo sappiamo che lì dentro c’è la mamma più famosa d’Italia». Lo dicono mentre se ne vanno dopo l’ora di colloquio «una volta al mese» con il papà, lo zio, il nonno dietro le sbarre. E la Franzoni? «Quella? E’ una vip, non un povero Cristo come tutti gli altri». Visto da qui, da questa spianata d’asfalto, che è il parcheggio adesso affollato di umanità dolente, la «Dozza» è soltanto un parallelepipedo di cemento armato tempestato di finestre, né più brutto né più bello di cento altre galere d’Italia. E Anna Maria è soltanto uno dei 1056 detenuti di questo carcere ultraffollato, dove in dieci metri quadri di cella convivono anche tre detenuti. «E alla Franzoni invece riservano ogni tipo di beneficio. Compreso il fatto di poter ricevere due visite in un sol giorno. Compreso il fatto che ai suoi familiari è stato consentito di entrare in carcere con l’auto nel cortile e lasciarla lì per tutte le ore di colloquio» tuona Flavio Menna, segretario della provincia di Bologna dell’Ugl polizia penitenziaria. Lo fa, dice, a nome dei suoi colleghi agenti che hanno assistito «allibiti», al «trattamento di favore riservato a quella signora». Trattamento di favore in questo carcere? Possibile? Menna, un omone grande grosso e barbuto, s’infervora. Parla di «malcontento degli agenti», e punta il dito contro i vertici del carcere: «Per questa detenuta vip hanno chiuso non un occhio, ma entrambi». E insiste: «Qui dentro tutti sanno come sono andate le cose venerdì. Tutti. Quando mai si è visto un simile comportamento in un carcere? Pensi che anche gli agenti non possono entrare lì dentro con l’automobile. Ai parenti di quella detenuta, invece hanno dato tutto». E ancora: «Qui si deve tornare subito alla normalità. Che cosa accadrà quando un’altra detenuta chiederà le stesse cose che ha ottenuto la Franzoni e non le otterrà? Le regole sono regole, e sono valide per tutti». Se Menna s’infervora il Provveditore regionale dei carceri dell’Emilia, Nello Cesaro, butta acqua sul fuoco della polemica. Parla di «fantasie senza fondamento» per le accuse di favoritismo. E poi spiega: «La signora Franzoni è stata accolta come tutti gli altri detenuti». Tutti-tutti? «Certo. Usiamo questo atteggiamento con quelle persone che entrano qui per la prima volta. Cerchiamo di stargli vicini. Di rendere dolce il distacco dalla famiglia. Insomma, si fa ciò che prevede la legge. Perché chi è qui dentro non senta troppo lontani i suoi cari».Mentre lui spiega Annamaria Franzoni se ne sta in cella da sola, controllata a vista. La sua ora d’aria, in mattinata, l’ha passata nel cortiletto interno. Deserto. Scarpe da ginnastica, maglietta grigia, ha trascorso almeno 40 minuti con Giancarlo Mazzuca, parlamentare del Pdl e amico di famiglia che ieri è andato a trovarla. «E’ una donna molto provata e stanca» dice il deputato. Che adesso parla del pianto di Annamaria, del senso di impotenza. «Credevo nella giustizia. Fino alla fine ho sperato che venisse fuori la verità; invece...» ha ripetuto Annamaria. Che se l’è presa con i giornalisti, ma avuto parole di apprezzamento per il personale della Dozza: «Qui ho trovato gente meravigliosa. Colpendo me - ha detto Annamaria - hanno colpito anche i miei figli, Davide e Gioele; e mio marito Stefano che ora è un uomo distrutto. Per loro potrei anche chiedere la grazia». Poi s’è persa nel ricordo di Samuele, parole dolcissime per quel bimbo strappato alla vita. Parole di mamma. Di dolore: «Adesso è stata tradita anche la memoria di Samuele». Il secondo pezzo che abbiamo apprezzato, sempre su La Stampa, è quello scritto da Pierangelo Sapegno che fa così.
Ma qual è l’anomalia del caso Franzoni? «La cosa più incredibile è che non finisce mai», ha scritto il Foglio. Attorno all’«affranta Annamaria», come la descrivono adesso i giornali, e alla sua vicenda infinita, succede sempre qualcosa di nuovo, e ogni volta non si capisce bene perché. Adesso, l’avvocatessa sua solerte, è riuscita a farle vedere i due figli dopo neanche 48 ore di carcere, mentre le altre detenute si lamentano di dover aspettare minimo due mesi. Sky ha messo su un sondaggio in fretta e furia, e il 78 per cento degli intervistati s’è detto contrario alla concessione della grazia. Strano. Perché il giornale «Liberazione» è arrivato a chiederla, dopo appena due giorni. Da sinistra a destra c’è chi già protesta contro la sentenza. E poi, come spiega Marzio Barbagli, sociologo del Mulino, tutte le ricerche dimostrano che «c’è sempre una forte relazione tra la percentuale di cattolici e di indulgenti». L’ultimo studio compiuto su quindici Paesi dell’Unione Europea «dimostra che ci sono differenze molto forti tra protestanti e cattolici, e che c’è una larga tradizione del perdono nei paesi cattolici». Vuol dire, Barbagli, che la Chiesa «ha in qualche modo ritardato l’affermarsi del sistema giudiziario moderno, dove le regole e la disciplina sono sacre e inflessibili, e dove tutti devono essere trattati allo stesso modo». Così, tornando alla Franzoni, Barbagli dice che prova pena per lei «perché è una madre. Ma esistono principi generali che sono quelli della Giustizia», e lì i sentimenti non c’entrano più. «Tocca ai magistrati decidere. E io per fortuna non sono un giudice». In ogni caso, resta la domanda: sono davvero privilegi quelli di Annamaria? Dobbiamo scandalizzarci? Filippo Berselli, di Alleanza Nazionale, presidente della Commissione Giustizia del Senato, spiega, tanto per cominciare, che «l’anomalia non è quella della Franzoni che vede i suoi figli dopo appena due giorni. L’anomalia è il contrario: se uno deve aspettare due mesi o più per vederli, perché questo significherebbe una malagestione del carcere». Nessuna corsia preferenziale, allora? «Di solito bisogna aspettare una settimana. Ma la prima visita può avvenire anche dopo due giorni. Trovo molto più strana la richiesta della grazia fatta da un giornale. Spetta al Capo dello Stato, non a me, concederla. Ma spetta ai parenti o al detenuto richiederla. Non a un giornale». Il fatto è che se uno parla dei figli, ha ragione Giulio Base, il regista di don Matteo e di tanti altri successi, «come si fa a dir di no? Si può discutere sui privilegi più in generale. La legge è uguale per tutti, così dovrebbe essere e anche a me infastidisce un trattamento diverso. Però, questo processo non ha riguardato solo la giustizia comune, è stato un caso di rilievo nazionale, con tanto di onore e di oneri. Lei è diventata la regina della cronaca». Ed è proprio per questo, sostiene il giornalista Marco Travaglio, «che godrebbe di certe attenzioni e di certi favori. A nessuno verrebbe mai in mente di chiedere la grazia per una che è stata appena condannata, o di far vedere i figli dopo due giorni a chi è in carcere per averne ucciso uno. Tutto ciò non sarebbe possibile se lei non fosse una star mediatica, e su questo noi come categoria abbiamo delle grosse responsabilità. Fra l’altro, fatti i calcoli, sconterà appena cinque anni, se le va male. Fosse stata una rumena avrebbero protestato tutti. E’ l’isteria italiana che passa dalle forche alle indulgenze plenarie». La cosa che rende ancora più anomala la vicenda Franzoni, è che Vittorio Sgarbi dice le stesse cose di Travaglio, uno con il quale di solito condivide litigi e qualche insulto. Anzi, dice proprio che ha ragione lui: «Questa volta sì, occorre rispettare le sentenze che ci assicurano che lei è colpevole. E se anche avessimo un dubbio sulla sua colpevolezza, non potremmo schierarci pro reo, ma a favore dei figli, letteralmente innocenti. E come dunque affidarli nelle mani di una condannata per omicidio?». Tanto per esagerare, poi, persino Michela Vittoria Brambilla si schiera con Travaglio: «Questa vicenda mi amareggia, ma rispetto pienamente il lavoro dei magistrati».

il risveglio (pacato) di Veltroni


Non ci sarà un'altra alleanza come l'Unione. Il Partito Democratico, in futuro, farà solo alleanze su programmi che reggano anche dopo il voto e possono ripresentarsi alle elezioni successive. Walter Veltroni parla al forum dei circoli del Pd e dice cose (forse leggermente in ritardo) che, probabilmente, la sua gente voleva sentirsi dire. Come le primarie, ad esempio, la cui assenza, per molti, è stata all'origine della sconfitta di Roma: "In tutti gli appuntamenti elettorali del futuro - spiega il segretario - faremo le primarie. A partire dalle prossime provinciali". E, quanto alle alleanze, ribadito il concetto dell'addio per sempre all'Unione, Veltroni lascia uno spazio, uno spiraglio aperto di dialogo a sinistra: "L'Unione è un'alleanza che non basta perchè può far vincere le elezioni ma il problema è che bisogna vincerle anche la volta dopo. Noi pensiamo solo ad un'alleanza dove al centro c'è il programma e per questo guardiamo a tutti, compresa una parte della sinistra Arcobaleno. Quando però alle manifestazioni sento slogan come '10-100-1000 Nassiriya' penso che siamo agli antipodi di ciò che bisogna fare". Il segretario ha descritto un partito federale "dentro un'idea federale dello Stato", e anche un partito "che dialoga ma non rinuncia a un'opposizione intransigente". "Noi - ha detto ancora il segretario del Pd - volevamo cambiare le regole se avessimo vinto ma le vogliamo cambiare anche adesso che siamo all'opposizione. Tra cinque anni governeremo noi e dobbiamo avere un Paese che consenta un'azione riformista". "Il governo Prodi ha fatto bene, - ha aggiunto il segretario tracciando l'ennesimo bilancio - ma la sua maggioranza ha fatto male e questo ha creato una situazione difficile".
Veltroni è tornato anche sul discorso della combattività: l'unica cosa che si sente di invidiare alla destra: "Alemanno ha perso contro di me alle elezioni per il Comune di Roma ed ora ha vinto. Dobbiamo imparare a combattere". Senza guardarsi indietro: "Siamo un partito nuovo. Basta con le riunioni degli ex e basta con il guardare al gruppo sanguigno di ognuno". Il segretario del Pd ha poi toccato temi relativi alle prime politiche avviate dal governo, ribadendo intanto il no al Ponte sullo Stretto: "Il ponte di Messina è sbagliato. Vorrei che voi andaste nei bar, nei ristoranti e nei mercati a chiedere ai dirigenti della Lega perchè il ponte era sbagliato prima del 14 aprile, mentre ora è diventato una priorità". Come sono sbagliati gli estremismi legati alle politiche sulla sicurezza: "Le ronde non si devono fare. Penso che noi - ha sottolineato - non dobbiamo concedere nulla su questo". Belle parole, caro segretario. A quando i fatti?

venerdì 23 maggio 2008

quel 23 maggio 1992




Vogliamo ricordare con questo post quel terribile giorno di sedici anni fa, quando 500 chili di tritolo e T4 spazzarono via in un colpo solo le vite di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Vogliamo ricordare quella pagina nera della storia repubblicana del nostro Paese attraverso l'articolo che il giorno dopo, il 24 maggio 1992, Eugenio Scalfari scrisse sulla prima pagina de la Repubblica. Il titolo era: "Non c'è più tempo". Lascia allibiti l'attentato che è costato la vita al giudice Falcone, a sua moglie e agli uomini della scorta. Incute sgomento e paura. Ancora sangue in Sicilia, ancora morti, ancora mistero sugli esecutori e i mandanti, i quali avevano comunque perfetta cognizione dei movimenti delle loro vittime e sono stati in grado di programmare la strage con cronometrica esattezza. All'apertura della campagna elettorale fu ucciso a Palermo Salvo Lima; prima che si concluda l'elezione presidenziale è stato falciato Falcone: è terribile questa scansione che intreccia gli atti della malavita con le scadenze della politica, inquinando e avvelenando l'intera vita pubblica di questo disgraziato Paese. Falcone era il simbolo della lotta contro la mafia. La bomba fatta esplodere contro di lui riveste una gravità addirittura superiore all'assassinio del generale Dalla Chiesa; per la coincidenza con fatti politici di grande rilievo, vien fatto di paragonarla al rapimento di Aldo Moro, consumatosi nel momento stesso in cui si presentava in Parlamento il primo governo sostenuto dal partito comunista. Saranno coincidenze fortuite ma danno molto gravemente da pensare su un viluppo di questioni mai veramente rischiarato dalla luce della verità. Noi ci troviamo ora, nello stesso tempo, di fronte a tre emergenze: quella criminale, quella finanziaria e quella istituzionale. Mai la vita di questo Paese era arrivata, dal 1945 in poi, ad un punto così drammatico e cruciale. Mai come ora è necessario che la rappresentanza politica dia segno di estrema responsabilità e faccia prevalere gli interessi dello Stato su quelli delle parti e delle fazioni. Entro oggi il Parlamento deve eleggere il presidente della Repubblica. Possibilmente entro domani il nuovo eletto deve designare il nuovo capo del governo. Si tratterà d'un governo d'emergenza, impegnato a ripristinare la legalità nelle regioni dove il crimine impera, a tamponare le falle d'un bilancio sconvolto da una dissipazione durata decenni, a riformare la legge elettorale affinchè cessi l'indecente balletto d'una rappresentanza nazionale che sembra ormai la veste d'Arlecchino. Non c'è più tempo per i giochi e i veleni d'una nomenklatura sconfitta dai suoi stessi errori e dalle sue corruttele prima ancora che dal voto degli elettori. Non c'è più tempo per gli sgambetti, le mosse e le contromosse di quanti avrebbero dovuto da tempo andarsene sotto il peso delle sconfitte e del giudizio negativo della Nazione. L'assassinio di Falcone non priva soltanto lo Stato d'un servitore efficiente e fedele, ma sottolinea l'impotenza degli apparati preventivi e repressivi e richiede una svolta radicale nella politica giudiziaria e nel controllo del territorio: temi sui quali il nuovo governo, assistito e delegato dal Parlamento, dovrà agire con la massima fermezza, urgenza e responsabilità. Si possono fare molte supposizioni su questa orribile strage, ma una cosa balza agli occhi in modo evidente: Falcone non era più, e da tempo, un giudice che stesse conducendo processi specifici contro questa o quella cosca, questo o quel boss mafioso. Non si è trattato dunque d'un omicidio "preventivo" che avesse lo scopo di impedire qualche intervento specifico di giustizia o di vendicarne uno appena compiuto. Falcone era l'espressione d'una politica contro il crimine organizzato, la mente che più lucidamente l'aveva pensata e stava cercando di attuarla. Questo si è dunque voluto colpire. Ma forse, se è lecito congetturare di fronte a così oscuri e incomprensibili avvenimenti, si è mirato contemporaneamente anche a più alti e complessi obiettivi: obiettivi di destabilizzazione, di disarticolazione istituzionale, di abbattimento delle istituzioni democratiche e repubblicane. Non formuliamo alla leggera questa terribile ipotesi. Non si organizza un attentato di questo genere in un momento di questo genere solo perchè un magistrato ha pestato i piedi di un boss mafioso. Altre motivazioni debbono avere spinto i mandanti e armato la mano degli esecutori. La prima risposta va data da Montecitorio. Non un giorno di più può durare la ricerca del nuovo capo dello Stato. I mille rappresentanti del popolo votino oggi stesso quel nome e lo votino, se possibile, all'unanimità perchè quel nome, fin da oggi, deve rappresentare, difendere e ricostruire una Nazione colpita, insanguinata e ormai condotta a dubitare di se stessa e del suo destino.

giovedì 22 maggio 2008

la campanella suona anche per il PD







A quaranta giorni dall'esito del voto delle elezioni politiche, si comincia a far sul serio. E a lavorare (bene o male). Il governo ufficiale si è riunito ieri a Napoli, ha preso i primi provvedimenti su sicurezza, rifiuti e detassazione degli straordinari. Come al solito gli osservatori dicono la loro, chi più chi meno. Cercano di interpretare segnali che a volte non ci sono (o meglio non si riescono ad interpretare) e la vita politica va avanti. Anche il cosiddetto "governo ombra" comincia a lavorare. Si riunisce, confabula, dice la sua e cerca di legittimare, con il proprio lavoro, l'esistenza in vita (politica). A tal proposito vorremmo sottoporre alla vostra attenzione, gentili lettori, un bell'articolo pubblicato oggi su La Stampa di Torino, a firma di Andrea Romano, dal titolo "Opposizione ombra". Buona lettura.
Con la prima riunione del Consiglio dei ministri è suonata la campanella anche per il «governo ombra» di Walter Veltroni. Finita la ricreazione post-elettorale, è il momento di mostrare al Paese come si intendono svolgere i compiti dell’opposizione. Se bastassero le buone maniere, ci si potrebbe accontentare del clima di dialogo che Berlusconi e Veltroni sembrano aver instaurato nei loro primi contatti. Ma un’opposizione non vive solo di buona educazione, tanto più che il Partito democratico deve rapidamente definire una strategia nei confronti di quello che ha tutta l'aria di essere un governo di legislatura. Fino ad oggi, anche a giudicare dal discorso pronunciato in Parlamento in occasione del voto di fiducia, Veltroni sembra aver impostato il proprio ruolo sull’antico modello del «governo delle astensioni»: il Paese vive un momento di emergenza, il governo governi e il Pd si asterrà ogni volta che lo riterrà utile all’adozione di misure condivisibili. È il modello che fu adottato dal Pci negli anni della solidarietà nazionale, lo stesso al quale si è riferito Veltroni citando Enrico Berlinguer e Aldo Moro a Ballarò di martedì sera. Un riferimento nobile, ma del tutto fuori luogo nell’Italia del 2008. Perché Silvio Berlusconi non ha alcun bisogno di un’opposizione conciliante, avendo ricevuto dalle urne un pieno mandato a governare, e soprattutto perché al Pd non basterà il dialogo per trovare la propria ragion d’essere (a differenza del Pci, viene da aggiungere, che proprio perché aveva una fortissima ragion d’essere di natura trascendente poté permettersi la stagione della solidarietà nazionale). Fuori dal perimetro politico del Pd sta rapidamente rafforzandosi un’entità di opposizione all’insegna dell’intransigenza e dell’indignazione moralistica, dominata da quel Di Pietro con cui Veltroni ha stipulato un’alleanza elettorale che attende ancora di essere spiegata. L’opposizione dipietrista può vivere serenamente di rendita, senza alcun bisogno di definire se stessa. Le sue ragioni sono quelle che hanno dominato il centrosinistra nella sua precedente stagione di opposizione tra il 2001 e il 2006 e che hanno segnato il destino dell’Unione durante il governo Prodi. Sono ragioni strutturalmente minoritarie e incapaci di arrecare il minimo danno al consenso del centrodestra, ma molto popolari presso una militanza allevata da anni al culto della superiorità morale dell’antiberlusconismo. Per rendersene conto basta leggere l’Unità di questi giorni: quello che in teoria dovrebbe essere il quotidiano del Pd è stato di fatto appaltato alle ragioni dell'Italia dei Valori, partito alleato ma già concorrente. È questo il problema che attende di essere risolto da Veltroni. Tra la liturgia delle buone maniere e la vocazione minoritaria di Di Pietro, il Pd deve trovare la via per definirsi come opposizione capace di candidarsi al governo reale del Paese. Vasto programma, si dirà. Eppure occorrerebbe accennare almeno un primo passo, evitando di cullarsi nell’illusione che una tattica delle alleanze possa eliminare l’onere della strategia politica. Cinque anni sono lunghi solo sulla carta. In realtà quel tempo è appena sufficiente a riempire di contenuti lo slogan della «vocazione maggioritaria». Per il Pd si tratta di superare il recinto di una militanza dotata di voce ma non di consensi, di comprendere il Paese reale e di convincere quell’elettorato di mezzo che non è stato neanche scalfito dalla retorica veltroniana. Si tratta di creare oggi la possibile maggioranza di domani, senza fidarsi troppo dei propri riflessi condizionati. È ciò che viene normalmente fatto dai grandi partiti europei: utilizzare gli anni di opposizione per prepararsi a governare.

mercoledì 21 maggio 2008

Miccichè & le auto blu




Quante polemiche sui privilegi dei politici all'indomani dell'uscita del libro "La Casta" e quanti risentimenti fra gli stessi parlamentari, in virtù della reciproca invidia per qualche tessera sconto in più o in meno, per qualche "benefit" più appetibile rispetto ad un altro. La solita storia. Passata la festa, gabbato lo santo. A parole, prima, tutti integerrimi paladini del rinnovamento morale e materiale degli appartenenti alla Casta. Nei fatti, passato l'effetto scandalistico-giornalistico, si ritorna ai vecchi, buoni e mai rifiutati omaggi, figli illegittimi del potere. Abbiamo preso ad esempio, come naturale paradigma di questa continuazione del modus operandi, un esponente neanche troppo di primo piano come Gianfranco Miccichè (ricicciato nel nuovo governo Berlusconi come sottosegretario con delega) cui l'ottimo Gian Antonio Stella dedica oggi uno spassoso articolo, nella sua rubrica Tuttifrutti a pagina 36 del Corriere della Sera, dal titolo "Il vertice notturno per l'auto blu" che noi vi vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura. Non si può fare la rivoluzione? Facciamoci l'auto blu. E' questa la filosofia che traspare dall'ultimo regalino incassato da Gianfranco Miccichè prima di lasciare l'amato scranno di presidente dell'Assemblea regionale siciliana per tornare a Roma nelle vesti di sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega al Cipe. Ed è un peccato che la notizia, data da Repubblica nell'edizione palermitana, non abbia avuto tutto lo spazio che meritava. Riassumiamo. L'ultimissima riunione del Consiglio di presidenza dell'Ars, ormai decaduto per lasciar posto alla nuova gestione guidata da Raffaele Lombardo, si riunisce a tarda notte e decide un'innovazione: d'ora in avanti, tutti gli ex presidenti dell'Ars, nel caso siano parlamentari a Roma o a Bruxelles, avranno a disposizione, al ritorno a Palermo, un'auto blu. Pronta a scorrazzarli per l'isola a loro piacimento. E quanti sono questi ex-presidenti? Due: il poco conosciuto Nicola Cristaldi e l'assai più noto Gianfranco Miccichè, che presiedeva il vertice notturno. Oddio: non strapperà la macchina a nessuno. Alla Regione Sicilia, infatti, di auto blu ne hanno un'infinità: 14 lussuose Audi6 per il governatore e gli assessori, 14 Alfa 159 per gli uffici di gabinetto, 38 Peugeot 407 e via così, per un totale di 164 vetture. Affidate a 160 autisti, che lamentano di essere sotto organico da quando, per sottrarli all'umiliazione di essere dei semplici "autisti", c'è stata una promozione di massa a "istruttori". Col risultato che molti hanno subito detto: "Ah, no, mi dispiace ma io non guido più: sono un Signor Istruttore". Insomma: un'auto più, una in meno, non se ne accorgeranno neanche. Il segnale lanciato dall'ex uomo forte di Forza Italia, però, è interessante. Soprattutto in questi tempi di polemiche sui costi della politica. Solo pochi mesi fa, infatti, Miccichè si era scagliato contro l'"immoralità" della liquidazione di 1.770.000 (un milione e settecentosettantamila!) euro all'ex segretario generale del'Ars, Gianliborio mazzola: "Mentre firmavo l'assegno mi tremava la mano. Mi sono dentito un deficiente". Ancora lui aveva tuonato contro certi colleghi accusandoli di "difendere strenuamente il privilegio di una casta" e di non interpretare "il proprio mandato in favore della collettività". Non bastasse, dopo avere sparato a zero sull'ex-amico Totò Cuffàro ("la gente non ne può più di Cuffàro e del cuffarismo...un sistema clientelare che ha bloccato la Regione, che ha trasformato il lavoro da diritto a favore"), si era candidato alla sua successione invocando una "rivoluzione siciliana" e giurando: "Sarò il garante del rinnovamento". Di più, appena il Cavaliere gli fece capire che aveva altre idee per la testa, si era sollevato fremente perfino contro colui che lo aveva creato minacciando di metter su una lista personale: "Nessun sogno potrà essere oggetto di trattativa, altrimenti diventa incubo. Io credo in un sogno che può diventare la speranza di tanta gente onesta che vuole una Sicilia diversa". Di più ancora: "Non voglio e non posso tornare indietro. In Sicilia è cominciato un processo di rinnovamento inarrestabile". Giusto. Dopo le Audi, magari le Porsche, le Maserati, le Ferrari o le Bentley. Sempre nel solco del rinnovamento. Inarrestabile.

lunedì 19 maggio 2008

Pasquino non se la beve




Il titolo di questo nostro post odierno è volutamente riferito allo stato d'animo attuale del professor Gianfranco Pasquino (noto cattedratico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Bologna nonchè membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei) che, a quanto scrive oggi in prima pagina su l'Unità, non crede molto (come Nanni Moretti del resto) al new deal berlusconiano e ai nuovi rapporti istituzionali, rielaborati dal vecchio caimano, tra la maggioranza e l'opposizione. Riteniamo quindi interessante riproporre integralmente l'articolo di Pasquino, dal titolo "La prova dei fatti". Buona lettura. Non mi sembra il caso discutere se Silvio Berlusconi sia oppure no diventato più buono. Con il verbo frequentemente utilizzato dai politici, dirò che l’argomento non mi appassiona. Certamente, lo stile personale e politico conta e le modalità con le quali si instaura un rapporto con l’opposizione e il suo principale esponente possono fare una differenza per il funzionamento del sistema politico e per l’azione di governo. Tuttavia, è facile mostrarsi con il volto sorridente quando si sono vinte le elezioni ed è comunque possibile governare con una maggioranza molto ampia. Resta, però, da vedere con quale stile e con quali modalità verranno affrontate le dure prove del governo. Per quanto abile, il mix vecchio e nuovo nella compagine del governo "PdL più Lega" non sembra contenere innovazioni programmatiche significative. Alla prima prova dei fatti, quella relativa all’immigrazione e collegata alla criminalità, il Ministro degli Interni Roberto Maroni che, pure, rappresenta un esempio di "usato sicuro" (nel senso che sappiamo con ragionevole sicurezza quali sono i limiti della sua azione politica) è, primo, ritornato alla legge Fini-Bossi, per, subito dopo, introdurvi qualche importante clausola di sospensione concernente le badanti e le colf. Meglio così, per quanto, azioni e eccezioni di questo tipo non configurino strutturalmente nessuna soluzione duratura. Promessa in campagna elettorale, l’abolizione dell’ICI dovrebbe già fare la sua comparsa nei prossimi giorni, ma il Ministro Tremonti sarà probabilmente obbligato a chiarire in che modo i comuni, privati di quell’introito nient’affatto marginale, riusciranno a fare fronte ai loro compiti. Nel frattempo, incombe sulle finanze locali anche la prospettiva di un non meglio precisato "federalismo fiscale", ugualmente promesso in campagna elettorale e per il quale, ovviamente, la Lega non sarà disponibile a fare sconti. Nei prossimi giorni il governo Berlusconi terrà, come solennemente pre-annunciato dal suo capo, una riunione del Consiglio dei ministri a Napoli. Non sembra che all’ordine del giorno vi sarà la situazione dello smaltimento dei rifiuti che, dopo mesi e anni di colpevole incuria, non può neppure più essere considerata una emergenza, ma che, ovviamente, necessita di una soluzione in tempi rapidissimi. Non basteranno i sorrisi di Berlusconi dopo che la "monnezza" ha fatto parte della sua campagna elettorale anche per conquistare la Regione Campania (come è puntualmente avvenuto), il Presidente del Consiglio ha il dovere politico di enunciare la soluzione, mentre il Ministro degli Interni dovrà garantire che quella soluzione venga attuata mantenendo l’ordine pubblico. Quanto all’Alitalia, anch’essa nient’affatto una emergenza, ma un problema da tempo noto, avendo Silvio Berlusconi, unitamente ai vociferanti difensori del Nord, nella Lega e nel Popolo delle Libertà, reso impossibile la vendita a Air France e annunciato l’esistenza di una "cordata" italiana, il Presidente del Consiglio deve sentirsi politicamente impegnato affinché la soluzione venga alla luce prestissimo e venga ancora più rapidamente messa in atto anche per evitare ulteriori cospicui esborsi di denaro pubblico. Al momento, questa è, ovvero, più precisamente, non può non essere l’agenda del governo. Deriva, infatti, dalla situazione del paese e dalle promesse fatte dalla destra durante la campagna elettorale. Naturalmente, il governo ombra dell’opposizione ha, a sua volta, il dovere, non di attendere sulla riva del fiume, ma di pungolare, criticare, controproporre. Se il Partito Democratico avesse vinto le elezioni, con ogni probabilità le problematiche dei rifiuti, dell’immigrazione, delle tasse, dell’Alitalia (peraltro già quasi conclusa) si sarebbero inesorabilmente trovate sulla sua agenda. E’ giusto, però, come ha fatto il Primo ministro ombra, sottolineare che sull’agenda dell’opposizione nonché dei lavori parlamentari bisognerà (im)porre anche la questione dei salari e delle pensioni, magari aggiungendovi qualche concreta indicazione di come ridistribuire la ricchezza contribuendo al rilancio della crescita economica. Anche la RAI e più in generale il riordino del sistema televisivo, che incrocia il nient’affatto scomparso conflitto di interessi del Presidente del Consiglio Berlusconi, meritano di trovare spazio nell’agenda dell’opposizione per confluire, naturalmente, in quella dei lavori parlamentari. Non è, infatti, questione di buonismo né di rapporti personali fra i principali esponenti dei due maggiori schieramenti. E’, semplicemente, ma crucialmente, una questione democratica, di pluralismo e imparzialità dell’informazione, che non può essere nascosta dietro nessun sorriso e nessun ammiccamento. Fa piacere che la destra, seppure da posizioni di forza, peraltro conferitele democraticamente dall’elettorato abbia toni concilianti e si esprima con affermazioni dialoganti. Ma, al di là di qualsiasi espressione verbale, adesso il confronto si fa sulla cultura e sull’azione di governo. Senza neppure essere particolarmente esigenti, credo che i primi passi suggeriscano che la destra non ha compiuto molti progressi. A occhio, si direbbe che l’atmosfera nel paese reale sia un misto di attendismo e di rassegnazione, oltre che, fra i suoi elettori, di soddisfazione. Proprio per questo una sana, pacata e intensa discussione sui fatti, sui non fatti e sugli eventuali misfatti risulterà positiva sia per l’opposizione sia per il governo, se la sua disponibilità non è soltanto di facciata, sia per l’opinione pubblica.

domenica 18 maggio 2008

ricordando Enzo Tortora




A vent'anni dalla morte di Enzo Tortora, ci sembra giusto ed opportuno ricordarlo attraverso un bell'articolo, dal titolo "Tortora, un uomo solo fra troppi poteri", scritto da Paolo Martini (un giornalista che si è sempre occupato di televisione) e pubblicato oggi su La Stampa. Buona lettura.
Può capitare di tutto nella vita, anche a un giovane cronista. Mi sono ritrovato a 24 anni in una scena da film, che tra l’altro c'è davvero in "Un uomo perbene" con Michele Placido, anche se non ho mai voluto vederlo: ricostruisce l'allucinante vicenda giudiziaria di Enzo Tortora. A vent’anni dalla morte del grande presentatore, resta una pagina davvero amara e indigeribile. Lavoravo al Giorno e mi dedicavo quotidianamente ai retroscena televisivi nell'ambiente milanese della Rai e dell'allora nascente impero di Canale 5. Facevo un po’ la posta a tutti i personaggi. Tortora lo braccavo spesso al venerdì sera dietro le quinte di Portobello, un programma da venti milioni e rotti di spettatori, il primo e il più copiato dei people-show, gli spettacoli con la gente comune. Con Tortora, come tanti, avevo avuto subito un bello scontro: il personaggio aveva un carattere spigoloso ed era un solitario. Ma alla fine, anche grazie alla stima della sua più stretta collaboratrice, Gigliola Barbieri, ero riuscito a costruire un filo diretto. Il pomeriggio prima dell'arresto di Tortora fui convocato dal mio direttore di allora, Guglielmo Zucconi, un giornalista di lungo corso e di chiara fama, che era stato anche parlamentare Dc. Zucconi mi disse di telefonare a Tortora perché gli era arrivata voce che fosse implicato in una retata anti-camorra. Ebbe modo di ripetermelo con molta insistenza una seconda e una terza volta nello stesso pomeriggio. Parlai con Tortora, che era a Roma per riunioni, una prima volta verso le 16, e di nuovo prima delle 20. La sua reazione fu sempre la stessa, divertita. «Sì, dica al suo direttore di metterci pure Tognazzi e Vianello, e il cast è fatto!». Più tardi un cronista dell'Ansa di Napoli lo raggiunse con la stessa anticipazione, ma Tortora non si preoccupò di avvertire nessuno, nemmeno uno dei suoi amici avvocati. Si fece delle grandi risate pure con la sorella Anna, raccontandole le nostre telefonate prima di addormentarsi in una stanza dell'hotel Plaza a Roma. Alle 4 della mattina, quando i carabinieri lo buttarono giù dal letto, cercò solo di non farsi sequestrare il salvadanaio di porcellana a forma di maialino, ancora impacchettato, che voleva regalare alla diletta figlia Silvia. Mai avrebbe pensato che potessero smontarlo alla ricerca di droga. Fu chiuso in caserma e verso le 12 fu offerto alla pubblica gogna in manette per le troupe televisive, i paparazzi. Era il 17 giugno del 1983. Tortora riuscirà a riprendersi dall'allucinante trafila di menzogne e pasticci tra giustizia e mass-media soltanto il 17 giugno dell'87, dopo l'assoluzione definitiva e una dura battaglia. Quattro anni di calvario, e poi la celebre sortita televisiva del rientro: «Dove eravamo rimasti?» si limitò a dire commosso alla prima puntata del nuovo Portobello. Ma non arriverà felice nemmeno al primo Natale dopo la fine dell'incubo. Un tumore lo divora in pochi mesi, e il 18 maggio dell'88 toglie il disturbo senza potersi dedicare alla causa della «giustizia giusta», che per Tortora era diventata qualcosa di più della sua stessa causa. A distanza di anni, penso si possa finalmente comprendere in quale clima politico s'inscriva l'"affaire" Tortora. Nella Democrazia Cristiana è al potere l'irpino Ciriaco De Mita, con il capo doroteo napoletano Antonio Gava determinante a sostenere la maggioranza, ma le difficoltà sono enormi. L'Unità e i giornali d'opposizione hanno appena montato in modo pasticciato il «caso Cirillo», intorno a una brutta vicenda di terrorismo, camorra e riscatti legata al rapimento di un ras politico locale di Gava, l'assessore Ciro Cirillo. E la reazione caparbia di una parte della Dc non si fa attendere: c'è bisogno di un caso giudiziario talmente eclatante da togliere ogni dubbio all'opinione pubblica. Tant'è che si legge in un primo editoriale del Giorno, e ricordo bene il direttore Zucconi che mi confida di aver personalmente parlato con il ministro Rognoni prima di scriverlo: «L'arresto di Tortora e contemporaneamente di altri presunti 855 camorristi prova che non è vero che in questo paese non cambia nulla, non è vero che le leggi o sono sbagliate o se sono giuste non vengono applicate, non è vero che esistono gli intoccabili». Al giovane cronista di allora restano altri due confidenze da rivelare. Ai margini del terzo interrogatorio del presentatore prima del processo, il 9 marzo del 1984, Tortora viene avvicinato da un alto ufficiale dei Carabinieri che lascia intendere di essere un pezzo grosso dei servizi segreti e gli propone una trattativa: «La prego, ci dia il modo di uscirne. Le persone e le istituzioni molto importanti che rappresento le chiedono solo questo: si limiti ad ammettere almeno di aver fatto uso personale di cocaina, qualche volta, tanto lo fanno tutti nel suo mondo. Una piccola retromarcia, e la chiudiamo lì per sempre». L'ultimo retroscena inedito riguarda la madre del boss milanese della camorra Francis Turatello. L'anziana signora, che era un'assidua telespettatrice di Portobello, mise a disposizione dell'assistente di Tortora, Gigliola Barbieri, l'avvocato dell'organizzazione. Alla fin fine Turatello era stato trucidato in un carcere di massima sicurezza proprio da uno degli accusatori improvvisati del presentatore, Pasquale Barra, che si guadagnò il soprannome di 'O Animale perché divorò le viscere della sua vittima. Per settimane la Barbieri si dedicò alla ricerca di un qualche indizio di un coinvolgimento, spulciando tra le carte di questo avvocato, e a sua volta il legale indagò con cura tra i molti affiliati della camorra al Nord. Nessuna traccia. Pochi mesi dopo l'avvocato fu brutalmente freddato davanti all'uscio del suo studio. Sono tanti, dunque, i misteri anche del caso Tortora che rimangono aperti: i testimoni ancora vivi potrebbero finalmente parlare. Perché un ministro volle passare l'informazione in modo che Tortora fosse avvertito il giorno prima? Magari per farlo scappare o spingerlo a qualche altro gesto inconsulto che sarebbe poi stato facilmente interpretabile come prova della colpevolezza? Perché i servizi segreti provarono a trattare? Che cosa è successo tra la camorra di Cutolo e il potere politico? Forse, semplicemente, certi leader democristiani nel governo del Paese continuarono al peggio negli Anni 80 la tradizione dei fanfaniani, che della grande mamma Rai avevano fatto, come dalla celebre definizione che costò il licenziamento a Tortora nel '69, «un jet condotto da un gruppo di boy-scout».

venerdì 16 maggio 2008

Diliberto e gli spazi (televisivi) negati




Da che mondo è mondo un politico che non va in televisione a snocciolare i suoi programmi elettorali o meno, a far conoscere i suoi pensieri su società ed economia o sull'ultimo fatto di cronaca o altro ancora, non si è mai visto. Poi, da quando il salotto di Bruno Vespa di Porta a Porta ha preso il posto della più istituzionale Camera dei Deputati (o del Transatlantico), si è assistito ad una sorta di gara riservata ai politici che riuscivano a collezionare più presenze da Vespa, con relativo maggior minutaggio di esposizione televisiva rispetto agli altri. Praticamente la tv era (è) diventata la camera di compensazione tra le decisioni politiche da discutere il giorno dopo in Aula e le polemiche del giorno prima sciorinate con nonchalance a beneficio dei telespettatori. Ed era anche naturale che alla fine qualcuno, in questo caso Oliviero Diliberto, si lamentasse per il trattamento ricevuto. Vale a dire per l'ostruzionismo televisivo di Vespa e dei suoi amici. Non soltanto quindi "trombato" dagli elettori, ma "trombato" anche dal tubo catodico. E così Diliberto ha preso carta e penna ed ha scritto un risentito articolo-lettera di rimostranza che La Stampa si è affrettata a pubblicare. E che io non ho nessun motivo per non riproporre. Buona lettura. Non siamo più in Parlamento. Colpa nostra, certo. Ma anche per via dello sbarramento previsto dalla legge elettorale. Ma quale legge ha stabilito la soglia di sbarramento anche per l’accesso alla televisione? A La Stampa va il merito di aver aperto il dibattito sulla rappresentazione delle forze politiche dopo la tornata elettorale del 13 e 14 aprile. Marcello Sorgi - «Ridateci Bertinotti (alla tv)» - ieri ha rotto una sorta di tabù: quello di un autentico arbitrio che si sta consumando, in un lugubre silenzio, non già ai danni di alcune forze politiche, ma a danno di tre milioni di elettori. Stiamo infatti assistendo all’espulsione dalla televisione di chi non è più in Parlamento. Ma che continua ad esistere nella società. Pongo una domanda semplice: è giusto tutto ciò? E poi, chi lo ha deciso? In campagna elettorale abbiamo, giustamente, ascoltato la voce di tutti, dai più grandi ai più piccoli. Scopo era - ripeto: giustamente - quello di dare la più larga rappresentazione delle forze in campo, garantire il pluralismo e la dialettica in un sistema che non è bipartitico. Perché l’Italia è diversa dai Paesi a due soli partiti (perfino la Gran Bretagna, ormai, non lo è più), è plurale, vivace, ha una tradizione di grande ricchezza nel confronto politico e sociale. Ciò che sta avvenendo non è la semplificazione del sistema, ma il suo azzeramento, una sorta di avvelenamento dei pozzi, l’idea che se non sei in Parlamento - ancorché non piccolo, tutt’altro che insignificante, ben radicato nella società italiana - non hai diritto di svolgere le tue argomentazioni dalle tribune televisive. Alcuni esponenti politici sono in televisione tutti i giorni. Chi scrive queste righe - è noto - non è mai stato amante del «minutaggio». La quantità non sempre coincide con la qualità. Né alcuno può ragionevolmente sostenere che io e la forza politica che rappresento siamo mai stati sovraesposti mediaticamente: anzi. Ma un conto è il senso della misura, un altro la cancellazione dagli spazi che - piaccia o no - consentono di parlare al Paese. Noi non siamo più in Parlamento, ma continuiamo a fare attività politica. Non siamo più in Parlamento, ma siamo nella società. Qualche giorno fa, mentre Berlusconi incontrava Napolitano per riceverne l'incarico (e giù fiumi di dichiarazioni in tv), io ero fuori dei cancelli della Bosch, fabbrica metalmeccanica di Bari. Non era la rappresentazione di come una forza politica cerca di riallacciare, con fatica, ma anche con caparbietà, il filo disperso con i propri elettori? Tutto ciò è stato espulso dalla televisione pubblica, come in quella commerciale. Unanimità di censura. Il problema è, dunque, molto serio. È il problema generale di come funziona in Italia l’informazione televisiva: si tratta di temi delicatissimi, quali il pluralismo e la libertà d’informazione. Di cui spesso si parla, ma per i quali pochissimo si fa. Temi che riguardano i diritti dei cittadini ad essere informati non a senso unico e non sulla base di una sorta di duopolio del pensiero unico, rappresentato da Pdl e Pd. Le forze della sinistra italiana, passate attraverso quella sorta di linea d’ombra del 13 e 14 aprile, si stanno cimentando in un nuovo inizio. Per quanto ci riguarda, lo stiamo facendo con uno straordinario, necessario, anzi indispensabile, bagno d’umiltà. Vorremmo che tutto ciò venisse valutato almeno con un po’ di rispetto e di obiettività. Perché gli spazi di libertà che oggi vengono negati ad uno, domani potrebbero essere negati anche ad altri: e il danno, alla fine, sarà di tutti.

mercoledì 14 maggio 2008

in difesa di Marco Travaglio


Sulla polemica seguita all'intervento di Marco Travaglio nel corso della trasmissione Chetempochefa, non vogliamo intervenire direttamente. E il motivo ci sembra anche alquanto evidente, considerate le nostre posizioni politiche, le nostre precedenti affermazioni su questioni inerenti determinati esponenti politici "alto di gamma" e quant'altro. Sarebbe quasi, la nostra, una difesa d'ufficio, dovuta e ineluttabile. Ma profondamente vera e sentita. Per questo ci piace però ospitare un intervento di Giorgio Santelli a difesa di Travaglio, in nome della libertà di espressione e di stampa, oltre che di opinione. Il pezzo s'intitola "Difendere Travaglio significa difendere la libertà di espressione e il diritto di cronaca". Buona lettura.
Sono stato a Fiesole per raccontare le vicende dei giornalisti che lavorano nelle aziende editoriali con contratti non giornalistici. E’ la mia ossessione e Articolo 21 (http://www.articolo21.info/index.php) continuerà a parlare di loro fino a quando non si realizzeranno per loro nuove reti di garanzia.
Ma proprio perché convinto di questa battaglia oggi è necessario fare una levata di scudi contro il pericoloso attacco fatto a Marco Travaglio.
C’era chi rideva, qualche anno fa, nel momento in cui Biagi, poi Santoro, poi Luttazzi, poi Beha, poi Martini, poi Fini e tanti altri colleghi furono allontanati e poi esiliati dalla Rai. Oggi alcuni ridono per quel che sta accadendo a Travaglio.
Questo è l’errore più grave che possiamo commettere. Perché Travaglio ha esercitato un diritto di cronaca, perché è sbagliato dire che non doveva essere invitato da Fazio, perché è inopportuno affermare che vi sia stata una violazione del contradditorio.
Marco può aver sbagliato una sola cosa: offendere il Presidente del Senato in quei trenta secondi finali.
Ma su questo il Presidente del Senato può sentirsi leso e decidere di difendere con il “diritto” la sua onorabilità.
Ma la stampa libera (e la politica), che considera la libertà di espressione un fondamentale diritto, non può attaccare Travaglio per quel che lui ha affermato nel corso dell’intervista.
Anzi: un giornalismo e una politica sani dovrebbero chiedere al Presidente del Senato di rispondere pubblicamente a quanto è stato sostenuto non unicamente dal giornalista nel corso di Che Tempo che fa, ma da altri colleghi, da articoli di giornale, da quanto è contenuto in alcuni libri che sono stati pubblicati.
Un’opinione pubblica sana dovrebbe pretendere di conoscere a gran voce eventuali collusioni di un esponente politico con la criminalità.
Una stampa davvero libera ha il dovere di dare il diritto di replica al Presidente del Senato. Anzi, dovrebbe inseguirlo e pretendere una replica, ma non una dichiarazione a cervello spento.
Da cittadino pretendo che i giornalisti inseguano il Presidente del Senato con ogni domanda utile a fare piena luce sulla vicenda eliminando qualsiasi ombra sulla vita della seconda carica dello Stato.
Ma se queste ombre dovessero rimanere, o se addirittura quelle accuse fossero confermate da atti, è la Seconda carica dello Stato che si dovrebbe chiedere se può restare al suo posto.
Per questi motivi è opportuno difendere Marco Travaglio. Per questo è giusto chiedere con forza alla politica e alle associazioni di categoria, al sindacato la difesa di Marco Travaglio.
Quello che sta accadendo a lui oggi potrebbe accadere presto all’informazione nel suo complesso, al più umile dei precari.
E’, dunque, una questione di libertà.

lunedì 12 maggio 2008

il doppiopetto (riciclato) di Gianfranco Fini




Per festeggiare il nostro post numero 200 abbiamo scelto un personaggio della politica a noi non molto simpatico (e non molto gradito), ma che comunque, dobbiamo riconoscere, da quando è diventato la terza carica istituzionale dello Stato ha di nuovo l'aplomb del dignitario d'alto bordo in doppio petto. A parte il discutibile (e stranoto) cattivo gusto nella scelta delle cravatte, Gianfranco Fini ha ultimamente ben riciclato la sua immagine da leader, appannatasi negli ultimi mesi prima delle elezioni ma che grazie all'aiuto del suo mentore (il cavaliere) e all'insediamento alla Camera dei Deputati è riuscito a rispolverare e a tirare a lucido, anche all'indomani dell'operazione successione operata nell'ambito di Alleanza Nazionale, da cui si è chiamato fuori nominando il suo delfino Ignazio. Questa nuova immagine istituzionale e personale l'ha anche molto bene evidenziata Lucia Annunziata (che, dobbiamo ammettere, sta diventando la nostra notista politica preferita) con un bell'articolo in prima pagina, stamani su La Stampa di Torino, dal titolo "La seconda vita di Gianfranco" che vi proponiamo integralmente. Buona lettura. Una volta passavano gli uomini, ma restavano i partiti. Oggi, nell'umanissima fragilità raggiunta dalle nostre istituzioni, sono i partiti ad essere transeunti e gli uomini a rimanere. Il che introduce un'interessante variabile alle vecchie biografie politiche. Può infatti capitare, com'è già successo, che a un leader politico vengano riservate più di una vita. Un dono, ma anche una incognita: il passaggio fra due vite è infatti spesso il luogo dove si annidano le sabbie mobili. Sotto questo segno del destino, Gianfranco Fini ha così ieri spento la Fiamma, e nel soffiare sul fuoco ha contemplato la scena intorno a sè con la sospensione d'animo che si dice a volte afferri un superstite. Un bilico fra addio ed euforia: "Sono stati in quel momento gli sguardi di tanti amici in sala a suscitare in me l'emozione più profonda", ha confidato il neo eletto Presidente della Camera agli amici. "Hanno reso palpabile che non avrei mai più partecipato a un'assemblea del mio partito...". Ventuno anni sono davvero tanti alla guida di una organizzazione. Solo un "capricorno, testardo, e con i piedi per terra" quale lui di solito si definisce (ridendone), avrebbe potuto durare tanto. Adesso sembra che tutto fosse stato pensato con visione e precisione; persino l'anniversario della morte di Almirante, come nessun calendario poteva anticipare, è coinciso con lo scioglimento del partito, e l'arrivo del suo ex Presidente agli onori della Terza Carica dello Stato. In realtà, nel suo bilancio, Gianfranco Fini è ben consapevole che sarebbe anche potuto andare diversamente, che tante volte l'azzardo iniziale è stato lì lì per trasformarsi in un errore di calcolo. "La strada è stata in salita. Va ricordato che AN nasce prima di Forza Italia, progetta una nuova destra da sola..." rammenta ai suoi amici, per accennare con cautela al ciclone Cavaliere che ha attraversato, e quasi portato via, il suo partito. Non a caso, se gli si chiede quale sia stato uno dei momenti peggiori di questa marcia, Fini ricorda un episodio da tutti quasi dimenticato: "L'alleanza con Segni", quella in cui lo scalpitante segretario segretario di AN in cerca di identità prova ad accorciare il percorso verso il centro, scavalcando Silvio Berlusconi, e alleandosi con il leader referendario. Con il disastroso risultato che ne segue, alle Europee del 1999, Fini tocca con mano la possibilità reale di essere sconfitto, e non dai suoi rumorosi colonnelli, ma dalla storia. Storia che nel suo caso si chiama Silvio Berlusconi. "Capii che l'accelerazione era stata troppo repentina, rispetto all'elettorato" è il bilancio che fa oggi. Ma da quello sbaglio ha origine il percorso cui si arriva in questi giorni. Fini prende atto (dentro di sè con più chiarezza che fuori) che Berlusconi non si può bypassare: che si può spronare, provocare, e magari a volte anche ricattare, ma il dominus del centro destra è lui. AN si piega a Forza Italia (quanti diventano i Berluscones dentro AN!) e Fini comincia una corsa in parte umiliante, in parte esilarante, per puntare ad essere non oggi ma domani, il Numero Uno. Oggi secondo, domani Dominus. Ed è qui che lo ritroviamo oggi, mentre chiude il suo partito: alla partenza di questa corsa per divenire l'erede di Silvio, il numero Uno futuro del PdL, che si sta creando ora. Sul terreno è rimasto, unico suo competitor, dopo una rigorosa e altrettanto dolorosa selezione, solo un altro uomo: il Ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Ed è con Tremonti come compagno di viaggio e di ambizione, che Fini prova a misurare il suo spazio: "Senza esagerare, senza parlare sempre, ma nei posti e luoghi adatti, cercherò di mettere un lievito nella cultura politica del Paese, così come Giulio fa nell'economia". Se Giulio riporta in ballo un mix di idee stataliste e liberiste, quale sarà il mix di Fini? "Il libro cui in questo momento mi capita di tornare spesso è =Che cos'è la Nazione?= di Ernst Renan, in cui c'è la frase =la Nazione è un plebiscito che si rinnova ogni giorno=, confida Fini ai suoi più stretti collaboratori. Lettura interessante soprattutto se la si vede connessa alle riletture recenti di questa opera, ad esempio da parte di Alain Finkielkraut, autore di "Occidente contro Occidente", amato dagli intellettuali della destra europea e dai neo-conservatori Usa, per le sue battaglie contro il relativismo e il pensiero debole. Utile leggere questo passaggio di Finkielkraut su Renan: "La nostra questione, in altre parole, non è più, come nel 1882, =Che cos'è una Nazione?= ma =Che cos'è la Francia, e che cosa diventare: ancora una Nazione o una società decisamente postnazionale?=. La risposta a tali questioni fondamentali, se risposta c'è, può nascere solo dallo scambio, dalla disputatio, dal confronto dei punti di vista, e non da una conferenza. Renan faceva opera di definizione per i suoi compatrioti: concettualizzava il loro essere. Siamo all'incrocio delle strade: il compito che incombe su di noi non è dire ma scegliere ciò che siamo, finchè c'è tempo, con piena cognizione di causa". Possiamo dunque dire che il lievito che Fini vuole inserire nella nostra politica è un mix di neonazionalismo e neocittadinanza, come frutto della fine delle vecchie ideologie, e di un confronto serrato su come e dove nasce la nuova cittadinanza. Un esempio di un passo in questo senso, lo stesso Fini lo indica nel suo discorso di insediamento sul 25 Aprile, a suo parere in perfetta linea con quello di Napolitano sul terrorismo. Insomma, si trasformerà sotto i nostri occhi in intellettuale, questo Fini finora conosciuto come guerriero? Il neo presidente ride quando gli amici gli rivolgono questa domanda: "Di intellettuali, nel senso di gente astratta, ne conosco fin troppi, tutti quelli della sinistra ad esempio!". Il suo sarà un impegno istituzionale e concreto: "Riprendere intanto la strada che aveva fatto da Ministro degli Esteri", dicono ancora gli amici, sull'asse "Francia, Mediterraneo, mondo arabo, esportazione della democrazia nel senso non di guerra ma dei diritti...", con in fondo la data del 2010 in cui l'Italia sarà presidente dell'EuroMediterraneo, l'organismo che riunisce 27 Paesi. Fra due anni. Ma il passaggio inizia solo ora e, come si diceva, è in queste zone che si trovano spesso le famose sabbie mobili. Il ruolo di Terza carica dello Stato, infatti, come ben sanno i suoi predecessori, a volte è un dono - vedi Violante e Casini - a volte è una gabbia. Vedi Bertinotti.

domenica 11 maggio 2008

Figo, l'Inter e il gatto nero (deceduto)







Non vorremmo trovarci nei panni (per altro miliardari) di Luis Figo al centro di una contestazione da parte delle associazioni animaliste meneghine per via del "fattaccio" raccontato venerdì scorso, in prima pagina su Libero, da Vittorio Feltri che vi riproponiamo. "Vi racconto una storia che sembra una favola (triste) e invece è accaduta davvero. C'era una volta un bellissimo gatto nero. Viveva ad Appiano Gentile. Gli piaceva sdraiarsi sull'erba dei prati frequentati dai calciatori dell'Inter in allenamento. Loro giocavano, lui prendeva il sole e di tanto in tanto osservava con distacco felino quei matti in braghette che rincorrevano il pallone. Non aveva mai fatto del male a nessuno. Dormicchiava, sbadigliava, con la zampetta lavava il mantello nero. I suoi guai sono cominciati quando qualcuno lo ha notato ai bordi del campo: oddio un gatto nero! Siamo nel Terzo Millennio, le streghe sono state tutte bruciate alcuni secoli fa, ma esistono ancora degli imbecilli capaci di credere negli effetti malefici di un micetto scuro.
E il nostro micetto scuro come il buio e dolce come il miele è stato preso di mira da un paio di calciatori: ecco, è lui l'untore, ci porta sfiga. Il povero gatto non ha più avuto pace. Veniva scacciato. Lo inseguivano forse per rifilargli una pedata al posto del pallone.
Finchè un giorno, un attaccante di nome Figo, un portoghese che non segnava un gol dalla presa di Troia, lo ha schiacciato con la jeep. Oh, eliminato lo iettatore! Però, che campione di intelligenza, quel Figo. Il quale, la domenica dopo, viene utilizzato da Mancini nella partita contro la Juve e si infortuna alla gamba... Da quel momento l'Inter ha avuto solo tribolazioni, si è mangiata gran parte del vantaggio sulla Roma. Non era il micio nero che menava sfiga, ma chi lo ha ucciso, lo sfigato Figo.
Ma ecco il miracolo. Mancini ha la buona idea di portare la squadra in visita al Papa, che ama i gatti di ogni colore (non essendo un cretino, non è nemmeno superstizioso). Benedetto XVI ha ricevuto la comitiva e, dato che il suo nome è una garanzia, l'ha benedetta. La storia si chiude qui.
Auguriamo all'Inter di vincere lo scudetto e di avere imparato la lezione: i gatti neri vivi portano buono, i gatti neri ammazzati con crudeltà sporcano la coscienza degli stolti. E gli stolti sono perdenti. Speriamo che il Papa "gatolico" abbia sistemato le cose. In ogni caso, se Figo mi attraversa la strada, mi tocco". A parte la battuta micidiale finale di Feltri, questo fattaccio deve aver portato proprio male a Figo e all'Inter tutta, visto e considerato che nemmeno questa domenica è riuscita a festeggiare al Meazza il sedicesimo scudetto, dopo il pareggio 2 a 2 con il Siena. Tutto rinviato a domenica prossima, con l'Inter che giocherà a Parma e la Roma che andrà a Catania. Abbiamo l'impressione che Mancini, prima dell'arrivo allo stadio della squadra, si assicurerà che non giri nemmeno un gatto nei paraggi. Nè nero nè bianco. Di questi tempi i mici non portano troppo bene...

sabato 10 maggio 2008

tintinnìo di manette




Se il buongiorno si vede dal mattino...e, soprattutto, se quello che scrive Francesco Grignetti in prima pagina, oggi su La Stampa, corrisponde a verità, beh cari lettori, siamo messi proprio male! Il cavaliere, a quanto pare, ha intenzione di effettuare un bel giro di vite sulla Giustizia, con l'inasprimento di alcune pene e con la revisione della legge Gozzini (quella degli sconti di pena per buona condotta e misure alternative al carcere). Insomma, si profilano giorni bui per i detenuti che sono dietro le sbarre, ma anche per quelli che ci finiranno. Eccovi comunque l'articolo di Grignetti. Buona lettura.
Altro che indulto. Il Pacchetto Sicurezza che Berlusconi ha sul tavolo e che presenterà il prima possibile, forse già alla riunione dei ministri a Napoli, sarà composto di due capisaldi: inasprimento della normativa sull’immigrazione e riforma radicale della legge Gozzini. Sul primo, è noto che la nuova maggioranza vuole far marciare appieno la Bossi-Fini, moltiplicando le espulsioni degli extracomunitari, e quella Direttiva europea che prevede l’allontanamento dei comunitari indesiderati. L’escamotage, per questi ultimi, specie contro i rom, sarà di fissare la soglia del reddito legale. In mancanza di questo, niente certificato di residenza e poi, dopo novanta giorni, potrebbe scattare l’allontanamento coatto. «Per gli immigrati - conferma Roberto Calderoli - si chiedono abitazioni regolari e soprattutto che dimostrino di avere un reddito. Aggiungerei: un reddito che viene da attività lecite. Bisogna dimostrare che è una persona onesta. Altrimenti scatterà l’espulsione». «Noi - aggiunge Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl al Senato - faremo leggi ancora più severe della Fini-Bossi per quanto riguarda l’immigrazione clandestina e solleciteremo un’azione a livello europeo che finora è mancata. Bisogna trovare un sistema per fare le espulsioni. Ma ormai questo è un tema molto sentito in Europa». In nome della sicurezza, però, sarà la Gozzini la prima vittima. «E’ una legge superata», scandisce Nicolò Ghedini, deputato Pdl e avvocato, il consigliere più ascoltato da Berlusconi in tema di giustizia. E’ dunque nelle intenzioni del nuovo governo di trasformare radicalmente il sistema dei premi per buona condotta e delle detenzioni alternative al carcere. Per alcuni reati ad alto impatto sociale (furti, rapine, droga, stupro) i benefici non ci saranno più o comunque saranno fortemente ridimensionati. E sarà molto più complicato ottenere gli arresti domiciliari. Ugualmente ci sarà un intervento drastico sulla sospensione condizionale della pena, ovvero quel meccanismo, abbastanza incomprensibile ai comuni mortali, che permette a chi è stato condannato (in genere fino a tre anni) di non entrare o uscire immediatamente dal carcere. Ciò significa oggi un vorticoso turn-over. Di gente arrestata dalla polizia ce n’è tanta, ma poi esce quasi subito. Uno che ha visto il problema da vicino è stato Giuliano Amato, che proprio ieri, al suo primo giorno da ex, ci ha ironizzato amaramente: «In Italia, c’è più la certezza delle detenzione preventiva che non la certezza della pena. La maggioranza di chi è dentro deve ancora subire un processo; poi, appena processati e condannati, la maggior parte esce». Ma è appunto sulla cosiddetta «certezza della pena» che il governo vuole intervenire. Spiega ancora Ghedini: «La sospensione condizionale ormai si dà con troppa facilità. Senza condizioni, si potrebbe dire. Invece il detenuto deve dimostrare di meritarsela. In certi casi, poi, l’effetto rieducativo della pena deve consistere nello scontarla, questa benedetta pena». Se quindi si ritoccherà la Gozzini, l’effetto sarà di ritardare le semilibertà, ridurre gli affidamenti ai servizi sociali, e anche tagliare gli sconti di pena. Se ci saranno meno automatismi nella sospensione condizionale, di nuovo gente in cella. Risultato: più detenuti resteranno dietro le sbarre, presto le carceri saranno piene come uova. Il che, però, è appunto ciò che l’esecutivo vuole. E lo farà per decreto. Insiste Ghedini: «Mica possiamo aspettare i tempi di un disegno di legge. Ci vorrebbero sei mesi tra Bicameralismo perfetto, commissioni Giustizia, ritocchi, discussioni... Così, come minimo, si arriva a Natale. Il cittadino vuole vedere subito i primi risultati».