uno statista mancato
Era da qualche anno che ci pensava. Stava perseguendo un lucido ed ambizioso disegno politico che lo avrebbe portato sul Colle più alto e alla maggiore carica istituzionale del nostro Paese. Sembrava quasi stesse giudiziosamente studiando da statista, ricorrendo anche ad un nuovo look (di parole e di gesti) nel porgersi ai suoi elettori. Ma a quanto pare tutti i suoi sforzi stanno clamorosamente naufragando e la corsa di Silvio Berlusconi alla poltrona del Quirinale si arresta per la scivolata sulla buccia di banana della "pornopolitica" (come l'ha definita lui stesso). Come direbbe Totò "Statisti si nasce, ed io lo nacqui". E come scrive giustamente stamani su l'Unità il professor Gianfranco Pasquino "Statisti non si diventa". Eccovi l'articolo. Seguire la densissima cronaca sia giudiziaria che più o meno rosa delle gesta di Silvio Berlusconi, dei suoi avvocati, dei suoi corifei e dei comunicatori amici è un’impresa quasi disperata, sicuramente disperante. Nel dinamismo che caratterizza tantissima parte della sua vita, di imprenditore e di politico, di uomo pubblico e di amante della famiglia, è difficile scorgere un filo rosso che spieghi le sue mosse in una strategia di lungo periodo che non sia quella di soddisfare la sua personale enorme vorace vanità. Naturalmente, questa vanità non può in nessun modo essere soddisfatta unicamente nell’ambito del privato e ha strabordato, sarei tentato di scrivere inevitabilmente, nel pubblico. Di qui la spiegazione della sua "discesa in campo": non soltanto salvare le sue aziende, addirittura salvare l’Italia. Come è stato autorevolmente scritto da Albert O. Hirschmann, la politica non dà la felicità, ma qualsiasi ritorno nel privato, per chi ha gustato i frutti, non soltanto della popolarità, ma del potere politico, è sempre difficilissimo e amaro. Questa considerazione vale, comprensibilmente, anche per troppi politici di professione del centro-sinistra. Silvio Berlusconi, però, è di gran lunga più in là, molto più avanti dei professionisti del teatrino della politica nel quale ha una parte da assoluto protagonista. La sua fame di potere e di visibilità è incomprimibile e si manifesta in tutte le modalità, come abbiamo visto nelle foto degli incontri internazionali e nelle conferenze stampa, compresa la modalità telefonica che leader più prudenti dovrebbero da qualche tempo sapere tenere sotto controllo, intercettazioni o no. Non sono interessato agli aspetti personali, voyeuristici e boccacceschi delle telefonate, che peraltro fanno parte quasi di una concezione di vita mai negata, intercorse per piazzare veline e dare voti sulle loro eventuali e speciali competenze. Sono, invece, preoccupato dalla sequela di forzature, di tensioni, di conflitti che quelle telefonate, da un lato, segnalano, dall’altro, producono. So perfettamente, ma non mi pare di essere in affollata compagnia, che la fattispecie più generale è costituita dall’irrisolto conflitto di interessi, ma se lo scontro politico, che, purtroppo, sta degenerando in scontro istituzionale con il Primo ministro che coinvolge il Presidente della Repubblica, la Magistratura, il Parlamento e la stampa (il quarto potere), è giunto a questi livelli, molto dipende anche dalla incomprimibile bulimia vitalistica di Silvio Berlusconi . Qualcuno vorrebbe mettere fine allo scontro procedendo a qualche scambio, più o meno virtuoso: stop immediato alla pubblicità/pubblicazione delle intercettazioni e rapida accettazione del lodo Schifani in cambio della ripresa, che sarebbe in verità un inizio, di una "normale" dialettica politico-parlamentare. Lo scambio avrebbe conseguenze politiche discutibili, ma soprattutto non ci sarebbero garanzie che verrebbe effettivamente portato ad una sua positiva conclusione. Il Presidente del Consiglio sembra volere una sorta di scontro finale, che avrebbe voluto annunciare per televisione con un "Messaggio alla Nazione" attraverso il quale regolare i conti, dall’alto della sua maggioranza, non grandissima, ma, apparentemente, fin troppo compatta, con tutte le altre istituzioni. Metterebbe a rischio, forse non del tutto consapevolmente, il delicato equilibrio fra istituzioni che caratterizza tutte le democrazie di buona qualità e che non si ritrova nella versione della democrazia che i berluscones e, purtroppo, ampia parte del loro elettorato, sembrano avallare e volere imporre come unica e autentica. No, bisogna dire e ripetere: nessuna vittoria elettorale e nessuna maggioranza parlamentare di qualsivoglia entità pongono il capo del governo al di sopra e al di fuori delle leggi, tanto meno della Costituzione. Chiamare in causa l’affare Clinton-Lewinsky significa dimenticare che il Presidente americano venne indagato per le sue menzogne e non fece mai nessuna velata minaccia contro le istituzioni che indagavano legittimamente, persino con puntiglio alquanto eccessivo, sui suoi misfatti che certamente non mettevano a rischio il quadro costituzionale Usa. Quanto a Jacques Chirac, il Presidente francese era in effetti protetto, fintantoché rimaneva in carica, da uno "scudo", ma quello scudo non era stato frettolosamente e opportunisticamente approntato dalla sua maggioranza a favore della sua persona con riferimento a reati pregressi. Altri casi di salvaguardia giuridica delle alte cariche dello Stato non mi sono noti, né mi pare vengano precisamente sbandierati dal centro-destra. Gli uomini di Stato sanno dove e quando debbono arrestarsi per il superiore bene delle istituzioni. Qualcuno ha creduto che Berlusconi volesse inaugurare la sua second life con una trasformazione sobria, serenamente e pacatamente, in uomo di Stato che si prepara per salire al Quirinale e intende mostrarsene degno. Purtroppo, non è così, ma quello che inquieta non è soltanto la futura prospettiva di un immutato Berlusconi al Quirinale. Piuttosto, è il prezzo che le istituzioni rischiano di pagare qui e adesso per cancellare le vicende giudiziarie e le avventure personali di Silvio Berlusconi lungo il cammino di quel tentativo di ascesa.
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