l'Antipatico

lunedì 14 luglio 2008

Sergio Zavoli & l'identità della sinistra




A distanza di tre mesi dall'esito (infausto) delle elezioni politiche siamo ancora qui a domandarci che fine abbia fatto la sinistra. O per meglio dire che fine abbia fatto il Partito Democratico. Ed anche cosa stia facendo, di concreto, il leader del PD, Walter Veltroni. Ce lo stiamo chiedendo ancora di più dopo gli echi ancora risonanti della manifestazione anti cavaliere della settimana scorsa, quella di piazza Navona a Roma. Dobbiamo confessare, seppur a malincuore, che non siamo molto soddisfatti del percorso politico e di opposizione del partito costituitosi nell'ottobre scorso. Non ci sentiamo molto rappresentati, nelle idee e nelle proposizioni di lotta all'attuale governo, dalla leadership e dalla classe dirigente del PD, anche alla luce dei nuovi contrasti interni, malumori e prese di posizione che ancora una volta favoriscono il gioco dell'attuale maggioranza berlusconiana. Meno male che almeno il nostro Tonino nazionale ci rincuora e ci rassicura con la sua ostinata e pervicace opposizione al nemico comune, ovvero il cavaliere. Certo, non basta, ma almeno qualcuno che si fa sentire c'è. Ed un'altra importante e prestigiosa voce che si fa largo, lanciando un messaggio preoccupante sul momentaneo stallo politico del PD è quella di Sergio Zavoli. L'articolo che ha scritto stamani per l'Unità, dal titolo "Dove abita la Sinistra", è una sorta di saggio politico assolutamente da leggere, magari con l'ausilio di qualche riflessione. La sinistra del PD si è riunita qualche giorno fa e ha lanciato - se non proprio una gomena, come si fa da una barca all’altra - un messaggio alle forze di sinistra rimaste fuori dal Parlamento. Il gesto, partito dal gruppo «A sinistra», la cui nascita ufficiale si avrà a settembre, vuole essere una franca risposta alla cosiddetta «fine della sinistra» imputata al Partito Democratico - userò i linguaggi che si sono incrociati, qua e là, dopo il voto - responsabile di una «scelta elettoralistica» tesa ad accreditare l’«immagine moderata» di un centrosinistra «liberatosi dalle sue componenti massimaliste». Fonte di indocilità così divaricanti, durante il governo Prodi, da doverle il più delle volte assorbire "con misure compromissorie che hanno finito per danneggiare tutta la coalizione", contraddicendo una delle più solenni e violate parole del suo programma: "unione". È venuto così usurandosi ulteriormente l’immagine di una sinistra che ricordava l’antica iattura della "distinzione di principio" e del praticatissimo frazionismo. Nondimeno bisognava che la parola paradigmatica, sinistra, partecipando all’intera identità del PD, non scivolasse via da una politica decisa a essere completamente se stessa, oggi identificabile nella sola sinistra salvatasi dalla propria storia: quella che ha avuto il coraggio e si è assunta la responsabilità di rappresentare un moderno socialismo riformista, ugualmente distante dai miti dell’uguaglianza e dalla realtà dei privilegi, per dedicarsi non a un ennesimo restyling, ma alla rifondazione democratica di valori non ancora al sicuro, a cominciare dalla visione di una società che difenda il lavoro, privilegi i deboli, cioè i pensionati e i giovani, tuteli il risparmio, produca risorse, incrementi la ricerca, sia rispettosa delle diversità, nutrita dai principi, dai saperi e dai sentimenti che fanno di una popolazione un popolo e di una comunità una Nazione. Non ricorro al repertorio d’obbligo, ricalcando i tratti distintivi di una sinistra che non ha soltanto la vocazione egualitaria e l’ispirazione etica, come affermava Norberto Bobbio, ma anche l’ambizione di tutelare valori altrimenti consegnati a un pragmatismo oltranzista, di mero consumo egoistico e quotidiano. I problemi incontrati dal PD, dunque, non nascevano soltanto dalla grave sconfitta elettorale, ma anche dall’aver dovuto spiegare e salvare in tempi così ristretti, seppure affidandosi a una campagna di straordinaria dedizione, fantasia e coraggio, il motivo del suo essere al mondo dopo il crollo di una colossale mitologia. Si aggiungano i colpi di maglio portati dalle leggi elettorali maggioritarie a un sistema di equilibri concepito con spirito e prospettive proporzionaliste, e inteso come garanzia democratica a salvaguardia di ogni possibile dispotismo di maggioranza. Tra un voto e l’altro ne ragionavo con Vincenzo Vita quando cominciò a dedicarsi alla "questione della sinistra" sulla base della ragionevole conclusione secondo cui se qualcosa ha la natura per essere condiviso, in politica ha il destino di non perdersi, ma anzi di incontrarsi e discutere. Anche se qui va ricordato come l’idea che nel PD andasse prendendo piede una sorta di redde rationem nasceva soprattutto a sinistra, e sia stato un modo di indebolire, allo stesso tempo, una politica e un leader. In realtà, dopo una veloce e perlopiù emotiva mareggiata di scontentezze, delusioni e disincanti, il PD stava vivendo la ripresa di un progetto destinato a misurarsi realisticamente con il risultato del voto e i materiali critici via via emergenti. Al sisma elettorale era seguito il cosiddetto fenomeno dello "sciame": vale a dire, fuor di metafora, delle verifiche e degli aggiustamenti, ma anche di qualche rivalsa oggettivamente ambigua e destabilizzante. Con le domande sull’identità del partito in cima a tutto. Si è risposto che superando, anzi, rifiutando le correnti, occorreva che il PD rappresentasse la struttura e la forma, cioè il punto di convergenza, di una partecipazione dialettica, senza riserve pregiudiziali, a una identità disegnata dalle premesse politico-statutarie del nuovo partito; pronto a ricevere anche dall’esterno, cioè da un movimentismo motivato e generoso, valutazioni, giudizi, proposte, purché corrispondenti alla natura dell’alleanza; talché ogni forza organizzata o spontanea che avesse voluto aderirvi avrebbe dovuto conformarsi all’indirizzo generale, assumendo il nome, ad esempio, di un’ "associazione", di una "fondazione", di una "rivista", di un circolo, e ciò per rispondere a propensioni, insieme, culturali e politiche. Non certo volte a coriandolizzare il partito - protagonista della vita politica nazionale, avviato a costruire la più laboriosa e difficile delle alternanze immaginate dalla nascita della Repubblica - bensì alla "moltiplicazione dei democratici", cioè nel proposito di contribuire alla definizione di un’identità a cui aggiungere un’accoglienza aperta a chi, accettando la regola programmatica, e ovviamente le convalide congressuali, non anteponga problemi di visibilità identitaria, di marginalità rappresentativa, di sperequazioni gestionali, e via così. Si chiarisce - se ancora occorresse farlo, dopo un’esplicita e leale messa a punto - l’idea di Massimo D’Alema, e poi di Rosy Bindi, secondo cui la politica non nasce più, tutta e soltanto, dentro i partiti, ma anche lungo percorsi nei quali è possibile intercettare chi intenda prendere parte a una testimonianza segnata da particolari interessi ideali, culturali e storici. In cui si riconoscano, insomma, cittadini e gruppi distanti da appartenenze strettamente di partito. Penso alle nuove generazioni, sempre più avvezze alle battaglie del pluralismo mediatico, alla velocità informativa, all’uso di Internet, al problema dell’etica personale e istituzionale, alle grandi questioni etniche, genetiche e religiose, alla definizione delle giurisdizioni: siano esse lo Stato e la Chiesa, i lavoratori e le forze sociali, la magistratura e i mass media, ma anche la parità e il merito, il riconoscimento economico e la dignità personale, il diritto al lavoro, alla sicurezza e alla solidarietà. Lontano dai populismi adescanti e generici, dalle affabulazioni universalistiche, globalizzanti e neutrali, quando ormai tutti sanno come la gran parte della realtà si formi non su premesse teoriche e teoremi astratti, ma in base a ciò che mettiamo ogni giorno, concretamente, nella nostra storia, privata e comune, cioè in relazione al mutare della realtà. Tant’è che il concetto stesso di politica - rappresentata, nella sua espressione ideologica e operativa, dai partiti - obbedisce sempre meno agli statuti fondativi, e la sinistra medesima ne è la prova, avendo dovuto assumere, proprio per il suo substrato ideologico, il carattere che di volta in volta la realtà le imponeva. Anche Zapatero, leader socialista per la seconda volta vittorioso, imposta ora il suo programma non solo sugli interessi, ma anche sulle idee, cioè sui valori, riassumendoli nel termine Ideas - un acronimo di "eguaglianza, diritti, ecologia, azione solidale". Ciò non significa abbandonarsi acriticamente ai ripudi di esperienze anche nobili, e non di rado così dolorose, né convertirsi a una nuova innocenza dell’ideologia o a una nuova euforia della politica e della storia; ma neppure voler difendere un nominalismo residuo e strumentale per rivendicare coerenze e fedeltà che a veder bene non trovano più un reale punto di riferimento. Lo fa notare su l’Unità anche Rossana Rossanda, "sgomenta da una sinistra incapace di fare i conti con un’esperienza fallita e di capire che l’URSS è implosa su se stessa, non è stata invasa dagli Stati Uniti". Di fatto una sinistra solo ideologica non esiste più: o è sociale, riconoscibile nelle scelte fatte in nome della gente, o è già scomparsa. Il pericolo è che ne derivi un senso di grave perdita per la reputazione della politica. Il PD, a questo punto, consiste e lavora nella sola area che la sinistra abbia salvato. Senza cadere in radicali sublimazioni, basterebbe credere in una coalizione riformista fondata sul rispetto delle reciproche identità; nella consapevolezza, però, che quello "democratico" è un "partito", non una federazione di correnti né una piattaforma su cui riprendere le proprie storie, ricollegandosi alle proprie ragioni e alle proprie verità. Bisognerebbe tenersi a ciò che sulla ragione e la verità postula Emanuele Severino quando scrive che "la ragione comanda di agire non avendo altro fine che la convinzione di fare ciò che ogni essere razionale deve fare, ossia ciò che è richiesto dalla legislazione universale della verità". Aggiungendo che "chi non vuole conoscerla e non vuole fare ciò che essa richiede - mentendo a se stesso o agli altri - si pone contro il principio della verità e, insieme, della morale, perché i due principi coincidono". È un modo severo di richiamare anche la politica al riconoscimento proprio di quei dati di ragione e di verità che, per esempio, assegnano al PD il compito, ma anche l’onere, di ridare una politica all’alternanza secondo il più reale e serio dei criteri, cioè attraverso l’assunzione ideale e pratica della responsabilità; pronto a rispettare, alla pari, chiunque senta di volerla veramente testimoniare. In nome di una democrazia reale, non sfigurata dalla demagogia. Senza abiure, compromessi e riserve mentali. Dalla parte del Paese, insomma.

2 Commenti:

  • Buonasera,anche Gramsci diceva che la verità è sempre rivoluzionaria.Quindi,ritengo che il PD debba radicarsi sul territorio e farsi portavoce dei bisogni reali della gente,naturalmente tutelando i valori di giustizia sociale,della moralità pubblica e di difesa della dignità umana,senza cedere a pulsioni demagogiche.MAURO

    Di Anonymous Anonimo, Alle 16 luglio, 2008 19:46  

  • Caro MAURO, sottoscrivo pienamente dalla prima all'ultima parola.

    Di Blogger nomadus, Alle 16 luglio, 2008 22:12  

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