l'Antipatico

giovedì 31 luglio 2008

riflessioni per Veltroni




Sappiamo che il segretario del Partito Democratico non sta passando proprio un momento felice, almeno dal punto di vista politico. La sensazione è quella di un generale di corpo d'armata, al comando di un esercito che si interroga e in cui serpeggia il malumore per come vanno le cose. Perchè le cose non vanno troppo bene. Lo strapotere berlusconiano ha ridimensionato ancor di più il tentativo del PD di rappresentare l'unica valida alternativa di sinistra (o di centrosinistra) con i requisiti idonei per poter tornare un domani alla guida del Paese. Questa sensazione l'abbiamo ritrovata stamani leggendo un bell'articolo di Francesco Ramella pubblicato su La Stampa, dal titolo "L'opposizione utile" che vi vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura.
Esiste per il centro-sinistra italiano una terza via oltre al dialogo subalterno con il governo e l’antiberlusconismo di professione della sinistra populista? È possibile individuare una via di uscita tra un confronto gregario sui temi imposti da Berlusconi - ritagliati sulle sue personalissime priorità - e la contrapposizione barricadera proposta da Di Pietro? È quanto si sta chiedendo in queste settimane Veltroni, pressato da sondaggi che certificano il suo calo di popolarità personale e la riduzione dei consensi per il PD. In questo tempestoso inizio di legislatura i democratici sembrano disorientati. Mentre si apprestavano ad un «confronto pacifico» si sono ritrovati nel bel mezzo di una guerra sulla giustizia, sotto il fuoco incrociato di «alleati» e avversari. Eppure - nonostante quel che dicono i sondaggi - Veltroni ha fatto bene a rimanere defilato dal campo di battaglia. A non farsi risucchiare da quell’ossessione anti-berlusconiana che per quindici anni ha paralizzato la sinistra italiana; fornendole un alibi straordinario per nascondere, non solo le divisioni interne, ma soprattutto la mancanza di un progetto convincente per governare l’Italia. La scelta di non cavalcare la protesta giustizialista, che nell’immediato risulta impopolare presso la base di centro-sinistra, appare la più convincente per evitare di entrare nel vicolo cieco di un gioco di rimessa nei confronti delle mosse di Berlusconi. Perché la via di uscita dal dilemma che attanaglia il PD è quella di imboccare, senza tentennamenti, la strada dell’opposizione utile. Utile non al governo e neppure all’opposizione in sé, bensì al Paese. Questa strategia può risultare vincente, alla distanza, purché siano chiare le condizioni che ne sanciscono il successo. La prima è di sottrarre al centro-destra l’iniziativa sull’agenda politica, dotandosi progressivamente di un programma alternativo a quello del governo. La seconda è di non accettare compromessi al ribasso sulle leggi ad personam, senza però farsi catturare dalla deriva populista. La terza è di fornire basi solide alla strategia scelta, costruendo un partito radicato nella società e delle alleanze funzionali non solo a vincere le elezioni ma anche a governare. La prima condizione è quella su cui il centro-sinistra deve lavorare, in vista della preannunciata «campagna di autunno». Infatti, è solo recuperando un’autonoma capacità di agenda-setting che il PD può uscire dalle difficoltà in cui si trova. Deve, in altre parole, mostrare che Berlusconi - assorbito com’è dai temi della giustizia - sta tragicamente distogliendo il Paese dalle sfide cruciali che lo attendono. E per risultare convincenti i democratici devono innanzitutto risintonizzarsi con le priorità, molto concrete, dei cittadini. Dopo tanti anni in cui si è discettato sull’evoluzione post-materialista delle società occidentali, oggi al contrario si delinea la risorgenza di uno scenario neo-materialista: sono le questioni della sicurezza e - sempre di più - i bisogni economici a dominare le preoccupazioni delle persone. L’ultima inchiesta Eurobarometro (pubblicata lo scorso giugno), ad esempio, mostra un sensibile peggioramento delle aspettative dei cittadini europei per il prossimo futuro. Per quanto riguarda la situazione economica si tratta dei peggiori dati di opinione registrati nell’ultimo decennio. L’agenda delle priorità ne risulta pesantemente condizionata. Specialmente nel nostro Paese. Per il 44% degli italiani, infatti, la questione più importante che il governo dovrebbe affrontare è l’aumento dei prezzi (un dato superiore alla media europea del 7%). Vengono poi la situazione economica (33%, 13 punti sopra la media europea); l’occupazione (29%, 5 punti sopra la media) e le tasse (24%; 14 punti sopra gli altri Paesi). Come si vede tutti temi che riguardano le condizioni materiali di vita. Particolarmente avvertiti da noi, dove il 36% dei cittadini si sentono a rischio di povertà (contro un dato europeo del 25%) e il 21% di fatto emarginati dalla società (il valore più in alto in Europa, dove la media è del 9%). È su questi terreni che il centro-sinistra dovrebbe incalzare il governo. Perché è solamente dandosi un progetto per l’Italia, capace di tenere insieme sviluppo ed equità sociale, che potrà svolgere un’opposizione utile a modernizzare il Paese.

martedì 29 luglio 2008

il ricordo di un Giudice moderno


Ci sembra giusto ed opportuno ricordare oggi, a venticinque anni di distanza dalla sua tragica scomparsa, la figura del Giudice Istruttore Rocco Chinnici. Nell'aprile del 1966 arriva al Tribunale di Palermo, all'Ottava Sezione dell'Ufficio Istruzione, un giovane magistrato: Rocco Chinnici. Giovane, ma di esperienza ne ha già tanta. Dodici anni pretore a Partanna, in provincia di Trapani. Dodici anni trascorsi amministrando giustizia - penale e civile - in mezzo alla gente, come piace a lui. Chinnici era nato a Misilmeri, alle porte di Palermo, il 19 gennaio 1925, aveva studiato a Palermo, completando gli studi superiori negli anni della Seconda Guerra Mondiale presso il Liceo Classico Umberto I. A Palermo aveva frequentato la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università mentre, per dare sostegno economico alla propria famiglia nei difficilissimi anni del Dopoguerra, lavorava come Procuratore nell'Ufficio del Registro di Misilmeri. A Misilmeri aveva conosciuto una giovanissima professoressa, Agata Passalacqua, che era giunta lì per un incarico di insegnante alla scuola media e che sarebbe presto diventata sua moglie. Nel 1952 Rocco Chinnici vinceva il concorso in Magistratura e - per i due anni di uditorato - veniva assegnato al Tribunale di Trapani e subito dopo alla pretura di Partanna. E proprio nel periodo in cui il giovane Pretore si trasferiva nel centro belicino nasceva la figlia primogenita Caterina (novembre 1954). Questa lunga tappa professionale che, lo portava a diretto contatto con la cittadinanza, segnava profondamente la sua personalità, dandogli la possibilità di esercitare le sue grandi doti umane e professionali e di stabilire con la popolazione locale una eccezionale sintonia che lo portava - tra l'altro - a ritardare a lungo la partenza per un ufficio giudiziario più grande. In quel felice periodo nascevano gli altri due figli del Magistrato: Elvira (gennaio 1959) e Giovanni (gennaio 1964). E la popolazione partannese ricambiava con un atteggiamento di profonda stima e di affetto. Rocco Chinnici, "lu Preturi" com'era chiamato da tutti, diventava – sempre più spesso - la persona alla quale rivolgersi per avere un aiuto o anche soltanto per sentirsi dire qualche parola di conforto. Chinnici era vicino alla gente e la gente lo capiva. E - sempre più spesso - la sua mole imponente e l'istintivo atteggiamento distaccato si scioglievano in calorose strette di mano ed affettuosi sorrisi di comprensione e solidarietà. Ciononostante, Chinnici non veniva mai meno ai doveri che la sua professione - la sua missione - gli imponeva. Condannava, quando c'era da condannare, sempre con umanità, sempre cercando anche di comprendere le ragioni dei comportamenti sbagliati per dare alla pena una portata soprattutto rieducativa, per capire dove e come agire affinchè quei reati non si ripetessero. E per le feste non mancava una visita e qualche piccolo dono per i carcerati. Dopo qualche anno il lavoro di Chinnici conseguiva un successo pieno: "prima che io andassi via da Partanna – affermava spesso con orgoglio e con ammirazione per quella cittadinanza che aveva colto perfettamente i suoi messaggi - gli unici reati erano qualche caso di abigeato (furto di bestiame) e di pascolo abusivo". Soltanto nel 1966 Rocco Chinnici cede alle ormai improcrastinabili istanze di crescita professionale e - a malincuore - lascia la cittadina di Partanna per trasferirsi a Palermo. E da quel momento comincia ad occuparsi di delicati processi di mafia. Nel 1970 che gli viene assegnato il primo grande processo di mafia, quello per la "strage di viale Lazio". Nel 1975 consegue la qualifica di magistrato di Corte d'Appello ed è nominato Consigliere Istruttore Aggiunto. Quattro anni dopo è designato Consigliere Istruttore e inizia a dirigere da titolare l'ufficio in cui opera da tredici anni. E' in questo periodo che le istituzioni italiane cominciano a vacillare sotto i colpi di una mafia ormai diventata talmente potente e sfrontata da sfidare apertamente lo Stato. Nel 1979 Terranova, un anno dopo Costa, per citare soltanto i giudici barbaramente trucidati, ma accanto a loro ci sono politici, poliziotti, carabinieri, semplici cittadini. Ed allora Chinnici ha una intuizione che fa di lui anche un magistrato particolarmente moderno: il giudice è vulnerabile perché - lavorando in modo individuale - se viene ucciso, vengono eliminate con lui anche le sue indagini. Grazie alle sue validissime capacità organizzative progetta e crea nel suo ufficio dei veri e propri gruppi di lavoro, una scelta - per allora - rivoluzionaria, dando forma a quelli che saranno poi definiti "pool antimafia". E' questo il primo elemento di modernità del Giudice Chinnici. Accanto a sé vuole - tra gli altri - due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, andrà proprio a quella ottava Sezione che fino a qualche anno prima era stata di Chinnici. E' con loro che mette in cantiere le prime indagini di quelli che si caratterizzeranno come i più grossi processi per mafia degli anni ottanta. Per tutti, il "rapporto dei 162", considerato il nocciolo primordiale del futuro primo maxi-processo. L'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo diviene, sotto la guida di Chinnici, un esempio di organizzazione giudiziaria: "un mio orgoglio particolare - rivelava allora il Magistrato - è una dichiarazione degli investigatori americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d'Italia. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero". Ma Rocco Chinnici non esaurisce la sua attività all'interno delle aule giudiziarie. Riprendendo quel contatto diretto con la gente che aveva caratterizzato il suo lavoro di pretore a Partanna tanti anni prima, ripropone la figura del magistrato impegnato a sensibilizzare in senso antimafioso l'opinione pubblica e le istituzioni. Ecco l'altro elemento di modernità. Ora - nel periodo del flagello dell'eroina - la sua attenzione si rivolge ai giovani, verso i quali nutre una naturale propensione ed una paterna e sincera affettuosità, in decine d'incontri nelle scuole, impegnando così i suoi – ormai rari – intervalli di tempo libero. E' nel pieno di quest'attività professionale sociale e culturale che, il 29 luglio 1983, mentre s'accinge a salire sulla sua autovettura di servizio ferma davanti al portone dello stabile in cui vive, in via Federico Pipitone a Palermo, una vettura apparentemente innocua, una 126 posteggiata accanto, esplode per l'azione di un telecomando. E' la prima auto-bomba che, ponendo fine vigliaccamente alla vita del Giudice, segna l'ulteriore e drammatico inasprirsi della strategia di Cosa Nostra. Assieme al Magistrato perdono la vita il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi e i due carabinieri della scorta, Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi.

lunedì 28 luglio 2008

anche i precari hanno un'anima?




Francamente non vorremmo trovarci nei panni di un precario del ventunesimo secolo. Ma non perchè evitiamo status sociali e lavorativi poco edificanti, ma solo per non doverci scorticare l'anima con le unghie della disperazione e con la rabbia livida e smoccolante nei confronti di questa oscena classe politica di destra, razzista nel cuore e nel midollo spinale fino alla morte. Una classe politica imbarbarita dal protezionismo dei loro spiccioli interessi, corporativistici ed immorali, spinti all'estremo pur di tutelare l'esigenza di pochi a discapito delle sofferenze e delle umiliazioni lavorative di molti. Abbiamo letto l'ottimo articolo di Bruno Ugolini su l'Unità di stamani e l'abbiamo apprezzato veramente tanto. E ve lo riproponiamo integralmente. Buona lettura. Non sono bastati i libri, i film, le inchieste, le testimonianze e nemmeno le manifestazioni, le promesse elettorali. Tutto quanto si è prodotto negli ultimi mesi attorno al tema della condizione dei «precari» è stato brutalmente cancellato. Come se non esistessero più. Il governo di centrodestra, quello che annuncia trionfalmente di rappresentare i deboli e addirittura la sinistra, ha deciso di mettere mano alle misure varate dal governo di centrosinistra e di ripristinare non i diritti dei precari, appunto, ma quelli degli imprenditori pubblici e privati. Norme che facevano parte di quel protocollo approvato da cinque milioni di lavoratori proprio un anno fa. Chissà se nelle forze più a sinistra che all’epoca bocciarono quel protocollo ora ci sarà un qualche ripensamento? La marcia indietro innestata dal centrodestra rappresenta un duro colpo per i lavoratori atipici. Un pianeta la cui densità non è facile calcolare. Ovverosia ciascuno se ne fa un’idea guardando il paesaggio umano che lo circonda. E dove ad ogni angolo s’incontrano figli, nipoti, amici che non riescono a trovare una sistemazione lavorativa, magari adeguata alla preparazione professionale conquistata con dura fatica. Anche se questo non significa che non esistano giovani che riescono a trovare una collocazione rassicurante. Sui dati statistici c’è, ad ogni modo, molta discussione. Un apprezzato studioso come Luciano Gallino, ha scritto di cinque milioni di precari. È uscito di recente un libro, a cura di Natale Forlani e Maurizio Sorcioni «Giovani precari? Il lavoro dei giovani tra percezione e realtà» che tende a ridimensionare tale dato. Secondo Forlani (già dirigente Cisl ora amministratore delegato di «Italia Lavoro») non si possono mettere insieme quelli con i contratti a termine, con gli interinali, con i lavoratori a part time e con tutte le fatispecie delle collaborazioni continuative e occasionali. Anche perché tra queste ultime sono presenti ad esempio figure come gli amministratori di condominio non paragonabili con gli operatori ad un call center. E per Forlani sarebbe tutta una questione di «percezione», verrebbe voglia di dire che è come il carovita, l’inflazione. Fatto sta che altri studi testimoniano pur con tutti i distinguo che siamo di fronte ad una realtà consistente. Quelli che passano sotto la definizione di «parasubordinati» ovverosia senza un contratto a tempo indeterminato sarebbero stati nel 2007 1.566.978 se si tiene conto solo di quanto registrato dalla gestione separata dell’Inps. Ovverosia la contabilità che annota i contributi versati dai collaboratori di diversa specie. Il dato è contenuto nel rapporto 2008 curato da Patrizio Di Nicola, Isabella Mingo, Zaira Bassetti, Mariangela Sabato (università la Sapienza). Gli Autori segnalano come l’azione del precedente governo abbia ridotto la quota di coloro che sono a rischio precarietà passati da 858.388 del 2006 ai 836.493 del 2007. Questo con la lotta alle false collaborazioni, con l’aumento dei contributi pensionistici di 5 punti che ha reso meno convieniente per le aziende le collaborazioni, con gli incentivi alla stabilizzazione. C’è chi da ragione alle cifre complessive di Gallino. Il recente rapporto Isfol segnala, sempre per il 2007, che il lavoro dipendente a termine, nelle sue molteplici forme (contratto a tempo determinato, apprendistato, interinale) riguarda quasi 10 lavoratori su 100. Più contenuta la quota dei collaboratori (Co.Co.Co., a progetto, occasionali) pari complessivamente al 5,7%. Il lavoro atipico riguarda quindi tra i 3,5 e i 4,5 milioni di lavoratori. Un dato che rappresenta la metà dei nuovi posti di lavoro. Altro che percezione alimentata dai mass media! Tutti riescono a vedere come sia sempre più difficile trovare un contratto non ballerino. Certo, come sostiene ancora l’Isfol, esiste anche la «flessibilità costruttiva»: il 28% degli atipici ritiene di avere in prospettiva un lavoro di tipo permanente ed il 7% considera la precarietà come una fase di necessaria crescita professionale. È vero che esistono giovani che considerano magari il weekend trascorso nel call center come attività transitoria per finanziare gli studi in attesa di un futuro, qualificato sbocco professionale. Ma nei call center non lavorano solo studenti in transito, c’è anche chi ci deve vivere col lavoro e il reddito da precario al telefono. E se è vero che l’evolversi dei processi produttivi abbisogna di flessibilità non si comprende perché questa flessibilità non debba avere le stesse prerogative del posto fisso in termini di diritti e di costo. Passano gli anni, ma tutto rimane inalterato e i timidi tentativi del centrosinistra di offrire più garanzie vengono spazzati via dalla destra al governo. Mentre nulla si fa per altre categorie che si annidano nelle pieghe dei lavori atipici. Sono quelle dei giovani che si annidano negli studi professionali, nuove fucine di precari e atipici. Qui s’avanza un precario di nuova generazione, magari con partita Iva, spesso di elevata formazione e qualità professionale, troppo a lungo ignorato. È nata così la Fulpp (Federazione Unitaria Lavoratori e Professionisti Precari). Sono circa duecentomila tra tecnici, operatori sanitari, ricercatori, medici, avvocati, ingegneri. Ha dichiarato il leader di questa associazione che il loro reddito «è compreso tra 600 e 800 euro al mese, regolato da contratti fantasiosi». Ecco, è questa la ricetta cara all’attuale compagine governativa. Tutta presa, con il neoministro del Lavoro Maurizio Sacconi, a produrre un libro verde dove per lanciare «l’economia sociale di mercato» si intende innalzare età pensionabile e far dilagare il precariato senza regole. Punire insieme giovani e anziani: questo è il vero programma del governo Berlusconi. Altroche riforme di centrosinistra, come si ascolta dalle trombe della propaganda del centrodestra.

sabato 26 luglio 2008

non si può morire (se gli altri non vogliono)


Il libero arbitrio in fatto di passaggio a miglior vita non può essere sempre applicabile, come e quando si vuole. Ne sa qualcosa un ultracentenario potentino residente a Firenze, che ieri mattina aveva deciso di farla finita. 103 inverni trascorsi (oltre alle altre stagioni) gli sembravano più che sufficienti per togliere le tende dalla vita terrena e passare ad altro. Ma qualcuno ha deciso che non era arrivato il momento. E questo qualcuno non era nell'alto dei cieli, ma più prosaicamente (e terrenamente) a cavallo: proprio due poliziotti a cavallo che passavano lungo l'Arno hanno interrotto i propositi autolesionistici del vecchietto. Lui, il suicida mancato, ha fatto quel che ha fatto perché convinto di volerlo fare. Non è stato né un incidente né un raptus di demenza senile. E' lucidissimo, e l'ha ammesso: "Sì, è vero, mi sono buttato in Arno perché volevo morire. Non voglio più campare, sono stufo". Ai soccorritori, e ai molti curiosi accorsi durante il salvataggio, ha parlato con un filo di voce. "Mi sono buttato parandomi il volto con un braccio - ha spiegato - credevo di morire subito, e invece quando ho riaperto gli occhi ho visto intorno a me tante persone". L'uomo, che non ha subito particolari conseguenze dal gesto, è stato comunque ricoverato in via precauzionale presso l'ospedale di Santa Maria Nuova. Probabilmente, dopo 103 anni, si rimetterà in sesto anche stavolta. E tornerà dov'è vissuto fino a oggi, in una struttura delle Suore Figlie delle Sacre Stigmate di via del Podestà. Nel convento lì accanto c'è sua figlia, suora. Stupore nell'istituto dove vive. La madre superiora, suor Elisabetta, lo descrive come "una persona che non ha mai dato problemi, attiva, piena di spirito, legge tantissimo. E' autosufficiente e libero di muoversi e fare come vuole". Ogni anno, l'8 gennaio, nella casa di riposo si festeggia il suo compleanno. Così fu anche tre anni fa per la festa dei 100 anni, che vide radunati anche i due figli maschi più alcuni nipoti e pronipoti. Venne festeggiato come una specie di eroe, capace di superare un traguardo ambito. Oggi, invece, il salto nel fiume. Non gli resta che armarsi di pazienza. Tanto, prima o poi, deve finire per forza.

giovedì 24 luglio 2008

una taglia non riscossa


Stranamente ci sono cinque milioni di dollari, che il Dipartimento di Stato americano aveva stanziato al fine di raccogliere informazioni utili per la cattura di Radovan Karadzic (arrestato lunedì sera a Belgrado dopo una latitanza durata ben tredici anni), che nessuno reclama. La taglia è lì, ha spiegato Gonzalo Gallegos del Dipartimento statunitense. Il funzionario ha però precisato che esponenti delle forze di sicurezza e del governo non possono richiederla. E questo collimerebbe con la versione ufficiale, che vuole l'ex leader dei serbi di Bosnia, accusato dal Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia di genocidio e crimini contro l'umanità, assicurato alla giustizia dai servizi di sicurezza serbi.
Permangono forti ombre sia sulla cattura di Karadzic, sia sui motivi per i quali la sua latitanza ha potuto protrarsi per ben 13 anni, nonostante il super ricercato non paia aver fatto troppo per passare inosservato. La sua vita da braccato tutto era, meno che riservata.
Karadzic, che si faceva chiamare Deagan David Dabic, girava con lunga barba bianca, capelli fluenti, un ciuffo nero al centro della testa candida. Teneva conferenze, spesso riprese dalla televisione, e si presentava in siti internet. Si raccontava come un esperto di medicina alternativa, versato nell'uso delle erbe mediche cinesi, dello yoga, e fautore dell'«energia del quantum umano». La maschera del guru, insomma, per celare uno degli uomini più ricercati dei Balcani.
«Aveva una vita affascinante. Si nascondeva a cielo aperto», sostiene la criminologa Leposava Kron. Radovan Karadzic, accusato col suo braccio destro militare Ratko Mladic di essersi macchiato di crimini contro l'umanità durante la guerra di Bosnia del 1992-95 e in particolare del massacro di Srebrenica, era un latitante d'un tipo diverso rispetto a Osama Bin Laden. Per lui, niente nascondigli impenetrabili. Anzi, piena visibilità e qualche sfizio.
Karadzic aveva una fidanzata, Mila, che presentava come una collega nella sua attività di medico alternativo. Frequentava un pub, Lud Kuca (Casa pazza), dove lo soprannominavano «Babbo Natale», secondo quanto racconta oggi il Guardian. Strano che in quel locale nessuno si sia accorto della somiglianza.
Tutti quelli che l'hanno frequentato in questi anni dicono di essere rimasti sconvolti dalla scoperta. «Sono rimasta scioccata quando l'ho saputo», dice la donna che gestisce un negozio vicino alla casa di via Gagarin, a Nuova Belgrado, dove Dabic abitava. Altrettanto sconvolto Goran Kojic, direttore del giornale «Vita sana», sul quale Karadzic/Dabic scriveva. E che aveva avuto solo qualche dubbio, quando il suo editorialista aveva messo scuse inverosimili per giustificare il fatto di non poter esibire documenti sulla sua identità, pare rubata a un uomo morto a Sarajevo durante la guerra.
La Serbia, che punta ad accelerare il suo processo d'adesione all'Unione europea consegnando Karadzic, si trova a dover fare i conti anche con le probabili connivenze diffuse che hanno protetto il ricercato. E anche sulla sua cattura, nei giorni scorsi, si sono susseguite indiscrezioni. D'altronde, la versione dell'imputato non collima con quella ufficiale. Karadzic, attraverso i suoi avvocati, ha detto di ritenere «una farsa» la ricostruzione di Belgrado. L'ex latitante afferma di essere stato arrestato venerdì scorso su un autobus.
C'è, poi, l'incertezza sul ruolo che avrebbero avuto i servizi segreti stranieri. Ieri il Financial Times scriveva di aver saputo da una fonte d'intelligence occidentale che i servizi stranieri avevano individuato Karadzic da alcune settimane e l'avevano segnalato a quelli serbi. Il Telegraph ieri sosteneva che si tratterebbe del servizio britannico e d'un servizio Usa. Tuttavia, fonti dei servizi britannici negano.
Tanti punti oscuri, insomma, in una vicenda che non pare essere destinata a essere chiarita in tempi brevi. C'è ancora da catturare gli altri due super-ricercati - Mladic e l'ex leader dei serbi di Krajina Goran Hadzic - e c'è da celebrare un lungo processo, nel quale Karadzic ha chiarito che intende difendersi da solo come fece l'ex presidente serbo Slobodan Milosevic, morto nel 2006, a sentenza non ancora emessa.
Karadzic dovrebbe essere trasferito all'Aia nei prossimi giorni. La difesa punta a tirarla per le lunghe, presentando appello all'ultimo giorno possibile, venerdì, mentre Belgrado spera di consegnare il detenuto il prima possibile. Diplomatici Onu ritengono che la situazione dell'estradizione dovrebbe essere sbloccata entro la prossima settimana.

martedì 22 luglio 2008

il grande orecchio (illegale) della Telecom




L'elenco degli spiati celebri spazia dalla politica, all’imprenditoria, allo sport. L’ex capo della security di Telecom Giuliano Tavaroli e il suo Tiger team hanno passato al setaccio la vita di Alessandra Facchinetti, stilista di Valentino e figlia del tastierista dei Pooh Roby, e quella del re della new economy finito in carcere Carlo Fulchir. Raccolte informazioni sull’imprenditore playboy Tommaso Buti, su Emilio Gnutti, Marcellino Gavio e Jody Vender, sul banchiere Cesare Geronzi, sull’ex ad dell’Enel Fulvio Conti e sull’onorevole Aldo Brancher. Ma nel mirino sono finiti anche il calciatore Christian Vieri, gli arbitri Massimo De Santis e Pierluigi Pairetto e l’ex direttore generale della Juve Luciano Moggi. La lista di tutti coloro che sono stati oggetto dell’intensa e redditizia attività di dossieraggio dell’ex capo della security di Telecom occupa buona parte dell’avviso di chiusura delle indagini notificato ieri ai 34 indagati (a tale proposito vi consigliamo caldamente di leggere le due puntate dell'inchiesta di Giuseppe D'Avanzo apparse ieri e oggi su la Repubblica, http://www.repubblica.it/2008/07/sezioni/cronaca/dossier-telecom/verita-tavaroli/verita-tavaroli.html e http://www.repubblica.it/2008/07/sezioni/cronaca/dossier-telecom/verita-tavaroli-2/verita-tavaroli-2.html). L’organizzazione guidata da Tavaroli, dall’investigatore privato Emanuele Cipriani, dall’ex dirigente del Sismi Marco Mancini, dall’ex agente Cia Gianpaolo Spinelli, dall’ex Sisde Marco Bernardini e dall’ex capo del Tiger team Fabio Ghioni - come si legge nel documento, http://static.repubblica.it/milano/pdf/telecom/telec_1.pdf - utilizzava «agenti e ufficiali di polizia giudiziaria in servizio permanente effettivo ovvero in congedo e attivi come investigatori privati, nonché non identificato personale in servizio presso i sistemi informativi dello Stato». Reati commessi: «Corruzione di pubblici ufficiali» per ottenere «atti di indagine clandestini e illeciti», «utilizzazione a fini patrimoniali di segreti d’ufficio», con informazioni tratte da banche dati dei ministeri dell’Interno, delle Finanze e della Giustizia, oltre che di «informazioni riservate acquisite dai servizi di informazione dello Stato italiano e di Stati stranieri». Gli uomini del Tiger team agivano anche per spiare gli avversari di Telecom. Fino «a epoca successiva al dicembre 2004 - scrivono i pm - si introducevano nel sistema informatico delle aziende telefoniche Vivo e Telmex, competitrici di Telecom Italia». Inoltre, «previa acquisizione di indirizzi di posta elettronica facenti capo alla Ribesinformatica e alla Vodafone, azienda concorrente che aveva sottratto clienti a Telecom attraverso campagne promozionali, si appropriavano dei messaggi di posta elettronica e dei files in essi contenuti». Indagate per violazione della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società anche Telecom e Pirelli, allo stesso tempo parte lesa per il reato di appropriazione indebita contestato a Tavaroli. Non avendo adottato un «modello organizzativo al fine di prevenire la commissione di reati» fino al maggio 2003 «e comunque non avendo adeguatamente vigilato sull’osservanza dello stesso, rendevano possibile che Tavaroli commettesse nell’interesse della società» diversi reati, rilevano i pm. Mai indagati e totalmente estranei all’inchiesta invece l’ex presidente e azionista di maggioranza di Telecom Marco Tronchetti Provera e l’ex amministratore delegato di Pirelli Carlo Buora. «Sono molto contento e soddisfatto della conclusione cui sono arrivati i giudici dopo tre anni e mezzo di indagine. Dopo che sono stati sentiti centinaia di testimoni, viste migliaia di carte, è emersa con chiarezza la verità. Questo è un dato estremamente importante», ha commentato Tronchetti Provera. Aggiungendo: «Sono peraltro sconcertato che continui una campagna nella quale, malgrado ogni evidenza, si cerchi di alterare la verità. Questo è davvero inaccettabile, è qualche cosa di incomprensibile». Anche se a nostro avviso c'è di ben altro di incomprensibile in questa faccenda.

domenica 20 luglio 2008

quel dito medio del senatùr...


Le cattive abitudini sono dure a morire. Soprattutto quelle del senatùr. Infatti Umberto Bossi (seppur invalidato al braccio sinistro) non rinuncia ad alzare il dito medio della mano destra quando si tratta di far capire il suo pensiero sulla bandiera italiana o su l'inno di Mameli. Nel frattempo ieri ha rinnovato la sua fedeltà alla coalizione di centrodestra e a Silvio Berlusconi, invocando anche il voto popolare per i magistrati; oggi è tornato ad allungare la mano al PD e si dice pronto ad ascoltare le idee del suo segretario Walter Veltroni. Sull'imbarcazione addobbata con i fazzoletti verdi nelle acque di Venezia, strapiena di turisti per la Festa del Redentore, il leader della Lega promette che il federalismo si farà e subito dopo si passerà a riformare la scuola. Davanti al popolo veneto, invece, si accanisce con il "Signore dell'Est" Giancarlo Galan, si scaglia contro i professori del Sud che "maltrattano" gli studenti delle scuole del Nord ("Non possiamo lasciare martoriare i nostri figli da gente che non viene dal Nord") e contro il "centralismo" e il "fascismo" di Roma. La notte passata con i "suoi" nel bacino di San Marco, ad ammirare la laguna illuminata dai fuochi d'artificio, non ha stancato il segretario nazionale della Lega Nord e ministro per le Riforme, che questa mattina, dalla sala congressi dell'hotel Sheraton di Padova dove la Liga veneta era riunita a congresso, si sfoga, si dimena, prende il microfono per tre volte e alza anche il dito medio contro la frase dell'Inno nazionale, dove si dice che "schiava di Roma Iddio la creò": "Toh" dice Bossi facendo il gestaccio. "Dobbiamo lottare contro la canaglia centralista - sostiene il ministro delle Riforme - se non è fascista questa cosa qua... Ci sono quindici milioni di uomini disposti a battersi per la libertà. O otterremo le riforme oppure sarà battaglia e ce la conquisteremo. Dobbiamo lottare contro questo Stato fascista". Poco prima Bossi era tornato sul tema chiave delle riforme: dopo aver assicurato ieri sera di non essere intenzionato a "scaricare gli alleati", oggi dice che per il dialogo con l'opposizione "c'è spazio". "Siamo pronti ad accogliere le loro proposte anche sul federalismo. Da parte nostra non ci sarà una chiusura al PD e a Veltroni. Da ieri - spiega Bossi - non mi sono ancora sentito con Berlusconi, che mi sembra abbia altro da fare in questo momento". Non crediamo si riferisse ad un eventuale, ennesimo "incontro" con il ministro delle Pari Opportunità. Ma a parte ciò, prima o poi qualcuno dovrà pur dirglielo a Bossi dove se lo deve mettere quel dito...

sabato 19 luglio 2008

l'Italia ostaggio del caimano


Il presidente del Consiglio in carica sta preparando le valigie. Purtroppo non per varcare il portone di san Vittore ma per recarsi nel suo buen retiro di Villa Certosa a Porto Rotondo, per godersi le meritate (dice lui) vacanze. Ha lavorato come un metalmeccanico al tornio, come un extracomunitario sotto il sole cocente a raccogliere pomodori, e quindi deve giustamente riposarsi. In aggiunta ha dovuto anche occuparsi di quelle leggi e leggine che ne salvaguardavano la sua incolumità, e non è stato certo un lavoro di poco conto. Da quanto afferma lui, però, più passa il tempo (e sono trascorsi quasi 15 anni dalla sua discesa in campo) più si sente rinvigorito. Addirittura si paragona ad un Brunello di Montalcino, anche se a noi pare più un aceto andato a male. Ci siamo accorti che tante cose sono cambiate (in Italia e nel mondo) in questo quindicennio targato caimano: tutto meno lui, sempre più caimano e sempre meno statista. E leggendo l'articolo di oggi su l'Unità del direttore Antonio Padellaro, la nostra sensazione viene prontamente suffragata e confermata. L'articolo, davvero interessante, s'intitola "Quindici anni dopo" e ve lo consigliamo caldamente. Buona lettura. Forse dovremmo essere sinceramente grati al senatore Gasparri che ha definito una «cloaca» il Csm. Perché proveremo a spiegarlo partendo da un articolo pubblicato su Internazionale a firma Salvatore Aloïse, corrispondente della tv franco-tedesca Arte. Opportunamente il collega ci ricorda che giusto quindici anni fa, quando Silvio Berlusconi annunciò alla Stampa estera, a Roma, la sua discesa in campo, «Bill Clinton stava per completare il suo primo anno alla Casa Bianca; l’Unione Sovietica era finita da poco e in Russia Putin era ancora il vicesindaco di San Pietroburgo; Tony Blair era un giovane deputato laburista rampante; Internet era agli albori, le videocassette erano in splendida forma e i telefoni cellulari erano aggeggi pesanti e molto esclusivi». Possibile, si chiede Aloïse, che tutto sia cambiato e che solo in Italia tutto sia rimasto fermo? Possibile che il dibattito politico debba, ancora, concentrarsi su come ottenere l’immunità del premier? E debba, ancora, lasciare il passo ai problemi che affliggono l’intero Paese come i tempi biblici della giustizia o l’arrancare delle famiglie per arrivare a fine mese o la perdita di competitività dell’economia o l’arretratezza della scuola?Purtroppo, aggiungiamo noi, se in questo quindicennio l’Italia è sembrata paralizzata dal maleficio lo stesso forse non può dirsi per i protagonisti di questa che assomiglia tanto a una brutta favola. Protagonisti che invece sono cambiati ma, temiamo, in peggio. Non parleremo, però, del «caimano» dalla spessa corazza e dalla sorprendente vitalità ma di chi, come noi, a volte si sente come estenuato, sfibrato, scoraggiato nel dovere fronteggiare una presenza che, lustro dopo lustro, si presenta in forma sempre più aggressiva e sempre più ostile. Nessuno spirito di resa ma quindici anni dopo l’avvento di Berlusconi e del berlusconismo lo stare all’opposizione - soprattutto quella che abbiamo dentro come sentimento di reazione all’ingiustizia e prepotenza - ci porta invariabilmente a ripercorrere gli stessi passi, a dire le stesse parole e a pensare gli stessi pensieri di allora. Anche l’avversario, si dirà, vive la stessa coazione a ripetere. Con la non piccola differenza che loro è il potere e loro sono le leggi. La cronaca di questi giorni può spiegare meglio questo strano stato d’animo. Chiediamoci, per esempio, se piazza Navona è andata come è andata per una sorta di overdose dell’indignazione. Dieci o anche cinque anni fa era sufficiente raccontare le leggi vergogna per quello che sono. Ma oggi solo l’insulto e la deriva verbale sembrano, per alcuni, l’unica reazione possibile al regime soffocante. Quindici anni fa, ai tempi di Mani Pulite, la carcerazione di uomini politici con l’accusa di corruzione veniva salutata dal plauso dell’opinione pubblica, perfino davanti all’uso eccessivo delle manette. Cinque anni fa di manette se ne vedevano fortunatamente di meno, ma nei sondaggi d’opinione la popolarità della magistratura era sempre elevata. Oggi può capitare che un arresto eccellente susciti subito dubbi e perplessità. E anche quando la procura parla di prove schiaccianti ciò non basta a togliere di mezzo il sospetto che dietro possa esserci un qualche complotto. Intendiamoci, meglio così se la molla è quella della prudenza visto che in gioco c’è la dignità delle persone e non si distrugge una vita per un’indagine sbagliata. Ma è anche possibile che questo diverso atteggiamento nasca da una specie di assuefazione o peggio di rassegnazione rispetto al moltiplicarsi dei reati e alla prevalente impunità di chi delinque. Su questo rischio ha scritto pagine memorabili Paolo Sylos Labini, grande economista e paladino della società civile di cui sentiamo forte la mancanza. A proposito di un diffuso e deteriore senso comune egli scriveva non troppo tempo fa che spesso gli italiani giustificano la disonestà sostenendo che non pochi manigoldi sono simpatici. Supposto che sia così, è giusto che dei «simpatici» manigoldi rendano la vita sociale ripugnante? Lui stesso, del resto, aveva sentito persone considerate per bene giustificare le loro malefatte con l’atroce formula del «così fan tutti», che implica la perpetuazione del malaffare. A questo punto il professore ricordava che era la stessa dichiarazione fatta nel Parlamento inglese dal primo ministro Walpole intorno al 1730, «qui ogni uomo ha un prezzo», durante il lungo periodo in cui l’Inghilterra era una Paese profondamente corrotto, pantano da cui uscì attraverso lacrime e sangue. E allora è strano che non essendoci più un Sylos Labini, a scuoterci dal torpore che ogni tanto ci assale ci pensino uomini di tutt’altra pasta come il capo dei senatori del PdL Gasparri. Costui, un eroe dei nostri giorni, ha saputo saldare mirabilmente la lusinga verso il capo con lo stile squadrista che gli è congeniale. Il Csm «cloaca» (il Consiglio Superiore della Magistratura presieduto, ricordiamolo, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) è la traduzione in un linguaggio primitivo delle celebre invettiva mussoliniana del parlamento ridotto a un bivacco di manipoli. Ogni epoca ha il fascista che si merita. A noi è capitato Gasparri che tuttavia ringraziamo per averci bruscamente ricordato che in Italia si sta combattendo una battaglia decisiva per la difesa della democrazia. E che non lasceremo a metà, dovessimo metterci altri quindici anni.

giovedì 17 luglio 2008

i "diktat" (fuori luogo) del governo Berlusconi


Non ci si abitua mai alla critica e alla democratica contestazione. Chi ha in mano lo scettro del comando si crede giudice unilaterale e supremo dei destini del Paese e dei suoi abitanti. E non vuol sentire ragioni. E non ammette repliche. Chi comanda fa orecchie da mercante alle proteste civili e condivisibili di chi, stando all'opposizione, non gradisce il modo di governare della maggioranza. Non si può pretendere il "dialogo" solo e soltanto quando conviene, rifiutandolo quando si capisce che chi sta dall'altra parte non è così accondiscendente (e fesso) come si vorrebbe. Questa in parole povere la situazione del governo berlusconiano. Un "diktat" continuo, basato sulla richiesta della "fiducia" nelle votazioni per blindare le decisioni (il più delle volte improponibili) prese nei vari consigli dei ministri. Ministri che non osano aprire bocca o replicare al grande capo (anche quando ce ne sarebbero tutti i motivi), che preferiscono trasformarsi in zerbini e scendiletto pur di non scontentare Lui e poter quindi conservare la poltrona. Quest'analisi politica la ritroviamo stamani (per sommi capi) nell'articolo scritto da Claudia Fusani su la Repubblica, con il titolo "Tre voti di fiducia in un mese. Un governo avanti marsh" che vi vogliamo riproporre. Buona lettura. E sono quattro. Quattro voti di fiducia in due mesi. Per la quarta volta, nonostante la maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato, il governo chiede la fiducia e blinda il voto su provvedimenti che pesano e tanto. Lasciamo perdere la prima fiducia al governo, alla squadra e al programma: quella è di prassi. Ma poi, in meno di un mese, è scattata la fiducia sul decreto fiscale che prevedeva tra le altre cose il taglio dell'Ici (24 giugno); sul pacchetto-sicurezza e sulle norme per bloccare da una parte e sveltire dall'altra i processi (14 luglio); fiducia ancora, di nuovo, preannunciata stamani sul decreto che accompagna la manovra finanziaria dei prossimi tre anni. Un provvedimento importantissimo, che include misure come la Robin tax e le impronte digitali per tutti a partire dal 2010. Il governo Prodi, che al Senato non ha mai avuto una vera maggioranza, in due mesi di attività non aveva mai chiesto la fiducia. Il ministro per i rapporti con il Parlamento Elio Vito e il capogruppo del PdL Fabrizio Cicchitto si sforzano ogni volta di spiegare e giustificare il ricorso alla fiducia. La ragione è sempre la stessa: non c'è tempo da perdere con discussioni, dibattiti in aula ed emendamenti vari. Quindi, si blinda tutto, si mette la museruola al dibattito, si vota, si decide e si va avanti. Altrimenti queste misure fondamentali per la vita del Paese - dal taglio dell'Ici al decreto fiscale alla blocca processi - tutte introdotte per decreto legge e non per disegno di legge - rischiano di decadere. Insomma: bisogna approvare, e in fretta, sostiene il PdL, quindi si procede per decreti e con la fiducia. La negazione, appunto, di quella che si dice una Repubblica parlamentare. Le opposizioni sono in rivolta, stamani una volta di più, e accusano Berlusconi di "espropriare il Parlamento delle sue funzioni". Un paio di settimane fa Veltroni e Casini, i leader di PD e UDC, avevano scritto ai presidenti di Camera e Senato chiedendo di provvedere a tutelare le prerogative parlamentari, il dibattito e la discussione, le critiche ma anche la condivisione di alcuni provvedimenti. Prima di loro una lettera analoga l'aveva scritta il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Lettere morte. Governo e maggioranza continuano a chiedere il voto di fiducia. Blindare il voto dell'aula non è in questo caso un modo per coprire difficoltà interne o fratture sotterranee (che pure ci sono, ad esempio sulla giustizia, e soprattutto con la Lega) ma semplicemente il modo per sforbiciare i dibattito ed accellerare i tempi. Fare in fretta senza perdere tempo in "inutili dibattiti". L'opposizione alza la voce e parla di Parlamento "ridotto" al consiglio di amministrazione di una grande azienda. Il barricadero Di Pietro non fa che ripeterlo: "Caro signor presidente del Consiglio, in questo Parlamento non tutti siamo suoi dipendenti". Cicchitto e Bocchino si sforzano di spiegare che non è vero, che il problema sono i regolamenti parlamentari - che devono "essere modificati il prima possibile" - che allungano troppo i tempi e consentono pratiche dilatorie e ostruzionistiche. Del resto Berlusconi lo aveva detto e spiegato: "Deputati e senatori? L'importante è che ce ne siano una trentina che conoscono i regolamenti. Tutti gli altri devono solo stare lì e votare".

lunedì 14 luglio 2008

Sergio Zavoli & l'identità della sinistra




A distanza di tre mesi dall'esito (infausto) delle elezioni politiche siamo ancora qui a domandarci che fine abbia fatto la sinistra. O per meglio dire che fine abbia fatto il Partito Democratico. Ed anche cosa stia facendo, di concreto, il leader del PD, Walter Veltroni. Ce lo stiamo chiedendo ancora di più dopo gli echi ancora risonanti della manifestazione anti cavaliere della settimana scorsa, quella di piazza Navona a Roma. Dobbiamo confessare, seppur a malincuore, che non siamo molto soddisfatti del percorso politico e di opposizione del partito costituitosi nell'ottobre scorso. Non ci sentiamo molto rappresentati, nelle idee e nelle proposizioni di lotta all'attuale governo, dalla leadership e dalla classe dirigente del PD, anche alla luce dei nuovi contrasti interni, malumori e prese di posizione che ancora una volta favoriscono il gioco dell'attuale maggioranza berlusconiana. Meno male che almeno il nostro Tonino nazionale ci rincuora e ci rassicura con la sua ostinata e pervicace opposizione al nemico comune, ovvero il cavaliere. Certo, non basta, ma almeno qualcuno che si fa sentire c'è. Ed un'altra importante e prestigiosa voce che si fa largo, lanciando un messaggio preoccupante sul momentaneo stallo politico del PD è quella di Sergio Zavoli. L'articolo che ha scritto stamani per l'Unità, dal titolo "Dove abita la Sinistra", è una sorta di saggio politico assolutamente da leggere, magari con l'ausilio di qualche riflessione. La sinistra del PD si è riunita qualche giorno fa e ha lanciato - se non proprio una gomena, come si fa da una barca all’altra - un messaggio alle forze di sinistra rimaste fuori dal Parlamento. Il gesto, partito dal gruppo «A sinistra», la cui nascita ufficiale si avrà a settembre, vuole essere una franca risposta alla cosiddetta «fine della sinistra» imputata al Partito Democratico - userò i linguaggi che si sono incrociati, qua e là, dopo il voto - responsabile di una «scelta elettoralistica» tesa ad accreditare l’«immagine moderata» di un centrosinistra «liberatosi dalle sue componenti massimaliste». Fonte di indocilità così divaricanti, durante il governo Prodi, da doverle il più delle volte assorbire "con misure compromissorie che hanno finito per danneggiare tutta la coalizione", contraddicendo una delle più solenni e violate parole del suo programma: "unione". È venuto così usurandosi ulteriormente l’immagine di una sinistra che ricordava l’antica iattura della "distinzione di principio" e del praticatissimo frazionismo. Nondimeno bisognava che la parola paradigmatica, sinistra, partecipando all’intera identità del PD, non scivolasse via da una politica decisa a essere completamente se stessa, oggi identificabile nella sola sinistra salvatasi dalla propria storia: quella che ha avuto il coraggio e si è assunta la responsabilità di rappresentare un moderno socialismo riformista, ugualmente distante dai miti dell’uguaglianza e dalla realtà dei privilegi, per dedicarsi non a un ennesimo restyling, ma alla rifondazione democratica di valori non ancora al sicuro, a cominciare dalla visione di una società che difenda il lavoro, privilegi i deboli, cioè i pensionati e i giovani, tuteli il risparmio, produca risorse, incrementi la ricerca, sia rispettosa delle diversità, nutrita dai principi, dai saperi e dai sentimenti che fanno di una popolazione un popolo e di una comunità una Nazione. Non ricorro al repertorio d’obbligo, ricalcando i tratti distintivi di una sinistra che non ha soltanto la vocazione egualitaria e l’ispirazione etica, come affermava Norberto Bobbio, ma anche l’ambizione di tutelare valori altrimenti consegnati a un pragmatismo oltranzista, di mero consumo egoistico e quotidiano. I problemi incontrati dal PD, dunque, non nascevano soltanto dalla grave sconfitta elettorale, ma anche dall’aver dovuto spiegare e salvare in tempi così ristretti, seppure affidandosi a una campagna di straordinaria dedizione, fantasia e coraggio, il motivo del suo essere al mondo dopo il crollo di una colossale mitologia. Si aggiungano i colpi di maglio portati dalle leggi elettorali maggioritarie a un sistema di equilibri concepito con spirito e prospettive proporzionaliste, e inteso come garanzia democratica a salvaguardia di ogni possibile dispotismo di maggioranza. Tra un voto e l’altro ne ragionavo con Vincenzo Vita quando cominciò a dedicarsi alla "questione della sinistra" sulla base della ragionevole conclusione secondo cui se qualcosa ha la natura per essere condiviso, in politica ha il destino di non perdersi, ma anzi di incontrarsi e discutere. Anche se qui va ricordato come l’idea che nel PD andasse prendendo piede una sorta di redde rationem nasceva soprattutto a sinistra, e sia stato un modo di indebolire, allo stesso tempo, una politica e un leader. In realtà, dopo una veloce e perlopiù emotiva mareggiata di scontentezze, delusioni e disincanti, il PD stava vivendo la ripresa di un progetto destinato a misurarsi realisticamente con il risultato del voto e i materiali critici via via emergenti. Al sisma elettorale era seguito il cosiddetto fenomeno dello "sciame": vale a dire, fuor di metafora, delle verifiche e degli aggiustamenti, ma anche di qualche rivalsa oggettivamente ambigua e destabilizzante. Con le domande sull’identità del partito in cima a tutto. Si è risposto che superando, anzi, rifiutando le correnti, occorreva che il PD rappresentasse la struttura e la forma, cioè il punto di convergenza, di una partecipazione dialettica, senza riserve pregiudiziali, a una identità disegnata dalle premesse politico-statutarie del nuovo partito; pronto a ricevere anche dall’esterno, cioè da un movimentismo motivato e generoso, valutazioni, giudizi, proposte, purché corrispondenti alla natura dell’alleanza; talché ogni forza organizzata o spontanea che avesse voluto aderirvi avrebbe dovuto conformarsi all’indirizzo generale, assumendo il nome, ad esempio, di un’ "associazione", di una "fondazione", di una "rivista", di un circolo, e ciò per rispondere a propensioni, insieme, culturali e politiche. Non certo volte a coriandolizzare il partito - protagonista della vita politica nazionale, avviato a costruire la più laboriosa e difficile delle alternanze immaginate dalla nascita della Repubblica - bensì alla "moltiplicazione dei democratici", cioè nel proposito di contribuire alla definizione di un’identità a cui aggiungere un’accoglienza aperta a chi, accettando la regola programmatica, e ovviamente le convalide congressuali, non anteponga problemi di visibilità identitaria, di marginalità rappresentativa, di sperequazioni gestionali, e via così. Si chiarisce - se ancora occorresse farlo, dopo un’esplicita e leale messa a punto - l’idea di Massimo D’Alema, e poi di Rosy Bindi, secondo cui la politica non nasce più, tutta e soltanto, dentro i partiti, ma anche lungo percorsi nei quali è possibile intercettare chi intenda prendere parte a una testimonianza segnata da particolari interessi ideali, culturali e storici. In cui si riconoscano, insomma, cittadini e gruppi distanti da appartenenze strettamente di partito. Penso alle nuove generazioni, sempre più avvezze alle battaglie del pluralismo mediatico, alla velocità informativa, all’uso di Internet, al problema dell’etica personale e istituzionale, alle grandi questioni etniche, genetiche e religiose, alla definizione delle giurisdizioni: siano esse lo Stato e la Chiesa, i lavoratori e le forze sociali, la magistratura e i mass media, ma anche la parità e il merito, il riconoscimento economico e la dignità personale, il diritto al lavoro, alla sicurezza e alla solidarietà. Lontano dai populismi adescanti e generici, dalle affabulazioni universalistiche, globalizzanti e neutrali, quando ormai tutti sanno come la gran parte della realtà si formi non su premesse teoriche e teoremi astratti, ma in base a ciò che mettiamo ogni giorno, concretamente, nella nostra storia, privata e comune, cioè in relazione al mutare della realtà. Tant’è che il concetto stesso di politica - rappresentata, nella sua espressione ideologica e operativa, dai partiti - obbedisce sempre meno agli statuti fondativi, e la sinistra medesima ne è la prova, avendo dovuto assumere, proprio per il suo substrato ideologico, il carattere che di volta in volta la realtà le imponeva. Anche Zapatero, leader socialista per la seconda volta vittorioso, imposta ora il suo programma non solo sugli interessi, ma anche sulle idee, cioè sui valori, riassumendoli nel termine Ideas - un acronimo di "eguaglianza, diritti, ecologia, azione solidale". Ciò non significa abbandonarsi acriticamente ai ripudi di esperienze anche nobili, e non di rado così dolorose, né convertirsi a una nuova innocenza dell’ideologia o a una nuova euforia della politica e della storia; ma neppure voler difendere un nominalismo residuo e strumentale per rivendicare coerenze e fedeltà che a veder bene non trovano più un reale punto di riferimento. Lo fa notare su l’Unità anche Rossana Rossanda, "sgomenta da una sinistra incapace di fare i conti con un’esperienza fallita e di capire che l’URSS è implosa su se stessa, non è stata invasa dagli Stati Uniti". Di fatto una sinistra solo ideologica non esiste più: o è sociale, riconoscibile nelle scelte fatte in nome della gente, o è già scomparsa. Il pericolo è che ne derivi un senso di grave perdita per la reputazione della politica. Il PD, a questo punto, consiste e lavora nella sola area che la sinistra abbia salvato. Senza cadere in radicali sublimazioni, basterebbe credere in una coalizione riformista fondata sul rispetto delle reciproche identità; nella consapevolezza, però, che quello "democratico" è un "partito", non una federazione di correnti né una piattaforma su cui riprendere le proprie storie, ricollegandosi alle proprie ragioni e alle proprie verità. Bisognerebbe tenersi a ciò che sulla ragione e la verità postula Emanuele Severino quando scrive che "la ragione comanda di agire non avendo altro fine che la convinzione di fare ciò che ogni essere razionale deve fare, ossia ciò che è richiesto dalla legislazione universale della verità". Aggiungendo che "chi non vuole conoscerla e non vuole fare ciò che essa richiede - mentendo a se stesso o agli altri - si pone contro il principio della verità e, insieme, della morale, perché i due principi coincidono". È un modo severo di richiamare anche la politica al riconoscimento proprio di quei dati di ragione e di verità che, per esempio, assegnano al PD il compito, ma anche l’onere, di ridare una politica all’alternanza secondo il più reale e serio dei criteri, cioè attraverso l’assunzione ideale e pratica della responsabilità; pronto a rispettare, alla pari, chiunque senta di volerla veramente testimoniare. In nome di una democrazia reale, non sfigurata dalla demagogia. Senza abiure, compromessi e riserve mentali. Dalla parte del Paese, insomma.

domenica 13 luglio 2008

un bel ricordo di Gianfranco




Tra tutti i paradigmatici ricordi che in queste ultime ore stanno affollando giornali e televisioni, in occasione della scomparsa di Gianfranco Funari, abbiamo deciso di evidenziare quello che, a nostro avviso, più si avvicina alla caratterizzazione del personaggio (nonchè dell'uomo) Funari. E' un articolo-ricordo scritto per l'Unità di oggi da David Grieco (nipote di Ruggero Grieco, uno dei fondatori nel 1921 del PCI), scrittore e sceneggiatore di sinistra, che ci tratteggia un bellissimo e più che umano Funari. Vi riproponiamo integralmente l'articolo. Buona lettura. Da vivo, Gianfranco Funari non ha mai fatto niente per caso. E anche da morto, non si è smentito. Funari ha deciso di andarsene proprio adesso, all’età di 76 anni, mentre l’Italia è messa a ferro e fuoco dalle intercettazioni telefoniche su Berlusconi e Retequattro è ancora saldamente e abusivamente ancorata al pianeta Terra. Ho conosciuto Gianfranco Funari nel 94, all’alba del primo governo Berlusconi. Ho vissuto sei mesi della mia vita accanto a lui registrando le sue confidenze più riservate. Ho mandato avanti con lui un giornale, L’Indipendente, ho scritto un libro su di lui (Funari è Funari?, Bompiani 1995) che è stato sequestrato dalla magistratura appena uscito. Sono finito insieme a lui in un processo contro Berlusconi e l’ho già visto morire sul colpo a Milano, d’infarto mediatico, sotto un caldo asfissiante, in una giornata come questa dell’estate del 1994. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio del 1994, uscì un mio romanzo per Bompiani intitolato "Il comunista che mangiava i bambini". Nonostante le pressioni dell’ufficio stampa, non venni invitato a parlarne in nessun programma delle tv di Berlusconi. Sapevano che, nonostante il titolo, ero e restavo un comunista italiano convinto. L’unico ad invitarmi nella sua trasmissione, sorprendentemente, fu Gianfranco Funari. In una rubrica che tenevo sull’Unità, avevo scritto un corsivetto divertente su di lui. Funari ne aveva fatto una gigantografia che teneva appesa a una parete in camerino. Mi accolse in mutande e bretelle e mi disse: «Aoh?! Tu scrivi come un fio de ’na mignotta. Lo scriveresti un libro su di me?». Il complimento, tra romani, era inequivocabile. E io, ovviamente, accettai. Gianfanco mi raccontò per filo e per segno tutta la sua vita. La fuga da Trastevere dov’era nato, in Via Orti d’Alibert, gli undici anni trascorsi in Asia (Bangkok, Hong Kong, Singapore) dirigendo casinò ambulanti, i mediocri esordi d’attore, la scoperta della televisione, e l’orrore per la politica presa in flagrante e osservata, come mai nessuno prima di lui, dal buco della serratura. Per la televisione, Funari aveva un talento innato. Aveva capito tutto anni luce prima degli altri. Quando conduceva il suo primo programma, Torti in faccia, sulla sfigatissima Tele Montecarlo, si era fatto mettere in studio sei televisori puntati sui sei canali principali della RAI e di Berlusconi. Ogni volta che su uno di quei canali partivano i titoli di coda di un programma, lui scatenava la rissa. Andava dritto da uno dei suoi ospiti e gli diceva a bruciapelo: «Cara signora, si è accorta che quel signore lì, davanti a lei, ha insinuato che lei è una scostumata?!» La signora si risentiva all’istante e scoppiava il casino. A casa, quelli che stavano facendo zapping («ci sono sempre milioni di spettatori in transito!», così li chiamava lui) venivano irresistibilmente attratti da quel putiferio. George Carlin, un grande personaggio televisivo e opinion maker americano morto tre settimane fa, gli offrì di emigrare negli USA per fare coppia con lui. Ma lui rifiutò. Si erano aperte le porte delle televisioni importanti. Prima Raidue poi Retequattro se lo litigarono, e quindi se ne liberarono. Quando scoppiò Tangentopoli, Funari appoggiava apertamente Mani Pulite («Forza Di Pietro!», gridava tutti i giorni) e invitava Craxi, con l’acquolina in bocca, a misurarsi con lui. Naturalmente, fu cacciato via. Ma Funari, a quei tempi, era un leone. Si inventò «la televisione che non c’è» registrando su videocassetta le puntate del suo programma, con tanto di pubblicità all’interno, per regalarle a tutte le piccole televisioni locali d’Italia con la consegna di mandarle in onda in differita di pochi minuti l’una dall’altra. In questo modo, aggirò anche lui la legge Mammì e creò dal nulla una televisione nazionale che non esisteva, guadagnando cifre irripetibili. Berlusconi, che ha sempre avuto più fiuto per gli affari che per la politica, decise di riprenderselo. Ma Funari era indomabile. Tutte le mattine che il Cavaliere lo chiamava per dirgli quali politici invitare e quali domande non fargli, Funari se ne inventava una. Un giorno invitò Carlo Vizzini, allora ministro delle Poste. Berlusconi gli chiese di trattarlo con i guanti perché di lì a poco avrebbe dovuto firmargli il rinnovo delle concessioni televisive. Funari lo accolse con una velina scosciata che recava su un cuscino di velluto una penna stilografica d’oro. Vizzini impallidì e chiese: «Cos’è, questa?». «Ho deciso di farle un modesto omaggio perché so che lei presto dovrà firmare il rinnovo delle concessioni a Berlusconi. O sbaglio?». Vizzini non svenne per puro miracolo. Berlusconi andò su tutte le furie. Ma non lo cacciò. Giorno dopo giorno, Gianfranco Funari mi raccontò tutto quello che sapeva dei nuovi politici italiani venuti su con l’onda limacciosa di Berlusconi. Io registrai parola per parola. Parole spesso irripetibili. Parole non sempre verificabili. Perché Funari era cocainomane. Non me ne parlava mai, ma non chiudeva occhio e spesso spariva in bagno. Fui io a parlargliene quando mi fu chiaro che la sua rabbia verso Berlusconi era sul punto di esplodere pubblicamente. Gli dissi: «Anche tu sei attaccabile, Gianfranco. Come ti comporterai se Berlusconi ti accuserà di essere un cocainomane?». Lui mi rispose di getto, senza scomporsi: «Gli dirò: Cavaliere, si ricorda di tutto quello che abbiamo fatto insieme?» Io rimasi di sasso; e con me il suo regista, Ermanno Corbella, che era con noi quella notte in un albergo milanese. Nel giugno del’94, a Funari venne offerto di dirigere un giornale agonizzante, L’Indipendente. Lui disse: «Che famo, lo piamo?». Io risposi: «L’hanno offerto a te, io che c’entro?». «Il giornalista sei tu», sentenziò. E fu così che facemmo la nostra prima riunione di redazione insieme al direttore che trovammo, un bravo collega che si chiama Luigi Bacialli. Funari fece un giornale assurdo, un giornale terra terra come non se ne erano mai visti, e ottenne un successo crescente. Dopo poche settimane, una giovane redattrice smascherò una delle tante bugie quotidiane di Berlusconi a cui non eravamo ancora abituati. Funari sfidò prontamente il Cavaliere a ristabilire la verità in un programma televisivo. Berlusconi non accettò mai la sfida. Ma tre giorni dopo, Funari era stranamente chiuso a chiave nel suo ufficio. La segretaria mi disse che stava parlando con Berlusconi. Quando uscì, aveva bastone e cappello. Salutò per sempre tutta la redazione. Una volta scesi in garage, mi raccontò come era andata: «Berlusconi m’ha detto: piantala di rompere coglioni, sono il presidente del Consiglio, non te lo dimenticare». Il Gianfranco Funari impavido che tutti conoscevano morì quel giorno. Non attaccò più nessuno e continuò a fare le sue leggendarie telepromozioni col pollice infilato nei barattoli di conserva («Aoh! Questa è proprio come la faceva mi madre!») fino alla scadenza del suo contratto con Retequattro. Intanto, io buttai giù il mio libro "Funari è Funari?". Quando gli sottoposi le bozze, voleva tagliare tutto. Dopo lunghe battaglie, sono riuscito a limitare i danni. Ma buona parte delle cose tagliate le feci pubblicare dal magazine Sette del Corriere della Sera sotto forma di anticipazioni. Si scatenò la fine del mondo. Mi cercarono tutti i giornali. Ma mi cercò soprattutto la magistratura, che voleva le registrazioni dei colloqui con Funari per metterle agli atti nel processo sull’acquisizione fortemente sospetta delle frequenze di Telepiù da parte di Berlusconi. Io risposi loro che avevo consegnato i nastri alla casa editrice, proprio perché non me la sentivo di custodirli io. La casa editrice negò fermamente. Il magistrato mi chiese solenne: «Lei è proprio sicuro che mi sta dicendo la verità?». Io dissi sì senza esitare. Un attimo dopo, il magistrato mandò i carabinieri in via Mecenate a Milano e fece sequestrare il palazzo della Rizzoli con tutti gli impiegati che si trovavano dentro. A tarda sera, i nastri delle registrazioni vennero fuori come per magia. E subito dopo, il volume "Funari è Funari?" sparì dalle librerie.

sabato 12 luglio 2008

da "rialzati, Italia" a "salvati, Italia"




A volte più delle parole possono gli slogan. Una semplice e brevissima frase dà l'idea del pensiero contenuto nello slogan stesso. E' stato così durante la campagna elettorale vincente del caimano, è così durante la campagna post-elettorale del Partito Democratico e di Walter Veltroni in particolare. Il segretario del PD ha apposto a Prato la prima firma di "Salva l’Italia", la petizione lanciata contro il governo Berlusconi. L’appuntamento finale sarà la manifestazione in programma il 25 ottobre, quando il PD porterà in piazza migliaia di persone per manifestare contro le politiche del governo Berlusconi. Ma il battesimo di Prato è stato per Veltroni un’ulteriore occasione per parlare dei fatti di queste ultime settimane: la manifestazione di piazza Navona, il lodo Alfano, il decreto sulla sicurezza e la Robin tax. Intanto sull’inizio della raccolta delle firme il segretario del PD ha ribadito: "Oggi è la prima firma ma già da stamani sul sito hanno aderito 3500 persone. La petizione unisce la preoccupazione per le regole del gioco con la forte sottolineatura dell’emergenza sociale del Paese. In un’Italia in cui da mesi si parla solo dei problemi del presidente del Consiglio noi vogliamo parlare di occupazione, salari, delle tasse che aumentano anziché diminuire, dei tagli alle forze dell’ordine cioè di problemi di cui si parla nelle case degli italiani". Prima una riflessione sulla Robin tax che Veltroni non esita a definire l’ennesima presa in giro per gli italiani: "C’è un ministro che pensa di essere Robin Hood: ma sapete di 5 miliardi derivanti dalla Robin Hood Tax quanti vanno ad aiutare i poveri? Duecento milioni".
Ancora una volta con la sua ironia Veltroni ha osservato che si tratta dei soliti annunci demagogici della maggioranza ai danni dei cittadini italiani. Così come il decreto sulla sicurezza, un’altra questione su cui il centro destra ha gettato fumo negli occhi. Veltroni ha ricordato senza mezze misure che il PD è orientato a votare contro il decreto sicurezza perchè "ha ancora fortissime contraddizioni. Al tempo stesso, esprimiamo soddisfazione per aver smascherato il gioco lodo Alfano-blocca-processi, e per aver fatto saltare una norma che avrebbe paralizzato la giustizia italiana". "A conferma di ciò - ha detto Veltroni - appena approvato il Lodo Alfano l’emendamento blocca processi è stato cancellato" perché quell’emendamento "non era fatto per il Paese ma per una persona sola, che è quella tutelata dal Lodo Alfano".
Poi il segretario è intervenuto ancora una volta sulla manifestazione di Piazza Navona e su Di Pietro: "Da Di Pietro non accetto lezioni di etica pubblica e di correttezza, avevamo detto che avremmo fatto un gruppo unico e poi ha cambiato idea, ma un impegno preso va rispettato". Sul popolo che ha manifestato a piazza Navona, Veltroni ripete che va rispettato perché "quella piazza era fatta di persone perbene ma dal palco c’è chi ha attaccato quel magnifico garante che è Napolitano, il PD e anche il Papa. Per quelle persone che sono andate in quella piazza ho rispetto, ma non ho rispetto per chi ha cercato di utilizzarle e che ha fatto discorsi del tutto inaccettabili". Secondo Veltroni quella piazza non ha fatto altro che fare un grande regalo a Berlusconi.
Prima di chiudere ancora una riflessione su Grillo: "Prima di accettare lezioni voglio vedere il curriculum di Beppe Grillo, sapere cosa ha fatto per le persone che soffrono, quali battaglie civili ha condotto".
Veltroni ritorna sul PD per ricordare a tutti che si tratta della più grande forza riformista e al riguardo, prende spunto anche da alcuni recenti titoli apparsi su il Sole 24 Ore che invitavano a voltare pagina, a cambiare i temi dell’agenda politica visto che "per la prima volta c’è una grande forza riformista al 34%, un dato da cui partire per allargare e costruire il partito". Veltroni concorda che è proprio "da qui che bisogna partire con serenità e fiducia perché dobbiamo uscire dal passato". Intanto nel futuro immediato del PD, Veltroni ricorda a tutti che da martedì prossimo la Direzione nazionale darà il via al tesseramento, e annuncia che subito dopo l’estate riprenderà il giro per l’Italia in pullman.

giovedì 10 luglio 2008

il Paese visto da Giorgio Bocca




Era da tempo che aspettavamo un articolo di uno dei nostri giornalisti preferiti, vale a dire Giorgio Bocca. E così abbiamo letto con molto piacere il suo articolo pubblicato stamane sulla prima pagina de la Repubblica, dal titolo "Il Paese senza legge", un chiaro, arguto ed intelligente riferimento al Belpaese targato Berlusconi. Vi consigliamo un'attenta lettura dell'articolo. Guardavo la festa nei giardini del Quirinale per gli atleti che vanno alle Olimpiadi: i corazzieri con l'elmo rilucente, le bandiere tricolori, il capo dello Stato affabile e paterno, i giovani atleti nel pieno della loro vigorìa, e il meglio della società civile ad assistere e applaudire un'Italia pacifica, educata, concorde nell'affettuoso rispetto per i suoi reggenti. E a un certo punto mi è parso di vivere in un sogno, di essere stato trasportato a volo in un altro Paese, in uno reale dove i giochi mafiosi sembrano quasi fatti, dove un nuovo sultanato affaristico e criminale è ormai al potere e dispone di corpi armati, di leggi ad personam, di privilegi, di impunità. Ci siamo quasi! A ciò che nella storia risorgimentale e unitaria sembrava impossibile, assurdo, da incubo: vivere in uno Stato mafioso, fuorilegge, senza più una Costituzione rispettata, dove in alcune regioni è già sovvertito il rapporto fondamentale della democrazia parlamentare, il voto dei cittadini ai delegati di cui si condividono le idee, la capacità di governo, il voto democratico alle idee e alle persone meritevoli sostituito dal voto al partito di raccolta dei ricchi sempre più ricchi, dei potenti sempre più potenti, quali che siano i simboli e le bandiere dietro cui si presentano. Lo specchio magico della televisione ogni tanto riflette il Paese come è anche senza volerlo. Una recente trasmissione dalla città di Catanzaro ci ha mostrato, con una sincerità non sai se candida o perfida, che in quella città, come in molte altre al Sud come al Nord, la democrazia è un gioco delle parti indecente: che i partiti vengono scelti e scambiati in continuazione, usati per violare le leggi, ottenere privilegi, prebende, finanziamenti, per fare affari comodi e abusivi. E che tutto avviene fuori da ogni controllo legale e persino professionale. Nel linguaggio e nell'ideologia mafiosi, non a caso la parola amicizia ha sostituito le altre virtù, quali onestà, giustizia, bontà; a una persona non si chiede più di avere queste virtù impegnative, difficili, basta che sia amico. Il modo di pensare mafioso, la catena mafiosa degli amici degli amici sta sovrapponendosi ad altri caratteri italiani, nobili e meno nobili: il familismo, l'attivismo, l'anarchico e il melodrammatico, la reverenza e la sottomissione ai potenti. L'onda lunga del berlusconismo ha radici profonde in due modi di essere: il piacere di servire e il piacere di approfittare, che sono i passi obbligati verso l'autoritarismo. Chi di noi è passato per il lungo viaggio dentro i fascismi ha visto in questi anni e mesi, passo dopo passo, ripetersi il cammino verso la riduzione o la perdita della libertà: la paura borghese per ogni riformismo, il progressivo distacco dall'antifascismo come vigilanza continua, impegno continuo, il revisionismo storico presentato come rigore intellettuale per far passare la diffamazione della democrazia, le piccole e grandi viltà, i piccoli e grandi profitti di chi salta sul carro del vincitore. Passo dopo passo, goccia dopo goccia, ripetendo pedissequamente e quasi con compiacimento gli errori, le debolezze degli anni dell'avvento dei fascismi europei. Poi la marcia all'autoritarismo si è accelerata, è diventata una carica forsennata, una voglia di distruggere ogni forma della democrazia. Che vuol dire in sostanza la legge che stabilisce l'impunità non solo per i capi di Stato, ma per le più alte cariche dello Stato? Vuol dire che si annulla, che si vìola il fondamento della democrazia, la legge è uguale per tutti, come abbiamo scritto in tutti i nostri palazzi di giustizia. Le lasciamo, quelle scritte, come abbiamo lasciato per anni sui muri delle nostre case le scritte del regime? Cancelliamo l'indipendenza della magistratura, l'obbligatorietà dell'azione penale? Molti ignorano, amano ignorare che un culto assoluto e deviato della giustizia può diventare dittatura, che furono i giuristi nazisti a imporre le leggi più disumane sull'igiene razziale e sullo sterminio delle razze inferiori. Via i giudici faziosi, via le intercettazioni telefoniche che vìolano la sacra privacy. Certo, la privacy. ma chi autorizza un capo di governo a usare un funzionario della televisione di Stato per sistemare le sue amiche? E già che ci siamo, perchè non dare subito un avviso forte alla stampa che non rispetta le gerarchie, perchè non comminare subito qualche anno di galera a chi pubblica le intercettazioni? La progressione autoritaria è stata denunciata nella manifestazione romana promossa da Di Pietro e dai girotondini e disertata dal Partito Democratico che si riserva per quella da farsi in autunno. Ma se apettiamo i giorni in cui cadono le foglie forse saranno anche cadute le nostre residue libertà.

mercoledì 9 luglio 2008

qualcuna che ringrazia il cavaliere c'è...




Lo sapevamo che prima o poi qualcuna il coraggio lo trovava e ringraziava pubblicamente il cavaliere. Non tutte si limitano ad usare impropriamente la loro bocca. C'è qualcuna, come ad esempio Marta Flavi, che almeno ha il buon gusto di ammettere pubblicamente di essere stata raccomandata ma di aver declinato l'invito dopo essersi accorta della feroce concorrenza. Bontà sua (come direbbe il suo ex marito con il baffo). Spulciando così nelle conversazioni telefoniche tra il premier Silvio Berlusconi e Agostino Saccà si scopre che non si è discusso solo di giovani e promettenti aspiranti veline, attricette e sottospecie varie, ma anche di attempate signore. Tipo appunto Marta Flavi. Anche lei ha ceduto alla tentazione di chiamare Silvio e farsi raccomandare.
E' la stessa Marta Flavi ad ammetterlo in un'intervista a Vanity Fair. Il premier avrebbe proposto all'ex Direttore generale della Rai di far sostenere, alla ex signora "combina matrimoni", un provino per la soap Incantesimo. La Flavi racconta: "Ed era anche andata bene. Ma poi telefonano al mio agente e gli dicono che non mi possono prendere perché per quel ruolo c’è una raccomandata. Penso: raccomandata lei, raccomandata io, uno a uno palla al centro. Alla fine, comunque, non mi hanno presa".
"Berlusconi mi ha raccomandata e io lo ringrazio" dice la Flavi al settimanale in edicola da oggi. "Voglio ringraziare pubblicamente Berlusconi per essersi interessato a me e scusarmi con lui se gli ho procurato dei fastidi, ma non bisogna vergognarsi mai di chiedere lavoro. La sua è stata solo la telefonata affettuosa di un imprenditore che mi conosceva e mi apprezzava".
L'ex conduttrice svela anche particolari sul suo matrimonio con Maurizio Costanzo: "lavorava sempre e non gli importava di nient'altro. Oggi ho imparato che una persona non riesce in quel tipo di carriera se non è fatto così, ma allora non lo sapevo e pretendevo da lui una vita da coppia normale: vedersi la sera, un fine settimana insieme. Non è un caso che mi abbia lasciata per un'altra persona, Maria De Filippi, che è identica a lui. Hanno il lavoro come obiettivo. Insieme sono perfetti".
"L'anno scorso mi hanno offerto - conclude la Flavi - di partecipare a un reality show. Non ho mai pensato di accettare, Mi hanno offerto un milione di euro. C'è da vergognarsi, perché è uno schiaffo alla gente che fatica ad arrivare alla fine del mese". "Potresti chiedere un aiuto al tuo ex marito Costanzo?", chiede la giornalista a Marta: "Piuttosto la morte. Mi sarebbe più facile chiedere aiuto a Barack Obama". Però, che caratterino! Piccolina ma tosta.

martedì 8 luglio 2008

il giudice & il mare




Abbiamo seguito con curiosità (e anche con un pò di stizza) la vicenda di cronaca che ha coinvolto già dallo scorso mese di gennaio (ma per fatti risalenti al 2005) il giudice delle indagini preliminari di Vicenza, la dottoressa Cecilia Carreri (a sinistra nella foto), accusata di essersi inventata un doloroso mal di schiena per mettersi in aspettativa per 6 mesi e nel contempo avvistata in mezzo al mare a regatare. Sì, avete capito bene: la dottoressa non poteva presentarsi in udienza perchè non riusciva nemmeno a stare seduta sulla sua confortevole poltrona da giudice, ma poteva comunque agitarsi tra funi, rande e barre di timone per partecipare ad una regata nelle acque anglosassoni. Quando è venuto fuori l'affaire (http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/cronaca/magistrato-regata/magistrato-regata/magistrato-regata.html?ref=search) del giudice sulla cresta dell'onda (non quella della popolarità...) subito i suoi colleghi, praticanti o meno della nautica, si sono sentiti in dovere di denunciare (d'altronde è il loro mestiere) la strana malattia della dottoressa che non le impediva però una efficiente attività fisica e sportiva. La naturale conclusione dell'inchiesta ha portato alla sospensione dell'incauta eroina del mare dallo stipendio per un anno e al trasferimento ad altra sede; ma comunque proprio oggi, in un'intervista al Giornale di Vicenza, la dottoressa Carreri annuncia le sue irrevocabili dimissioni dalla magistratura. Nell'intervista l'ex giudice cerca anche di giustificarsi per il non proprio deontologico e cristallino comportamento, adducendo tra l'altro come fattore principale del suo mal di schiena (capro espiatorio di tutta la vicenda) l'aver dovuto troppo spesso guidare la macchina per portare la madre malata in Svizzera per delle terapie. Guida oggi, guida domani (non sappiamo se il mezzo usato fosse un'Ape car) la schiena ne ha risentito di tutti quei chilometri macinati, la strada non era un granchè (il pedaggio autostradale era troppo caro...) e le buche non lasciavano scampo alla sua colonna vertebrale. Alla fine il patatrac. E il medico che gli consiglia di dedicarsi alla navigazione per riprendersi (sia fisicamente che psicologicamente) e per poter tornare un domani in ufficio sana e in perfetta forma, quasi come un pesce. Certo, una considerazione ci viene spontanea farla: ma se il giudice soffriva alla schiena per i continui viaggi in auto (assentandosi di conseguenza dal proprio posto di lavoro), cosa dovrebbero fare (e dire) allora i camionisti sulle strade, i lavoratori stagionali impiegati nella raccolta dei pomodori san marzano, gli addetti ai call center, per non parlare di quelle persone che ingoiano finanche gli ovuli pieni di coca e non si lamentano mai del mal di schiena?

lunedì 7 luglio 2008

martirio mediatico


Uno di questi giorni qualcuno dei suoi dipendenti (magari il simpatico e attendibile Maurizio Belpietro) ci rivelerà che Silvio Berlusconi, a furia di subire il martirio mediatico e giudiziario, ha avuto le stigmate come Padre Pio, che in tv funziona. Chi metterà in dubbio l’evento sarà bollato come comunista, giudice o addirittura giudice comunista e verrà incriminato per vilipendio della credulità popolare. Emilio Fede cadrà in delirio esattamente come ora e dal Tg4 leverà la sua preghiera quotidiana come i muezzin. Umberto Bossi rivelerà che, quando era in coma, gli apparve Berlusconi e lo salvò firmandogli un assegno. Bruno Vespa riporterà in tv la scrivania dello storico contratto con gli italiani, che per l’occasione suderà sangue. Il Papa consentirà a Berlusconi di fondare il nuovo ordine religioso del Santo quattrino quaresimale. Mara Carfagna e le altre si faranno suore, diventando subito badesse. La signora Veronica Lario in Berlusconi chiederà il divorzio e i beni, ma si scontrerà con il dogma dell’indissolubilità del secondo matrimonio. Abbiamo deciso di iniziare questo nostro odierno post con lo spassoso pezzo, intitolato "Stigmate" scritto ieri da Maria Novella Oppo su l'Unità (nella sua rubrica "Fronte del video"), anche perchè ci sarebbe piaciuto molto scriverne uno simile sul nostro blog. Ma poi riflettevamo che alla lunga correvamo il rischio di stancare chi ci segue, riproponendo quasi quotidianamente post dedicati al cavaliere e alle sue avventure (quasi fosse una serie televisiva). Ma leggendo il pezzo della Oppo non ce la siamo sentiti di astenerci, proprio oggi che il cavaliere è impegnato con le geishe, dal dedicargli un nostro gentile e rispettoso pensiero, seppur per interposta persona (e di questo ringraziamo Maria Novella...).

domenica 6 luglio 2008

c'erano una volta le ferie...


Per chi ha superato gli "anta" (come chi vi scrive) il mese di luglio è, senza ombra di dubbio, legato ai ricordi (a volte in bianco e nero) delle sospirate vacanze dopo la chiusura della scuola. L'aria effervescente ed entusiatica che si respirava alla viglilia della partenza per le sacrosante ferie estive, ancora oggi è presente nei nostri ricordi. Non si possono certo dimenticare, alla luce poi di quanto sta avvenendo in questi ultimi anni. Proprio così: dall'entrata in vigore dell'euro le ferie stanno sempre di più scolorendo ai nostri occhi (per non parlare delle nostre tasche), diventando oramai una sorta di lusso che anno dopo anno non ci possiamo più permettere. E così, tra mutui in calo (colpa dei tassi stellari), sempre meno prestiti per auto e la scure della Robin Tax che minaccia i profitti del credito, anche le banche si sono messe a fare i conti con la crisi e a capire che le vacanze degli italiani possono diventare un affare (per loro, naturalmente). E per esorcizzare lo spettro della recessione, alcune di esse si sono gettate a capofitto nel nuovo e lucroso sport nazionale: quello di finanziare a rate le vacanze agli italiani. È vero che i nostri portafogli sono sempre più in rosso, ma è anche vero che quasi nessuno d’estate rinuncia a una piccola vacanza: secondo Federalberghi (http://www.federalberghi.it/home.asp) saranno 23 milioni gli italiani che dormiranno almeno una notte fuori casa da giugno a settembre. E così Deutsche Bank, Unicredit, Banco Popolare, Findomestic, Bnp Paribas e Intesa Sanpaolo hanno fiutato il business: prestare soldi a chi vuol andare in vacanza fino a proporre (spesso d’accordo con le agenzie turistiche) interi pacchetti preconfezionati. Insomma le banche s’improvvisano tour operator a 360 gradi. Anziché l’intera vacanza, il prestito può riguardare solo hotel, volo aereo (sia di una compagnia di bandiera che low cost), una crociera o un lungo viaggio in treno, come l’Interrail. La nuova frontiera del credito al consumo è esplosa proprio quest’anno: il mercato delle vacanze a rate nel 2008 potrebbe raggiungere tra i 400 e i 500 milioni di euro e nei prossimi anni il fatturato potrebbe raddoppiare. Si calcola che quasi mezzo milione di italiani farà debiti pur di andare in vacanza. In genere, piccoli debiti: il finanziamento medio per un viaggio a rate varia dai mille ai 1.200 euro a persona e viene rimborsato dai sei ai dodici mesi. Le mete più gettonate dal popolo dei viaggiatori a rate sono Sharm El Sheik e le Maldive per chi ama il mare, e le capitali europee come Parigi, Madrid, Londra e Praga per chi pratica il turismo tout court. E' sempre meglio chiedere un prestito piccolo perché, comunque, il tasso medio del finanziamento non è una bazzecola: varia dall’8 al 12,50%, circa il doppio del tasso offerto per il mutuo di una casa. Ma è anche vero che alcune banche offrono viaggi a tassi zero. Per esempio, Deutsche Bank con la divisione Prestitempo, che è convenzionata con una sessantina di tour operator, offre il prodotto "Viaggi e vacanze" che contempla anche la formula a tasso zero. Una soluzione che spesso consiste in una vacanza preconfezionata, che può essere una meta poco turistica (Cambogia, Laos, ecc.) oppure un villaggio sperduto in un’isola che fatica a decollare con le prenotazioni. Insomma la banca non solo presta i soldi, ma decide anche la vacanza. Come si fa a prenotarne una? Il finanziamento lo si può chiedere direttamente in banca, presso la divisione specializzata nel credito al consumo, oppure presso un tour operator convenzionato. Di solito il 30% della vacanza si paga in contanti, il resto a rate. Le garanzie per il prestito sono tutt’altro che onerose: basta esibire la carta d’identità e l’ultima busta paga. Per chi vuol spendere di più, perché magari va in viaggio di nozze, Unicredit con lo sportello Consumer Financing ha lanciato "Prestito vacanze" che concede un finanziamento fino 5 mila euro ed è rimborsabile con un tasso medio del 7,95%. Chi vuole avere rate più basse può anche spalmarle oltre i tradizionali dodici mesi. Come? Ricorrendo anziché al prestito personale alle carte di credito revolving, che prevedono il rimborso fino a 24 mesi. Un esempio: la carta Giramondo lanciata da Ducato (Banco Popolare), in collaborazione con il tour operator Giramondo Viaggi, permette ai clienti delle agenzie affiliate in tutta Italia di pagare le proprie vacanze a rate. Una formula che spesso viene usata dai giovani, che preferiscono pagare poco per volta. Non proprio come una volta, quando non sapevamo nemmeno cosa fossero le carte revolving...