l'Antipatico

domenica 22 giugno 2008

il berlusconismo secondo Furio Colombo




Il tema del berlusconismo così prepotentemente ritornato alla ribalta, vuoi per le uscite ad personam del cavaliere, vuoi per i civettuoli "panama" indossati con nonchalance e vuoi anche per le "richieste" ecclesiastiche degli ultimi giorni, ha incontrato l'interesse giornalistico di uno dei nostri maitres à penser preferiti. Furio Colombo ci fa sapere, dalle colonne dell'Unità di oggi, come la pensa sul "fenomeno" del momento. Noi vi riproponiamo l'articolo (abbastanza impegnativo da leggere) nella sua interezza.
Vorrei subito chiarire. Non sto dedicando questo articolo al berlusconismo a causa del fatto che Berlusconi è improvvisamente ritornato ai toni incattiviti di quel primo non dimenticato governo, quello che ha portato l’Italia alla crescita zero ma ha garantito al primo ministro tutte le leggi di utilità e convenienza personale, ha dato un colpo durissimo - e notato nel mondo - alla libertà di stampa e ridotto prestigiosi commentatori di prestigiosi giornali a dargli sempre ragione come a Mussolini. Certo, la lettera del presidente Berlusconi, di cui ha dato compunta lettura il Presidente del Senato Schifani a un’aula di persone probabilmente stupefatte, spinge la scena della vita italiana fuori dalla Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge») e fuori dalla democrazia («La legge è uguale per tutti»). Però, onestamente, come fare a mostrare meraviglia per un leader (questa è la terza prova e la quarta volta) che ha sempre violato la Costituzione e leggi del suo Paese e ne ha imposte altre che poi sono state giudicate, a una a una, incostituzionali dalla Consulta? Ma tutto ciò senza perdere di vista i suoi interessi personali: primo, Mediaset, salvare dall’onta del satellite il soldato Fede; secondo, le intercettazioni: prigione e multe altissime per chi intercetta i sospetti di delitti odiosi pericolosi, destinati a ripetersi, e per chi, quando gli atti del processo sono legalmente e anzi doverosamente usciti dal segreto istruttorio e legalmente disponibili, osasse pubblicarli. In tutti i Paesi democratici vale il principio che «il processo è pubblico». È una garanzia per le vittime, per gli imputati, ma anche per tutti i cittadini. Avvocati e giuristi di Berlusconi hanno già dimostrato di non provare alcun imbarazzo nel cambiare le leggi di quei processi che non si sentono in grado di vincere (hanno visto le carte e conoscono la vera storia). Quanto ai giornalisti indipendenti italiani, sentite Bruno Vespa in una delle sue “rubriche” diffuse in tutta la provincia italiana: «La nuova controversia tra Berlusconi e i magistrati di Milano sembra l’ultima sgradevole puntata di una telenovela cominciata quindici anni fa, quando il Cavaliere decise di abbandonare la dura trincea del lavoro per scendere in campo nella politica. In realtà non è così (...). Il presidente che deve giudicare Berlusconi, Nicoletta Gandus, è un avversario politico. Da molti anni è una star di Magistratura democratica (...). Nel motivare la richiesta di cancellazione delle leggi Schifani, Pecorella, Cirami, Cirielli sostiene che esse sono state motivate al fine di perseguire l’interesse personale di pochi, ignorando la collettività. Si tratta di leggi che hanno devastato il nostro sistema di giustizia (...). Senza entrare nel merito di queste opinioni, può un dichiarato avversario politico giudicare in tribunale il capo del governo che combatte?» (Quotidiano Nazionale, 19 giugno). Avete capito il delitto imperdonabile in un Paese libero? Il giudice Gandus, che deve giudicare Berlusconi, non fa parte della P2. È membro di una libera, civile, legale associazione detta Magistratura democratica. Inevitabile inviare un pensiero al decoroso silenzio dei 62 arrestati e trecentocinquanta incriminati caduti tre giorni fa nella maxi-retata dell’Fbi contro i più potenti personaggi di Wall Street, portati via in manette tra due ali di operatori di Borsa che per alcuni minuti (succede di rado) hanno sospeso le contrattazioni. Nessuno di loro, personaggi del gran mondo finanziario americano, presidenti di Banche d’affari, patron celebri e celebrati di tutti i musei e gli ospedali di New York (dove alcuni hanno un reparto col loro nome) ha fiatato. Né lo hanno fatto i celebri avvocati a cui si sono affidati. Eppure sanno che, nella tradizione e prassi giudiziaria americana, alcuni giudici sono repubblicani e altri democratici. Alcuni giudici, nei distretti federali in cui questi imputati saranno giudicati sono stati nominati da Carter, alcuni da Reagan, alcuni da Clinton (che in silenzio si è sottoposto a tre diversi processi) e alcuni da uno o dall’altro dei due Bush. Ma, nella civiltà democratica, i giudici non si scelgono e non si discutono e la ricusazione è ammessa solo per legami d’affari, d’amore o di famiglia di uno dei giudici con una delle parti. Altrimenti mai, per non affrontare il famoso reato americano di “oltraggio alla Corte”, che scatta quando l’imputato, invece di lasciarsi giudicare, si mette a giudicare il giudice. Tutto ciò avviene nel Paese in cui, una volta condannati, non si va in Parlamento, si va in prigione. Particolare curioso (come si diceva una volta sulla Domenica del Corriere): tutti e quattrocento gli arrestati o incriminati di Wall Street erano sotto intercettazione da mesi. Molti dei reati contestati ai grandi di Wall Street, infatti, sono reati tipicamente telefonici, e dimostrabili solo con l’intercettazione, come l’”insider trading” (fornire a uno notizie che devono restare segrete per arricchirsi in due). E nessuno sostiene, pena il ridicolo, di essere vittima di una persecuzione politica. Chi poi, in quel Paese civile, avesse scritto, da titolare del potere esecutivo, una lettera al Presidente del Senato (istituzione legislativa) per levare accuse contro i suoi giudici (istituzione giudiziaria), avrebbe prontamente ottenuto, oltre al ridicolo (in democrazia non si può giocare il potere esecutivo contro il potere giudiziario usando il potere legislativo) una imputazione in più.
In Italia l’obbligatorietà dell’azione penale resta l’unica garanzia che potenti e prepotenti, soprattutto sul versante politico e di affari, non restino impuniti. Cito Emilio Gentile: «Nel 1922 Amendola, Sturzo, Salvatorelli presero a usare il vocabolo “totalitarismo” quando il sistema parlamentare italiano non era ancora molto dissimile dalle altre democrazie europee. Però essi osservarono come il partito di Mussolini operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di partito incompatibile con la democrazia e inevitabilmente destinato a creare un sistema totalitario» (intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 19 giugno). L’obiezione tipica è: «Ma che cosa c’è di più democratico di una valanga di voti per qualcuno noto in tutto, compresi i suoi difetti e i suoi reati?». Emilio Gentile ha una risposta interessante: «Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo è una tecnica politica che può essere applicata continuamente a una società di massa. Potrebbe accadere anche oggi: una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione». È un’affermazione limpida, logica, difficilmente confutabile se non per ragioni di fede. Ma la fede riguarda i berlusconiani. Quanto a noi oppositori, quanto a quelli di noi che vedono il pericolo del singolare totalitarismo berlusconiano, non avremmo diritto di avere i nostri Amendola, Sturzo e Salvatorelli? È con questi nomi e con queste citazioni in mente che chiedo ai miei amici Radicali del PD, della cui presenza in Parlamento sono lieto come di una garanzia: si può in questa Italia, in cui il giornalista Vespa riproduce all’istante e con convinzione indiscutibile, solo le ragioni del premier imputato; si può in questa Italia in cui il più forte ricusa giudici, accuse, processo in nome della sua forza e dei suoi voti; si può in questa Italia in cui si è già tentata, da parte dell’allora ministro Castelli, una “riforma” che mette tutti i giudici agli ordini di pochi procuratori generali; si può in questa Italia in cui l’opinione pubblica è messa a tacere dal controllo quasi totale dei media, si può introdurre una riforma «anglosassone», cioè di Paesi in cui le istituzioni sono incalzate da un’opinione pubblica bene informata e da una stampa che non dà tregua?

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