l'Antipatico

domenica 30 agosto 2009

quando la protesta diventa spettacolo (non gradito)


Hanno iniziato quelli della INNSE salendo per protesta sul carrogru. Hanno continuato i vigilantes a Roma arrampicati sull'ultimo anello del Colosseo. E poi ancora altri emuli della protesta spettacolarizzata, quella che fa accendere le telecamere anche a ferragosto mentre gli altri se ne stanno a pancia all'aria sulla sabbia o si tirano gavettoni d'acqua. Ma poi succede che qualcuno (guarda caso del Popolo della Libertà) pensa sia giunto il momento di spegnere tutto, sia le telecamere che gli ardori delle proteste. Questo qualcuno si chiama Giuliano Cazzola, ex dirigente della CGIL e ora responsabile lavoro del PdL, che riesuma la ricetta del black out e la applica agli operai che salgono sui tetti, digiunano, si barricano dentro le fabbriche per evitare che vengano chiuse. C'è un solo modo, dice Cazzola, per fermare «la deriva della spettacolarizzazione» delle lotte operaie e per far cessare «questa spirale ingovernabile»: spegnere le telecamere. Purtroppo per gli operai, il sistema mediatico, senza aspettare l'input di Cazzola, i riflettori li sta già spegnendo. L'INNSE aveva bucato la prima pagina persino del Corriere della Sera: i cinque gruisti, portati in trionfo dai compagni di lavoro, erano riusciti a togliere le tute blu dall'angolo degli eterni perdenti. I succedanei, che cercano di imitarli, si guadagnano al massimo qualche breve lancio in cronaca. E' la legge spietata del giornalismo: l'inflazione, la ripetizione, uccidono la notizia. Ciò nonostante, la lista delle lotte eclatanti si allunga: sette operai sul tetto della Lasme di Melfi, sei lavoratori chiusi in un reparto della Novico di Ascoli Piceno, scalata mordi e fuggi sul Maschio Angioino di un gruppo di operai del termovalorizzatore di Acerra. Perché lo fanno? Indubbiamente per attirare l'attenzione sui loro problemi. E per questo vengono rimproverati. Cosa davvero bizzarra: in un mondo e in un'epoca in cui tutto è spettacolo, gli operai dovrebbero essere gli unici a non pretendere i loro cinque minuti d'illuminazione catodica. Un moralismo fuori luogo, soprattutto se viene da un governo televisivo per eccellenza. Un moralismo interessato, di un governo che percepisce le lotte agostane come un anticipo del peggio che verrà in autunno. E per questo vuole silenziarle. Purtroppo il fastidio e l'incomprensione per le lotte spettacolari allignano anche a sinistra e in alcuni settori del sindacato. La ragione è semplice: mettono in piazza la debolezza e un certo menefreghismo della sinistra e del sindacato. Ma di questa debolezza e di questo menefreghismo gli ultimi a cui bisogna dare la colpa sono proprio gli operai. Loro fanno di necessità virtù. In un'azienda dove si è in cassa integrazione da un anno, l'unico sciopero possibile è quello della fame. In una fabbrica che un avventuriero sta rottamando, non resta che salire su un carroponte e restarci finché non si fa avanti un padrone decente. A tutti piacerebbe che il conflitto scorresse nei suoi binari tradizionali: scioperi per danneggiare la produzione e non la propria salute, picchetti per non far uscire le merci, tavoli di trattativa. Sono passaggi che le lotte eclatanti di quest'ultimo periodo hanno già esperito e consumato, carte che non si possono più giocare. E allora si è costretti a inventarsi, insieme al sindacato e non contro di esso, qualcosa d'altro. Sperando che funzioni. Cazzola permettendo.

venerdì 28 agosto 2009

la nuova rotta politica di Fini


Lo ammetto, fino a qualche tempo fa l'onorevole Gianfranco Fini non rientrava di certo nelle mie simpatie politiche e umane. Ma ora, soprattutto dopo le sue ultime uscite, ne sto rivalutando (e molto) la sua figura e il suo spessore intellettuale. Proprio le polemiche scatenate dai soliti lanzichenecchi del Popolo della Libertà (negata), dopo le dichiarazioni del presidente della Camera alla Festa (e non festino) del PD di Genova, mi hanno convinto che l'ex delfino di Almirante ha decisamente intrapreso una nuova rotta nel mare magnum della politica italiana. Fini dichiara che non ce l'ha con i cattolici («non ho il dono della fede») ma con i clericali. Il bersaglio è evidente: ce l’ha con buona parte del suo partito. Se vuole tratteggiare una figura di cattolico che risponde alla sua coscienza, cita provocatoriamente Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, non certo Gianni Baget Bozzo. Il presidente della Camera risponde così a chi lo accusa di voler tradire la sua storia di destra: dicendo di considerarla vecchia, superata, sorpassata, incapace di comunicare alcunché a chi, per privilegio di anagrafe, non l’ha vissuta in prima persona. Fini è stato applaudito a Genova dalla platea del PD che lo ospitava. Ma tra i ferrivecchi della politica, se la cortesia istituzionale e il garbo dell’ospite non gliel’avessero impedito, Fini avrebbe volentieri incluso la sinistra che si riconosce nel Partito Democratico. Sa di piacere ai suoi avversari perché sulla laicità e sull’immigrazione parla con un linguaggio a loro più familiare. Ma sa che la partita vera si gioca all’interno del centrodestra di cui Fini si sente parte ma che considera prigioniero se non succube («una fotocopia») della Lega, soffocato dal clericalismo, incapace di guardare al futuro, troppo soddisfatto di sé nel lucrare sulle proprie rendite di posizione. Finora questa estraneità sempre più accentuata Fini l’ha espressa attraverso distinguo, punzecchiature, proclami a difesa del Parlamento, soprassalti d’orgoglio durante la visita di Gheddafi accolto da tutti (ma non da lui) con esuberante ospitalità. Da oggi diventa arma politica esplicita, battaglia ingaggiata contro l’attuale assetto politico-culturale della maggioranza. Le parole più dure Fini le ha sì riservate alla questione dell’immigrazione (ha evocato l’ombra della «xenofobia», e persino quella della tentazione «razzista») nonché all’identità culturale della Lega, ma è sul testamento biologico che partirà la sua campagna d’autunno. È vero che, in tema di immigrazione, si impegnerà nella proposta di una legge che dia la cittadinanza agli immigrati regolari dopo cinque anni, già bollata da autorevoli esponenti della maggioranza (Gasparri) come irricevibile. Ma intanto la legge sulla sicurezza c’è, non si può tornare indietro e inoltre Fini si attribuisce il merito di averla ripulita dalla norma sui cosiddetti medici-spia. Il terreno ancora aperto è invece quellodella legge sul «fine vita». Fini può contare su un malumore diffuso anche nel centrodestra. Può contare sulla sponda del PdL. E anche su un clima collettivo meno arroventato di quello che infiammò l’opinione pubblica all’acme del caso Englaro. È il terreno più propizio per marcare una differenza più spiccata con l’attuale maggioranza e per strappare una vittoria che lo sottrarrebbe al ruolo scomodo del testimone di minoranza, coraggioso ma irrilevante. La fine dell'estate sta lasciando in eredità al partito di maggioranza (e al Pifferaio infoiato di Arcore) un profondo dissenso aperto, non certo una dichiarazione estemporanea destinata a lasciarsi inghiottire dall’ordinaria amministrazione. La fine di un’abitudine monarchica, appunto. Per il centrodestra, quasi una rivoluzione.

lunedì 24 agosto 2009

è stato bello sognare


Prima di tutto mi sembra giusto dare il bentornato a chi oggi si fosse ricollegato con il mio blog dopo la pausa (breve per la verità) di metà agosto e ringraziare per la fedeltà ancora dimostrata nel seguire i miei scritti. Leggermente arrugginito dalla mancanza sequenziale del pensiero e della scrittura (e della lettura) che negli ultimi quattro anni mi fanno da piacevole contorno nel percorso di vita, oggi al mio rientro mi vedo più incline a parlare di sogni e di fortuna che non di sciagurate opzioni di nuda e cruda realtà. L'aver accarezzato per un discreto periodo il sogno di diventare multimilionario (giocando con un notevole accanimento al Superenalotto fino al 9 di agosto) mi ha fatto librare con la fantasia e con la speranza in un mondo di fiaba, costellato di case di lusso e auto da sogno, di piscine da mille e una notte e di odalische da harem, di paradisi fiscali e non e di champagne a fiumi con le ostriche a guarnire indolenti e sonnacchiosi pomeriggi al riparo di palme e vegetazione lussureggiante. Il tutto miseramente evaporato come una bolla di sapone al mio rientro in Italia, con la notizia che un superfortunatissimo residente di Bagnone si era pappato tutto il jackpot del Superenalotto, lasciandomi costernato e deluso per la fine ingloriosa dei miei sogni di novello e attempato nababbo made in Italy. Comunque sia è stato bello sognare. E non mi è difficile immaginare come si possa sentire in questo momento il vincitore del magico sei di sabato sera. Un pò come mi sentii (con le dovute proporzioni) in quella mattinata d'inverno di tredici anni fa, quando scorrendo i risultati della domenica calcistica mi accorsi che avevo inanellato 12 risultati esatti su tredici, diventando così per la prima volta nella vita milionario (in lire) e toccando il cielo con un dito. Sembrerebbe una frase fatta ma vi assicuro che non lo è. Ancora mi ricordo (come fosse oggi) il battito accelerato del mio cuore e la salivazione azzerata mentre, per la trentesima volta, riguardavo la schedina del Totocalcio tra le mie mani non credendo ai miei occhi. Solo consegnandola al titolare della ricevitoria in cui la giocai ebbi la conferma di essere diventato neomilionario e a stento soffocai le urla di gioia che mi avrebbero praticamente consegnato all'assalto di conoscenti e amici dell'epoca che in questi casi spuntano sempre fuori come funghi. Ma ancora maggiore fu la felicità quando poco tempo dopo ebbi la possibilità di toccare con mano le banconote fruscianti da centomila lire avvolte nella tipica fascetta bancaria che certificavano la verginità delle banconote stesse. Come un automa impazzito mi recai alla prima cabina telefonica per far partecipe mio fratello dell'evento storico avvenuto. La sua incredulità era niente a confronto di quando consegnai nelle sue mani e in quelle di mia madre l'insperato bottino frutto sì della fortuna ma anche di una leggera conoscenza calcistica alla base di ogni tentativo per poter sfidare quello che all'epoca era il fatidico tredici. E se in quella domenica di gennaio un calciatore francese non avesse regalato con un suo gol nei minuti finali il pareggio al Milan la mia vita sarebbe cambiata. Forse quasi come quella dell'anonimo (almeno per ora) giocatore di Bagnone.

domenica 9 agosto 2009

buone vacanze


Anche il sottoscritto chiude qualche giorno per ferie e cerca di ritemprarsi dopo una lunga stagione costellata di post e di articoli che, a giudicare dalle visite, il più delle volte sono stati apprezzati e graditi. Faccio quindi un sincero augurio di buone vacanze ai miei lettori con la speranza di ritrovare qualcuno al mio ritorno, il 24 di questo mese. Un affettuoso saluto a tutti. Divertitevi e rilassatevi. A presto.

mercoledì 5 agosto 2009

se non è zuppa è pan bagnato


Il cambio di direzione a Libero non ha certo portato evidenti sconvolgimenti editoriali. Gianluigi Paragone (direttore pro-tempore al posto del milionario Feltri, in attesa dell'arrivo dell'antipatico per antonomasia Maurizio Belpietro nominato oggi dagli Angelucci con un compenso di 5 milioni all'anno manco fosse Kakà...) ha scritto il suo editoriale dedicandolo alla sortita della figlia del premier, Barbara, che ha concesso un'intervista a Vanity Fair non molto gradita, credo, dal paparino. Il titolo di Paragone, poi, non si discosta molto da quelli usati da Feltri: "Mi manda mammà" facendo intendere che dietro a tutto c'è la mano di Veronica, ispiratrice del pensiero della figlia. L'estratto dell'articolo del direttore di Libero la dice lunga: "I figli sono della mamma. Silvio Berlusconi amaramente ieri ne ha dovuto prendere atto. L'intervista della figlia Barbara al settimanale Vanity Fair sta a metà strada tra il predicozzo e l'avvertimento. Anche se poi in serata arriva la precisazione. Intanto però l'incendio era stato appiccato. Forte degli studi in filosofia, la figlia di Veronica vuole volare alto ma finisce per colpire in basso, sotto la cintura. Chissà come ci sguazzeranno ora quelli di Repubblica e dell'Espresso (che tra l'altro sono i competitor editoriali della berlusconiana Mondadori...), i quali non vedevano l'ora di trovare, dopo Veronica, un'altra donna di famiglia pronta a legnare sui denti il presidente del Consiglio. L'hanno trovata. Bella tipa, questa Barbara". E io direi, bel tipo questo Paragone che non ha nulla da invidiare al suo predecessore, sia nello stile che nei contenuti degli scritti e pure nei titoli strombazzati per attirare l'attenzione del lettore distratto da tette e chiappe al vento, immagini tipiche della stagione estiva sotto l'ombrellone. In buona sostanza, a Libero non è proprio cambiato niente (e credo che nulla cambierà con l'arrivo di Belpietro, anzi potrà solo peggiorare): via Feltri dentro il suo clone, che tra parentesi costa dieci volte meno. Questo è quanto ci offre oggi il panorama editoriale, appiattito e prono rispetto alle posizioni e al pensiero del Pifferaio di Arcore. Un bel quadretto, non c'è che dire. Idilliaco, magnifico. Meglio di così...

sabato 1 agosto 2009

dalla lettera del beato Vittorio (Feltri) ai suoi fedeli


Questa è proprio una chicca imperdibile. Ripropongo passo passo, a beneficio di quei lettori (e sono tanti) che non l'hanno potuto leggere, la commovente e straziante lettera d'addio, vergata da Vittorio Feltri a quello sparuto manipolo di fedeli lettori di Libero, nella quale annuncia al mondo addolorato la sua decisione di abbandonare la guida editoriale di uno dei più autorevoli quotidiani d'Italia (non crediate di leggere tra le righe un accenno del mio sarcasmo, please) per passare, anzi per ripassare, a dirigere la bibbia di casa Berlusconi, ovvero il Giornale. Proseguendo nella sua accorta politica di svecchiamento dei ranghi giornalistici, il Cavaliere richiama al capezzale del suo giornale preferito il più giovane (66 anni, ma tanto beve acqua Lilia...) dei direttori di quotidiani sulla piazza, trombando l'oramai vecchio Mario Giordano (43 anni, lui si vede che beve qualcos'altro...) a cui ha destinato un posto prestigioso, si fa per dire, alle news di Canale 5. La bellezza di questa lettera d'addio di feltri sta, a mio parere, nella paraculaggine adottata per dare il contentino ai suoi lettori: praticamente dire le stronzate di prammatica facendo credere di aver detto solo la verità. E' un pò come il direttore del quotidiano appena insediato che scrive il suo primo editoriale promettendo, garantendo, blandendo, argomentando. Tutte amenità, ripetute e corrette, con cui Feltri ha sempre contraddistinto la sua lunga carriera (mi si perdoni l'eufemismo). Ora leggetevi la sua lettera d'addio, miei cari lettori, e preparate i fazzoletti (per asciugare le lacrime provocate dalle risate ovviamente). "Cari lettori, non nascondo imbarazzo nello scrivere questo pezzo, ma lo devo scrivere; e lo faccio secondo il mio stile diretto e sbrigativo: sto per lasciare la direzione di Libero, che insieme con un drappello di temerari ho fondato nel lontano luglio del 2000. L’impresa sembrava disperata e lo era. Aprire un giornale mentre cominciava la crisi della carta stampata, e senza un soldo, poteva costarci un ricovero coatto in una struttura psichiatrica. Non rievoco le vicissitudini dei primi tempi, quando Libero vendeva poco (40 mila copie), la pubblicità non c’era e contavamo soltanto sulla buona volontà e la paura di fallire, carburanti eccezionali almeno a giudicare dai risultati ottenuti.
La svolta avvenne nell’autunno del 2001, dopo il crollo delle Torri Gemelle a New York. La proprietà della testata passò alla famiglia Angelucci e grazie al loro entusiastico e generoso sostegno riuscimmo in pochi anni a crescere (gradualmente) fino a diventare ciò che ora siamo: un grande quotidiano di opinione, riferimento per chi non sia stato inghiottito dal conformismo di sinistra. So che vi domanderete: ma se Libero va bene, come tu affermi con tanta sicurezza, ci vuoi spiegare perché gli volti le spalle? Rispondo. Me ne vado proprio per questo: non sono tipo da abbandonare la nave in difficoltà, sotto la tempesta; preferisco scendere nel momento in cui il mare è calmo e l’equipaggio e i passeggeri brindano sereni, guardano al presente e al futuro sorridendo. È un vezzo? Forse sì e vi chiedo perdono, e di comprendermi: compiuta la missione, tocca ad altri andare avanti. Come vedete non ho recriminazioni né rivendicazioni da fare. Ho un gran desiderio di cambiare, cambiare aria. Comunque non mi ritiro in pensione. Dal 24 agosto prossimo, dirigerò il Giornale. Torno a casa, la casa che ereditai da Montanelli, dove mi auguro di rendermi utile come accadde la prima volta che vi entrai. Ringrazio i lettori per avermi sempre seguito, oso dire con affetto che penso di aver ricambiato se non meritato. Ringrazio, se mi è permesso, i miei giornalisti e tutti coloro che hanno collaborato al successo di Libero, in primis la famiglia Angelucci della quale rimango a disposizione affinché gestisca con calma la successione. Vado, non scappo, sia chiaro. La vita continua e i giornali pure".