l'Antipatico

domenica 13 luglio 2008

un bel ricordo di Gianfranco




Tra tutti i paradigmatici ricordi che in queste ultime ore stanno affollando giornali e televisioni, in occasione della scomparsa di Gianfranco Funari, abbiamo deciso di evidenziare quello che, a nostro avviso, più si avvicina alla caratterizzazione del personaggio (nonchè dell'uomo) Funari. E' un articolo-ricordo scritto per l'Unità di oggi da David Grieco (nipote di Ruggero Grieco, uno dei fondatori nel 1921 del PCI), scrittore e sceneggiatore di sinistra, che ci tratteggia un bellissimo e più che umano Funari. Vi riproponiamo integralmente l'articolo. Buona lettura. Da vivo, Gianfranco Funari non ha mai fatto niente per caso. E anche da morto, non si è smentito. Funari ha deciso di andarsene proprio adesso, all’età di 76 anni, mentre l’Italia è messa a ferro e fuoco dalle intercettazioni telefoniche su Berlusconi e Retequattro è ancora saldamente e abusivamente ancorata al pianeta Terra. Ho conosciuto Gianfranco Funari nel 94, all’alba del primo governo Berlusconi. Ho vissuto sei mesi della mia vita accanto a lui registrando le sue confidenze più riservate. Ho mandato avanti con lui un giornale, L’Indipendente, ho scritto un libro su di lui (Funari è Funari?, Bompiani 1995) che è stato sequestrato dalla magistratura appena uscito. Sono finito insieme a lui in un processo contro Berlusconi e l’ho già visto morire sul colpo a Milano, d’infarto mediatico, sotto un caldo asfissiante, in una giornata come questa dell’estate del 1994. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio del 1994, uscì un mio romanzo per Bompiani intitolato "Il comunista che mangiava i bambini". Nonostante le pressioni dell’ufficio stampa, non venni invitato a parlarne in nessun programma delle tv di Berlusconi. Sapevano che, nonostante il titolo, ero e restavo un comunista italiano convinto. L’unico ad invitarmi nella sua trasmissione, sorprendentemente, fu Gianfranco Funari. In una rubrica che tenevo sull’Unità, avevo scritto un corsivetto divertente su di lui. Funari ne aveva fatto una gigantografia che teneva appesa a una parete in camerino. Mi accolse in mutande e bretelle e mi disse: «Aoh?! Tu scrivi come un fio de ’na mignotta. Lo scriveresti un libro su di me?». Il complimento, tra romani, era inequivocabile. E io, ovviamente, accettai. Gianfanco mi raccontò per filo e per segno tutta la sua vita. La fuga da Trastevere dov’era nato, in Via Orti d’Alibert, gli undici anni trascorsi in Asia (Bangkok, Hong Kong, Singapore) dirigendo casinò ambulanti, i mediocri esordi d’attore, la scoperta della televisione, e l’orrore per la politica presa in flagrante e osservata, come mai nessuno prima di lui, dal buco della serratura. Per la televisione, Funari aveva un talento innato. Aveva capito tutto anni luce prima degli altri. Quando conduceva il suo primo programma, Torti in faccia, sulla sfigatissima Tele Montecarlo, si era fatto mettere in studio sei televisori puntati sui sei canali principali della RAI e di Berlusconi. Ogni volta che su uno di quei canali partivano i titoli di coda di un programma, lui scatenava la rissa. Andava dritto da uno dei suoi ospiti e gli diceva a bruciapelo: «Cara signora, si è accorta che quel signore lì, davanti a lei, ha insinuato che lei è una scostumata?!» La signora si risentiva all’istante e scoppiava il casino. A casa, quelli che stavano facendo zapping («ci sono sempre milioni di spettatori in transito!», così li chiamava lui) venivano irresistibilmente attratti da quel putiferio. George Carlin, un grande personaggio televisivo e opinion maker americano morto tre settimane fa, gli offrì di emigrare negli USA per fare coppia con lui. Ma lui rifiutò. Si erano aperte le porte delle televisioni importanti. Prima Raidue poi Retequattro se lo litigarono, e quindi se ne liberarono. Quando scoppiò Tangentopoli, Funari appoggiava apertamente Mani Pulite («Forza Di Pietro!», gridava tutti i giorni) e invitava Craxi, con l’acquolina in bocca, a misurarsi con lui. Naturalmente, fu cacciato via. Ma Funari, a quei tempi, era un leone. Si inventò «la televisione che non c’è» registrando su videocassetta le puntate del suo programma, con tanto di pubblicità all’interno, per regalarle a tutte le piccole televisioni locali d’Italia con la consegna di mandarle in onda in differita di pochi minuti l’una dall’altra. In questo modo, aggirò anche lui la legge Mammì e creò dal nulla una televisione nazionale che non esisteva, guadagnando cifre irripetibili. Berlusconi, che ha sempre avuto più fiuto per gli affari che per la politica, decise di riprenderselo. Ma Funari era indomabile. Tutte le mattine che il Cavaliere lo chiamava per dirgli quali politici invitare e quali domande non fargli, Funari se ne inventava una. Un giorno invitò Carlo Vizzini, allora ministro delle Poste. Berlusconi gli chiese di trattarlo con i guanti perché di lì a poco avrebbe dovuto firmargli il rinnovo delle concessioni televisive. Funari lo accolse con una velina scosciata che recava su un cuscino di velluto una penna stilografica d’oro. Vizzini impallidì e chiese: «Cos’è, questa?». «Ho deciso di farle un modesto omaggio perché so che lei presto dovrà firmare il rinnovo delle concessioni a Berlusconi. O sbaglio?». Vizzini non svenne per puro miracolo. Berlusconi andò su tutte le furie. Ma non lo cacciò. Giorno dopo giorno, Gianfranco Funari mi raccontò tutto quello che sapeva dei nuovi politici italiani venuti su con l’onda limacciosa di Berlusconi. Io registrai parola per parola. Parole spesso irripetibili. Parole non sempre verificabili. Perché Funari era cocainomane. Non me ne parlava mai, ma non chiudeva occhio e spesso spariva in bagno. Fui io a parlargliene quando mi fu chiaro che la sua rabbia verso Berlusconi era sul punto di esplodere pubblicamente. Gli dissi: «Anche tu sei attaccabile, Gianfranco. Come ti comporterai se Berlusconi ti accuserà di essere un cocainomane?». Lui mi rispose di getto, senza scomporsi: «Gli dirò: Cavaliere, si ricorda di tutto quello che abbiamo fatto insieme?» Io rimasi di sasso; e con me il suo regista, Ermanno Corbella, che era con noi quella notte in un albergo milanese. Nel giugno del’94, a Funari venne offerto di dirigere un giornale agonizzante, L’Indipendente. Lui disse: «Che famo, lo piamo?». Io risposi: «L’hanno offerto a te, io che c’entro?». «Il giornalista sei tu», sentenziò. E fu così che facemmo la nostra prima riunione di redazione insieme al direttore che trovammo, un bravo collega che si chiama Luigi Bacialli. Funari fece un giornale assurdo, un giornale terra terra come non se ne erano mai visti, e ottenne un successo crescente. Dopo poche settimane, una giovane redattrice smascherò una delle tante bugie quotidiane di Berlusconi a cui non eravamo ancora abituati. Funari sfidò prontamente il Cavaliere a ristabilire la verità in un programma televisivo. Berlusconi non accettò mai la sfida. Ma tre giorni dopo, Funari era stranamente chiuso a chiave nel suo ufficio. La segretaria mi disse che stava parlando con Berlusconi. Quando uscì, aveva bastone e cappello. Salutò per sempre tutta la redazione. Una volta scesi in garage, mi raccontò come era andata: «Berlusconi m’ha detto: piantala di rompere coglioni, sono il presidente del Consiglio, non te lo dimenticare». Il Gianfranco Funari impavido che tutti conoscevano morì quel giorno. Non attaccò più nessuno e continuò a fare le sue leggendarie telepromozioni col pollice infilato nei barattoli di conserva («Aoh! Questa è proprio come la faceva mi madre!») fino alla scadenza del suo contratto con Retequattro. Intanto, io buttai giù il mio libro "Funari è Funari?". Quando gli sottoposi le bozze, voleva tagliare tutto. Dopo lunghe battaglie, sono riuscito a limitare i danni. Ma buona parte delle cose tagliate le feci pubblicare dal magazine Sette del Corriere della Sera sotto forma di anticipazioni. Si scatenò la fine del mondo. Mi cercarono tutti i giornali. Ma mi cercò soprattutto la magistratura, che voleva le registrazioni dei colloqui con Funari per metterle agli atti nel processo sull’acquisizione fortemente sospetta delle frequenze di Telepiù da parte di Berlusconi. Io risposi loro che avevo consegnato i nastri alla casa editrice, proprio perché non me la sentivo di custodirli io. La casa editrice negò fermamente. Il magistrato mi chiese solenne: «Lei è proprio sicuro che mi sta dicendo la verità?». Io dissi sì senza esitare. Un attimo dopo, il magistrato mandò i carabinieri in via Mecenate a Milano e fece sequestrare il palazzo della Rizzoli con tutti gli impiegati che si trovavano dentro. A tarda sera, i nastri delle registrazioni vennero fuori come per magia. E subito dopo, il volume "Funari è Funari?" sparì dalle librerie.

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