l'Antipatico

sabato 31 gennaio 2009

una Milano da sniffare, altro che da bere




Non credo faccia piacere a nessun sindaco di qualsivoglia città italiana essere ricordato come il primo cittadino a capo della comunità più "fatta" e più "sballata" dell'italico stivale. Avere certi primati non fa certo onore a chi vive e convive con cittadini additati come consumatori recordman nell'uso di sostanze psicotrope e stupefacenti, come la cocaina ad esempio. Agli inizi di questo anno (esattamente il 3 gennaio) avevo scritto un post sulla Milano da bere (http://l-antipatico.blogspot.com/2009/01/si-son-bevuti-la-milano-da-bere.html); ora sono costretto a parlare (per meglio dire, a scrivere) del capoluogo lombardo per un primato non certo invidiabile: quello appunto inerente il consumo pro capite di cocaina. E' arrivata la prova scientifica. E i numeri parlano chiaro. Quando le forze dell’ordine sequestravano droga a quintali nell’hinterland milanese o quando, come nei giorni scorsi, trenta spacciatori in un sol colpo finivano in carcere (e fra loro un assistente di polizia penitenziaria che in carcere la droga ce la portava), si avvertiva senza problemi che a Milano il consumo di droga si diffondeva come un contagio. In particolar modo con il consumo di cocaina, la micidiale polvere bianca. La prova è sulle pagine della Environmental Health Perspective degli Stati Uniti, che pubblica una ricerca internazionale, ideata da ricercatori italiani dell’Istituto Mario Negri di Milano. Analizzando le acque di scarico di grandi agglomerati urbani, dove finiscono con i liquidi organici anche le tracce residue delle droghe assunte, si riesce a stimare il consumo globale di droga di grandi comunità urbane. A confronto Londra, Lugano e Milano: per noi è un allarme da primato. Lugano è a quota 6,2 dosi al giorno per mille abitanti. Londra è anche più su: a 6,9. Ma Milano stacca tutti a quota 9,1. Più di nove dosi di cocaina ogni mille abitanti, ogni giorno, lunedì compreso. Fate il conto. No, non il conto di quanta droga, e quanto spaccio, e quanto denaro, e quanto crimine, e quanta legge e quanto carcere, e tutti gli altri quanti di questa infame ingiustizia gestita da mafie disumane. No, fate solo il conto della gente, di quanta gente. Il conto di noi, di quanti di noi. Il conto ci chiede di capire che cosa la cocaina promette nella sua seduzione, e che cosa la cocaina realizza nella sua ritorsione. Sembra (stando almeno a quanto afferma chi la conosce bene) che dia euforia, che amplifichi le capacità recettive, che riduca il senso di fatica, che annulli la fame e il bisogno di sonno, che trasmetta un senso di potenza, anzi di onnipotenza. È la magia, è la versione chimica della fiaba di Aladino. Dicono così, ma dicono anche che dura mezz’ora e poi si ripiomba nel baratro precedentemente frequentato. E gli effetti sono depressione, ansia, insonnia, disturbi psichici. E poi, tremendo e precoce, lo scivolo della dipendenza. E con la dipendenza, il circuito si avvita: viene distrutto il sistema immunitario, e paranoie e psicosi sono tragedie peggiori del buco al setto nasale che le accompagna. L’immagine di questa schiera di 'noi', che in Italia e in specie a Milano vi si incammina, ci dà grande sofferenza. Perché è un segnale di sconfitta. Si tratta anche, ormai, di giovani o giovanissimi (tre all’Ospedale San Carlo in fin di vita a Capodanno). Si tratta anche, ormai, di anziani over 60. Gli uni, forse, in fuga dalla realtà e dalla speranza, dentro la grande paura del futuro; gli altri, forse, in rivalsa illusoria ai disincanti della vita. Ma poi, costantemente, si tratta infine di gente (di "noi") senza differenza di età, senza distinzione di mestiere, di condizione sociale. Irriconoscibile, la polvere bianca contamina le relazioni umane senza preavviso, lacera la rete dei nostri vissuti, manipola i rapporti. Se un professionista si droga, chi si affida a lui si affida a un drogato. Che questo possa diventare casuale (o banale) è follia. Reagire è possibile, non per voglia di colpire, ma di costruire. La cocaina è il cancro della città. Di ogni città. La coca non aiuta a vivere, ma a morire. Se le frontiere della fatica di vivere, come quelle della speranza e della gioia, hanno territorio nello spirito e nell’amore, il cuore e la fede possono farcela a ricostruire le ragioni della vita. Basta liberarsi ricacciando le droghe (tutte le droghe) nel ricordo arcaico delle acque fognarie. L'importante è volerlo.

domenica 25 gennaio 2009

le parole di un vecchio saggio




Da un pò di giorni non postavo ed ero francamente in attesa di raccogliere qualche idea per affrontare un difficile, articolato e scivoloso argomento: quello che riguarda una sorta di apartheid nei confronti del principale sindacato italiano, la CGIL guidata da Guglielmo Epifani. L'attesa è terminata dopo aver letto sulle colonne de la Repubblica la bella intervista di Elena Polidori al nostro grande vecchio ex Presidente Carlo Azeglio Ciampi. La non più giovane età del livornese più amato dagli italiani (ha da poco compiuto 88 anni) consente ugualmente all'allenato cervello dell'ex Governatore della Banca d'Italia di sciorinare pensieri e parole con la consecutio temporum adeguata, facendo un pò impallidire le strampalate esternazioni di altri politici di rango che spesso fanno a pugni con la lingua di Dante. Le parole del vecchio saggio (http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/economia/contratti/intervista-ciampi/intervista-ciampi.html) sono tutte da leggere, incamerandole come pillole di verità (e di riconoscenza) nei confronti di una delle parti sociali italiane storicamente all'avanguardia nella difesa dei diritti dei lavoratori. Tornando alle mie personalissime considerazioni, preso atto che il Paese reale sta precipitando in una crisi senza precedenti e che il Pifferaio di Arcore continua a fare il cantastorie, mi accorgo che la politica dell'apartheid operato in quest'ultimo periodo dal governo, da Emma Marcegaglia, dal duo Bonanni & Angeletti e dai loro peones, sta sostanzialmente facendo vergognare il nostro Paese. Lorsignori invece, a differenza dei pensionati presi per i fondelli con la promessa di una mancia poi negata, non si vergognano. Anzi, siglano un accordo senza e contro la CGIL che è il sindacato più rappresentativo, dunque contro milioni di lavoratori. Un accordo che peggiora ulteriormente i salari, riducendone il potere d'acquisto. E il prossimo passo, annunciato dalla stessa compagnia di giro, è l'ennesimo attacco ai pensionati. Quelli umiliati e costretti a vergognarsi al supermercato da chi non prova vergogna. Ha ragione l'incontenibile ministro bellachioma Maurizio Sacconi: l'accordo di giovedì scorso, che sancisce la morte del sistema contrattuale nato nel 1993, ha un carattere storico. Storico, perché le regole generali che hanno un valore erga omnes non sono condivise ma imposte. Storico, perché redistribuisce la ricchezza nazionale dai salari ai profitti e alle rendite. Storico, perché viene siglato dentro una crisi che travolge il Paese reale e presenta ai più deboli il conto delle sciagurate scelte economiche, finanziarie e politiche dei più forti. Le nuove regole si traducono in poche voci fondamentali: i contratti nazionali perdono di valore così come i salari (e come le categorie sindacali) perché tutto passa in mano alle confederazioni. E' il trionfo degli enti bilaterali, già oggi un cancro della democrazia nel lavoro, etichettabile sotto la voce consociativismo. Si rimanda l'ipotetico recupero salariale ai contratti di secondo livello, quelli a cui solo una minoranza di lavoratori possono accedere. Avranno almeno la decenza, lorsignori, di sottoporre le nuove regole al giudizio vincolante dei diretti interessati, ovvero i lavoratori dipendenti? La CGIL non ha cercato la rottura, come recita la vulgata tifosa di politici e media. Al contrario, il segretario generale Guglielmo Epifani ha cercato in ogni modo di evitare uno scontro così duro dentro una crisi economica e sociale epocale. Il fatto è che i padroni e il governo, con qualche nostalgia per gli anni Cinquanta, volevano espellere dal gioco il principale sindacato sapendo che oggi, a differenza di sessant'anni fa, non solo non c'è il Partito Comunista ma neanche si intravede un'opposizione di sinistra. Il lavoro non ha rappresentanza politica, e neanche una sponda. Il Partito Democratico, che sognava l'unificazione di CGIL, CISL e UIL, oggi si divide più di quanto non lo sia già sull'accordo separato. A un attacco storico di questa portata si può rispondere solo con una straordinaria mobilitazione democratica. Pur conoscendo le difficoltà economiche e sociali in cui vivono i lavoratori, la FIOM e la Funzione pubblica CGIL hanno indetto uno sciopero generale per il 13 febbraio che si concluderà con una manifestazione unitaria a Roma. E' il primo appuntamento da segnare in agenda, per chiunque abbia a cuore la democrazia. Altri dovranno seguire. Non lasciamola sola la CGIL!! Questo non è un appello. E' un suggerimento (per quel che può contare...) di un umile blogger.

martedì 20 gennaio 2009

emozioni indimenticabili


Sono stanco. Una giornata campale, stressante, dal punto di vista lavorativo. Qualche discussione in ufficio con i colleghi, solite tensioni evitabili. Non vedo l'ora, tornando a casa, di spogliarmi, buttare alla rinfusa le mie cose da qualche parte (lo so, adesso qualche femminuccia criticherà aspramente con nerbo pseudofemminista...) e stendermi sul letto, senza neanche mangiare. Ma, quasi inavvertitamente, il telecomando del televisore è stato sfiorato dalla mia mano (era in stand by) e così l'ambiente sonoro della mia dimora si riempie con la sigla del TG1 (chissà perchè, in automatico l'accensione ti regala il primo canale). Sono le otto di sera, di una sera che è già entrata nella storia (http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/tg1_PopupVideo.html?t=20%3A00&v=http%3A%2F%2Flink.rai.it%2Fx%2Fvod%2Fnews%2F09gen%2Fasx%2F20090120203622mpo40jftg1_ed__20_00_20_01_integrale-rainet.asx). Il mio rammarico di questa giornata è stato quello di non aver potuto, causa concomitanti impegni lavorativi, seguire in diretta alle 18 su SKY il discorso d'insediamento del 44° Presidente degli Stati Uniti. Ma per fortuna, anche stando a migliaia di chilometri di distanza (e con 6 ore di fuso orario), quella maledetta/benedetta scatola magica mi permetteva di essere rapito dalle immagini, dai suoni, dai colori che entravano (seppur in registrata) dentro casa mia. Potevo ascoltare in sottofondo la voce di Barack Obama doppiata in italiano, godermi le note di una canzone dei neri d'America cantata dalla splendida voce di Aretha Franklin, vedere le riprese dall'alto della collina di Capitol Hill riverberarmi la moltitudine dei due milioni di appassionati ed emozionatissimi americani (multicolori e multirazziali) applaudire e sorridere, gioire e sperare, piangere e sospirare. E il tutto grazie ad un unico, grande uomo. L'ex senatore dell'Illinois. L'uomo della Provvidenza. L'uomo in cui tutti ripongono le più ambite e non più nascoste speranze, di pace e di serenità, di cambiamento e di ripudio della guerra. E di ogni forma di intolleranza, di sopraffazione, di violenza gratuita ed immotivata. Un uomo che oggi, proprio oggi, avrei voluto chiamare papà. Esserne orgogliosamente il figlio, perchè anch'io un giorno potessi dire: io c'ero, quel martedi di gennaio del 2009. Quel giorno in cui il mondo è cambiato. E che in fondo, sicuramente, ha cambiato anche me.

lunedì 19 gennaio 2009

buon lavoro, presidente Obama!




La data di martedì 20 gennaio 2009 resterà negli annali della Storia per l'investitura del primo Presidente degli Stati Uniti di colore, afroamericano, che incarna la speranza del mondo intero. Barack Obama avrà gli occhi del pianeta tutti per lui. Ma quello che attenderà il nuovo inquilino della Casa Bianca non sarà di certo una passeggiata di salute. Soprattutto i primi, fatidici cento giorni saranno gli indicatori inappellabili delle promesse e dei programmi dell'ex senatore dell'Illinois. Obama voleva concentrarsi sul rilancio dell'economia per evitare la depressione. Proprio come Franklin Delano Roosevelt, l'inventore della formula dei "primi cento giorni". E invece, malauguratamente, si è aggiunta in queste ultime settimane l'emergenza di Gaza, giusto per ricordare che la madre di tutte le questioni mediorientali resta sempre il conflitto tra israeliani e palestinesi, accantonato dal suo predecessore cow-boy e guerrafondaio. Tra l'altro, la crisi di Gaza ha anche sottolineato che la lunga transizione tra la data dell'elezione del Presidente degli USA (il primo martedì di novembre), e la sua entrata in funzione effettiva (la terza settimana di gennaio) è una tradizione che andrebbe abolita: questa vacatio aveva un senso al tempo delle diligenze, non certamente in quello di Internet. La maggiore potenza planetaria non può permettersi il lusso di restare per oltre due mesi con un Presidente di fatto delegittimato dal voto e non più in grado di intervenire efficacemente in una crisi domestica o internazionale. E con un Presidente benedetto dal consenso popolare, ma privo degli strumenti di decisione e di azione. E dunque Barack Obama non avrà molto tempo per il riscaldamento (per usare un'analogìa calcistica); dovrà invece entrare subito in partita e cercare rapidamente di segnare qualche gol importante, per vincere la partita. Ma per quanto la squadra di Obama sia di prim'ordine, non credo che la vittoria sia assicurata, anzi. La crisi economica non si risolve a colpi di bacchetta magica (per queste cose c'è già il Pifferaio di Arcore), nè tantomeno quella tra israeliani e palestinesi. Per non parlare dell'Afghanistan e dell'Iraq, che richiedono tempo, ritiro delle truppe e molta pazienza. Io credo che il nuovo Presidente degli Stati Uniti debba concentrarsi subito sulla chiusura (annunciata) di Guantanamo e su una giustizia equa e rapida circa i 250 reclusi rimasti. Non credo sia una lettura così stravagante la mia, come sembrerebbe di fronte alle problematiche citate. Anzi, a mio modo di vedere è l'optimum praticabile attualmente per ripulire l'immagine degli USA nel mondo. E per ripartire da lì per affrontare con prestigio le crisi che non possono essere risolte senza un ruolo attivo, dinamico e irrinunciabile da parte della superpotenza americana. Buon lavoro, Presidente Obama!

sabato 17 gennaio 2009

la disumanità della guerra


Sono stato incerto se scrivere o meno questo post dedicando qualche riflessione a quanto sta accadendo nella striscia di Gaza. L'incertezza è stata direttamente proporzionale all'inadeguatezza, culturale ed internazionale, del sottoscritto sull'argomento specifico, visto e considerato che, non avendo titolo (nè come giornalista nè come osservatore) nello scrivere di crisi internazionale e di guerre, mal si conciliava la voglia e l'esigenza di scrivere l'attuale pezzo. Voglio comunque segnalare (tanto per iniziare) il blog di Vittorio Arrigoni (http://guerrillaradio.iobloggo.com/), volontario a Gaza che, nonostante un periodo di detenzione e un foglio di via delle autorità israeliane, conclude i suoi articoli quotidiani, pubblicati anche su il manifesto, con la stessa frase: "Restate Umani". Che cosa vuol dire restare "umani"? Vuol dire, innanzitutto, non abituarsi al dolore degli altri, non bruciare tutta la propria pietà sulle fotografie dei primi bambini insanguinati, ma continuare a soffrire e a protestare, anche dopo tre settimane di guerra, anche dopo più di 1.000 morti. Vuol dire non prendere partito ciecamente, consolando se stessi con la convinzione che il torto, il male, l'odio sia tutto dall'altra parte. È difficile restare umani, di fronte alla politica delle bombe. Non tutti lo sanno compiere, questo esercizio. Non è "restare umani" palleggiarsi le vittime, usare un lutto per giustificare altri lutti. Non lo è nascondere un arsenale sotto un ospedale, ma neppure bombardare l'ospedale perché è un obbiettivo militare e chi se ne frega se è pieno di feriti. Non è "restare umani" invitare al boicottaggio "dei negozi appartenenti a membri della comunità israeliana" come, secondo Bernard Henry-Levy, è accaduto in Italia (e speriamo che non sia vero). E non è "restare umani" brandire, come un'arma di distruzione psicologica di massa, il ricordo della Shoah, con tutto il suo irripetibile orrore, per chiudere la bocca a chiunque esprima le sue critiche nei confronti della politica d'Israele, della spietatezza con cui sta trasformando in genocidio una, pur lecita, operazione di polizia contro frange terroriste di Hamas. Quello degli ebrei è un popolo ferito, martoriato. Ha diritto, per sempre, alla nostra pietà. Non alla nostra incondizionata approvazione. Almeno questo è il mio pensiero. Spero di non sbagliarmi.

giovedì 15 gennaio 2009

la (piccola) sveglia di Rossaura al PD


Immagino che neanche questa volta la mia lettrice preferita, Rossaura, sia felice di vedersi pubblicato un suo commento sotto forma di post senza averne prima curato la punteggiatura. Ma così è. Preferisco la schiettezza e la virulenza dell'impeto fumantino nello scrivere ciò che in quel momento il cervello invia piuttosto che stare lì a rimirare e a limare concetti, punti, punti e virgola e due punti (come direbbe Totò). Ergo, godetevi lo scritto della mia alter ego blogger in gonnella (il più delle volte in pantaloni, i presume...). Vignetta di Comicomix sempre un piacere trovarla. Non ho visto Ballarò, quindi non mi è facile parlare di quello che non so e non ho potuto percepire. Riuscire a parlare delle motivazioni che hanno reso il PD da un partito di grandi speranze ad una delusione atroce è difficile perchè ci sono molti punti di vista e a seconda di qual'è il pensiero di chi analizza i problemi virano. In poche parole ecco il problema. Questo partito non ha una linea perchè è iniziato mettendo insieme anime diverse, ma così tanto diverse da non poter seguire la stessa identica linea. Non ha radici storiche perchè nella fusione si sono perdute e si sono assemblate motivazioni, intendimenti, determinazioni, priorità talmente diverse che.... beh insomma ogni simpatizzante ha la sua idea di partito, ogni rappresentante ha la sua linea politica che è una cosa, ma anche un'altra..... Crozza l'ha azzeccata bene.... questa molteplicità non garantisce la democrazia, non favorisce la discussione e le analisi, questa eterogeneità ne garantisce l'immobilismo. Il povero Veltroni non è segretario di nessun partito è il leader di se stesso. Attorno a lui si tagliano teste e mai una sola volta che si prenda l'arbitrio di battere i pugni, di cacciare chi deve andarsene ormai da troppo tempo, di allontanare chi fa le pastette, di esautorare chi rema contro e sogna una rivincita. Non ha il coraggio di dire questo è un partito di sinistra, non dice questo è un partito laico, non afferma che il suo impegno è quello di difendere le libertà individuali e sociali e la democrazia, non dice che Berlusconi è un pagliaccio (ah noooo non facciamo dell'antiberlusconismo, chissà mai che qualcuno ci dia anche ragione). Si sbanda da una parte per assecondare il federalismo, ma non lo si vorrebbe fare con l'impronta leghista, ma alla fine il punto è quello: il nord, il sud e il centro. I ricchi, i poveri e i ladroni. Si sbanda dall'altra per assecondare i cattolici nessuna battaglia per il testamento biologico,per i pacs, per il laicismo fulcro determinante per un partito con linee chiare. Le belle parole della manifestazione del 25 fanno sorridere "Gli italiani sono migliori del governo che li rappresenta" e il Popolo delle primarie è migliore del partito che lo rappresenta. Un partito, ma quale partito.Se la ricetta è parlare, discutere, analizzare allora dovremo ancora aspettare molto prima che si faccia un solo atto degno di nota. Sarò pessimista, ma la delusione è stata profonda. Ciao Ross

diamo la sveglia al PD


Preciso subito che il titolo di questo mio post nulla ha a che fare con inviti a menare le mani o a rimettere le lancette di qualche padella fuori uso. L'esortazione mi viene naturale dopo aver assistito, l'altro ieri sera, alla puntata di Ballarò alla quale ha partecipato anche il segretario del Partito Democratico Walter Veltroni. Concentro la mia attenzione non tanto sul ping-pong dialettico con due espressioni di chiusura oltranzista a tutto ciò non rappresenti il feudo berlusconiano (sto parlando chiaramente di Maurizio Belpietro in primis e di Beppe Pisanu in relativa e minore misura), quanto su quello che le parole profferite dall'ex sindaco di Roma hanno provocato in chi scrive. A mio modesto parere non si può ripetere all'infinito che il Paese è maturo per un Partito Democratico, che c'è una diffusa domanda di base, senza compiere poi atti conseguenti, seri ed efficaci. "I partiti diano vita ad un nuovo soggetto unitario ma avvertano il rischio che le speranze cresciute in questi anni, che i partiti stessi hanno diffuso dando vita a una mobilitazione di popolo, diventino nuove delusioni". Era il 7 ottobre 2006 quando Pietro Scoppola (http://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Scoppola), scomparso un anno fa, da Orvieto esortava il popolo della sinistra a realizzare quella "speranza" di nuovo riformismo, di futuro per il centro sinistra, nata per il cambiamento del Paese dieci anni prima con la messa a dimora dell'Ulivo. Nel pensiero dei padri fondatori il Partito Democratico doveva unire riformismi dalle radici antiche e, al tempo stesso, produrre una nuova cultura politica con un'innovazione capace di attrarre nuovi protagonisti. Come era stato per l'Ulivo, doveva farsi anche espressione di un sistema di alternanza nettamente alternativo nella proposta di governo. Un anno dopo l'incontro di Orvieto, il Partito Democratico nasceva. Ma oggi molti pericoli mettono in discussione la qualità del suo futuro e il suo stesso futuro. Il "mio PD può fallire" ha scritto di recente Micael Antonio Salvati (http://it.wikipedia.org/wiki/Michele_Salvati), temendo che a prevalere sia infine chi sostiene che "ci siamo sbagliati", dunque "si torni indietro". È tempo che si prenda atto che l'unica alternativa al PD è il PD. Per ripartire serve un' analisi impietosa del percorso fatto fin qui. Gli atti compiuti sono stati "seri ed efficaci" come Scoppola auspicava? A giudicare dai risultati non abbastanza. L'elaborazione di una nuova cultura politica con le radici salde nel passato e lo sguardo al futuro non si è compiuta o, almeno, non in modo condiviso. Non si costruisce un partito se non si riesce a condividerne le ragioni e gli obiettivi con chi gli dà voce ed espressione. Ciò avviene solo con l'applicazione piena e assoluta delle regole democratiche, defatiganti a volte, indispensabili sempre. Nel momento in cui il nostro Paese è attraversato da una crisi profondissima il PD comprenda il senso della parola "crisi": scelta, giudizio, separazione. Momento di decisione, dunque opportunità. Bisogna "dimostrare" che il cambiamento attorno al quale si erano accese le speranze di tanti è reale e praticato prima di ogni altra cosa. Si può fare subito, ad esempio, in occasione della conferenza di programma e dell'assemblea nazionale costituente che è l'espressione e "il" luogo della democrazia interna messo a disposizione del partito da quegli stessi cittadini che hanno designato Veltroni alla segreteria del PD. In quella sede si potrà dar vita a un confronto ampio e non più rinviabile. E l'eloquio dimostrato da Veltroni il 25 ottobre al Circo Massimo (oltre che da Giovanni Floris) non potrà che esserne prodromico. Almeno spero.

domenica 11 gennaio 2009

l'assedio (giornalistico) a Di Pietro


Debbo mio malgrado tornare a scrivere di Antonio Di Pietro. Non posso certo rimanere in silenzio su questo recente massacro giornalistico (armato, manco a dirlo, dal Pifferaio di Arcore) che vede il Giornale dei Berluscones dedicare le prime pagine dell'ultima settimana alla crocifissione dell'ex pm di Mani Pulite, ora leader dell'Italia dei Valori, su questioni di mutui, case e gestione del denaro del partito. Dell’ex magistrato vengono setacciati e analizzati il conto in banca,il mutuo, le proprietà immobiliari (se ne ha e come ha fatto, certamente con metodi illeciti secondo la teoria berlusconiana), gli spostamenti a piedi o in auto (con auto blu e relativo autista o su auto di sua proprietà e come ha fatto a pagarsele: le ha comprate o se le è fatte regalare da qualche delinquente che avrebbe invece dovuto inquisire?, sempre secondo la stolta teoria filippofacciana), la biancheria intima che indossa, le separazioni, i divorzi, la moglie, i figli, le figlie (proprio sicuro che siano figli suoi?) etc. etc. etc. Di fronte a questa campagna denigratoria contro Di Pietro, una domanda sorge doverosa e spontanea: se Di Pietro, invece che all’opposizione, fosse schierato all’interno della coalizione che attualmente è al governo, cioè se l’Italia dei Valori si fosse sciolta e facesse oggi parte del Popolo della Libertà, gli articoli del giornalino berlusconiano di cui sopra, invece che denigratori, non pensate che sarebbero stati lellaculeschi anche nei confronti di Di Pietro? Certamente sì anzi, come si usa dire oggi, assolutamente sì. Che pena, comunque, che mi provoca questa caccia alle streghe del "Giornale"! Da glorioso rinnovatore dello stile giornalistico a notiziario gossipparo di veline e di scandaletti degni di "Lucignolo" e "Isola dei famosi". Indro Montanelli, quando lo fondò nel lontano 1974, ebbe il pudore di chiamarlo "il Giornale nuovo", perché con quel quotidiano egli intendeva farla finita con un certo modo di presentare le notizie secondo come più era gradito ai potenti di turno. Oggi, purtroppo, "il Giornale" è diventato illeggibile. Passato negli anni di proprietà in proprietà fino a terminare tra le grinfie berlusconiane, e diretto da personaggi sempre più scadenti giornalisticamente, quali Maurizio Belpietro e l’attuale Mario Giordano, il giornalino milanese ha eliminato l’aggettivo "nuovo". E non l’ha ancora sostituito. Forse perché non hanno il coraggio di chiamarlo "il Giornale degli idioti", come sarebbe giusto. Perché quel titolo, richiamandosi così esplicitamente a dei personaggi da barzelletta, farebbe perdere un bel po’ di lettori. Altro che caccia grossa a Di Pietro...

sabato 10 gennaio 2009

il processo invisibile


E' iniziato con tutti i riflettori (della stampa e dell'informazione in generale) malinconicamente spenti il processo a Palermo contro due alti esponenti della Benemerita, accusati di favoreggiamento per la quarantennale latitanza di Bernardo Provenzano, arrestato l'11 aprile 2006 a Montagna dei Cavalli. I due alti ufficiali dei Carabinieri sul banco degli imputati sono Mario Mori e Mauro Obinu. Il primo, ex-capo del Ros dei Carabinieri e del Sisde, oggi dirige l'ufficio sicurezza del comune di Roma. Il secondo, anche lui del Ros, è un ufficiale di grande esperienza, molto noto negli ambienti dell'Arma. La procura di Palermo li accusa di un reato infamante: favoreggiamento dell'ex primula rossa di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Secondo la Procura, Mori e Obinu avrebbero omesso di catturarlo benché fossero stati informati dal colonnello Riccio della sua presenza a un summit che si tenne il 31 ottobre del 1995 in località Mezzojuso, trenta chilometri a sud di Palermo.
«Il generale Mori mi disse di non citare nel mio rapporto i nomi di tutti i politici, tra questi c’era anche Marcello Dell'Utri: una persona importante, molto vicina ai nostri ambienti. Se lo metto, pensai, succede il finimondo». È questa una delle dichiarazioni più pesanti fatte ieri davanti al tribunale di Palermo dal colonnello Michele Riccio, l'uomo che riuscì a infiltrare nel cuore di Cosa Nostra il mafioso Luigi Ilardo. Pur senza ancora nominare Dell’Utri, Riccio aveva cominciato a rivelare le parti più scabrose delle confidenze di Ilardo fin dal 1996. «Tutti gli appartenenti alle varie organizzazioni mafiose nel territorio nazionale - scrisse in un rapporto - avrebbero dovuto votare Forza Italia. I vertici palermitani avevano stabilito un contatto con un esponente insospettabile di alto livello appartenente all'entourage di Berlusconi. In cambio Cosa Nostra si aspettava leggi a favore degli inquisiti e coperture per gli interessi economici». Chi era quel politico vicino a Berlusconi? Riccio qualche sospetto lo ebbe subito. Infatti, ha spiegato, chiese esplicitamente a Ilardo se si trattasse di Dell’Utri. La risposta fu: «Ma se lei le cose le sa, che me le chiede a fare?». Non lo mise per iscritto, e non solo per le pressioni dei superiori. Glielo chiese in modo esplicito l’infiltrato: «Ilardo - ha spiegato in aula - voleva fare le sue dichiarazioni a proposito dei politici direttamente ai giudici. Ufficialmente non era ancora un pentito e temeva che, se avesse fatto qualche nome pesante, avrebbe potuto rischiare la vita a causa di talpe istituzionali». Cosa che puntualmente accadde: il 10 maggio 1996, a Catania, due killer mai identificati lo uccisero. Così, nel processo in corso, è stato a Riccio a parlare del mondo politico. Estendendo il discorso ai rapporti dello stesso suo ex superiore: «In un'occasione - ha testimoniato - vidi un piatto d'argento e Mori mi disse che gli era stato regalato da Cesare Previti». Ma, tra i fatti nuovi emersi nel processo, quello forse più imbarazzante per il generale Mori è connesso ai rapporti di suo fratello col gruppo Fininvest. Una storia vecchia e complicata. Era emersa per la prima volta nel corso delle indagini sui cosiddetti "mandanti esterni" delle stragi mafiose, procedimento poi archiviato nel quale erano indagati Berlusconi e Dell'Utri. In uno dei rapporti effettuati nel corso delle indagini, la Direzione investigativa antimafia parlava di un’azienda, la "CO.GE. S.p.A", della quale erano titolari due imprenditori coinvolti in affari di mafia, Filippo Salamone e Giovanni Miccichè. La stessa azienda, sottolineava ancora il rapporto della Dia, all’inizio degli anni Novanta era controllata dalla "Paolo Berlusconi Finanziaria S.p.A." e, tra i soci, c’era tale Giorgio Mori. Chi era costui? Mori ha sempre smentito che fosse suo parente. L’ha fatto sulla base di argomento in apparenza inoppugnabile: suo fratello si chiama Alberto e non Giorgio. Circostanza, questa, che sembrava aver chiuso definitivamente la questione. Invece, nel processo in corso, il colonnello Riccio l’ha clamorosamente riaperta. Ha detto infatti di aver saputo da una fonte autorevolissima (Giancarlo Foscale, prima amministratore delegato della Standa, poi vicepresidente della Fininvest) che il fratello di Mario Mori lavorava per l’azienda leader del gruppo Berlusconi. Non più un problema di nomi, dunque, ma un fatto sostanziale. Solo ieri il generale Mori ha ammesso che in effetti suo fratello Alberto, dunque quello vero, ha lavorato per la Fininvest, anche se solo fino al 1991. Se l’avesse detto spontaneamente, la questione si sarebbe chiarita subito per quello che, con tutta probabilità è un errore materiale sul nome. Il fatto è che il generale Mori vuole tenere l’ambiente berlusconiano, e in particolare Dell’Utri, il più lontano possibile dalla sua persona. Era lui il capo del Sisde quando, nel 2002, il servizio segreto civile diffuse un rapporto che, a sorpresa, collocava dell’Utri e Previti tra le potenziali vittime di Cosa Nostra: questo perché, «al di là dell'effettivo coinvolgimento in affari di mafia» i due erano percepiti come "mascariati", cioè compromessi, e quindi non difendibili presso l'opinione pubblica. Una testimonianza pesantissima. La descrizione dell’unico incontro tra Ilardo e il generale Mori fa rabbrividire. Secondo il colonnello Riccio, il mafioso infiltrato disse al capo del Ros dei Carabinieri queste parole: «Certe cose che avvengono in Sicilia non sono colpa di Cosa Nostra ma sono poste in essere dalle istituzioni e voi lo sapete». Adesso quella frase, che Mori smentisce di aver mai sentito, è sotto la lente d'ingrandimento della magistratura. Ilardo non può più spiegarla. Ma forse aveva ragione Provenzano quando in un pizzino scriveva «Ci sono uomini che fanno più danno da morti che da vivi».

giovedì 8 gennaio 2009

un plauso ad Antonio Di Pietro


Mi sembra giusto ed opportuno dedicare un plauso, tramite questo post, ad Antonio Di Pietro che (al contrario di molti esponenti del mondo della politica) quello che dice fa. Aveva promesso, all'indomani dello scandaloso "lodo Alfano", di impegnarsi a raccogliere le firme per il referendum abrogativo della legge ad personam berlusconiana, e così ieri ha fatto. Ed eccoli lì. Più di duecento scatoloni sono stati scaricati ieri mattina davanti al cosiddetto "Palazzaccio" di Piazza Cavoura Roma, sede della Cassazione. E il nuovo anno si apre con una prima vittoria incassata dai promotori dell'iniziativa. Innanzitutto da Di Pietro, ma anche da Rifondazione Comunista e Sinistra democratica, senza le quali non sarebbe stato possibile raccogliere oltre 1 milione di firme «contate una a una» (come dice il leader dell'IdV) e consegnate per chiedere l'abolizione definitiva del "lodo Alfano". Un referendum con il quale, finalmente, ogni cittadino potrà dire che non vuole una giustizia di casta (come quella del governo) e men che meno una giustizia ad immagine e somiglianza del Pifferaio di Arcore. Insomma, a mio avviso, con questa consegna del milione di firme sembra aprirsi una nuova stagione dell'opposizione a questo governo. La mia personale ed intima convinzione è che non si può proprio fare una riforma della giustizia senza che il popolo possa dire la sua. Resta però un'amarezza: il silenzio del Partito Democratico (e di Veltroni) su questa raccolta di firme e sul significato politico che ne scaturisce. Non si può alimentare l'indignazione per le forzature e la torsione antidemocratica impressa da Berlusconi al nostro sistema politico, e poi non dar seguito a questo con un'azione adeguata all'interno delle istituzioni, addirittura ammantando il tutto con il silenzio tipico dell'oblìo. Non si possono spingere gli elettori nelle piazze davanti ai banchetti e lasciarli poi da soli o in mani altrui. L'istituto referendario è sacro ed è stato pensato dai nostri costituenti proprio per dar modo ai cittadini di dire la loro, senza filtri e senza possibilità di pericolose "indicazioni" sul sì o sul no. E il risultato di ieri, del milione di firme, è appunto una vittoria della democrazia. E le firme sono state controllate 7-8 volte, e almeno 850 mila sono state certificate. Di conseguenza, dallo scrutinio della Cassazione non ci si aspetta alcuna obiezione sul raggiungimento del quorum delle 500 mila necessarie per andare alle urne. Non succederà con il "lodo Alfano", in buona sostanza, quello che è successo con i referendum di Beppe Grillo. E non finisce qui, perché questo è solo il primo dei referendum che verranno proposti. E' già pronto un pacchetto di altre iniziative sulle quali si potrebbe pensare di andare alle urne nel 2010. E cosa fa intanto il Partito Democratico? Anche su questo continua a tacere.

domenica 4 gennaio 2009

l'America & la questione mediorientale


A volte il silenzio è più assordante di una bomba esplosa a pochi metri. Mentre l'amministrazione Bush è ormai prossima a passare il testimone, l'esplosione della rappresaglia israeliana su Gaza palesa una volta in più il suo fondamentale insuccesso strategico in più angoli del mondo. Naturalmente nessuno può pretendere di avere la soluzione al conflitto più intricato che si conosca, ma a mostrare l'inadeguatezza, persino l'imbarazzo, della risposta americana è soprattutto la reazione politica a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. Fin dal primo giorno dell'offensiva israeliana contro Hamas, l'amministrazione Bush ha sostenuto il diritto di Israele a difendersi, una linea certamente non nuova. Ma di fronte alla domanda posta l'altro ieri da un giornalista, se la risposta di Israele sia stata proporzionata alla provocazione di Hamas (riferendosi al lancio di missili verso le città israeliane) la Casa Bianca non ha voluto fornire un punto di vista. Eppure, fa notare il giornalista americano Mark Knoller di CBS News, "appena qualche mese fa, il presidente Bush non aveva alcun dubbio sulla proporzionalità. Infatti era del tutto certo che la Russia avesse ingaggiato un conflitto militare del tutto asimmetrico nei confronti della Georgia". A rigore, lo stesso ragionamento dovrebbe essere applicato alla risposta di Israele, visto che le forze militari di Hamas sono ancora decisamente rudimentali e, appunto, del tutto sproporzionate rispetto ai mezzi a disposizione dell'esercito israeliano, che da giorni sta riversando sulla Striscia di Gaza centinaia di tonnellate di bombe senza che questo comporti alcuna visibile soluzione politica. In compenso, e a scanso di equivoci, l'altro giorno Bush ha condannato la provocazione di Hamas definendo il lancio di missili un "atto di terrorismo". Il che, nessuno ne dubita, corrisponde a verità, ma alle affermazioni di G.W. Bush continua a mancare la necessaria integrazione sulla rappresaglia messa in atto da Israele. E non è un caso che manchi questo riconoscimento, perché la stessa mancanza di una strategia politica che sta mostrando lo Stato di Israele, ha caratterizzato, nel complesso, anche l'atteggiamento dell'amministrazione Bush in molte aree di rilevanza geopolitica, dal Caucaso a Gaza passando naturalmente per l'Iraq, nelle quali gli Stati Uniti si sono mossi ispirandosi esclusivamente a una logica conflittuale e di interesse particolare. Nessuno sforzo significativo è stato invece profuso per capire le ragioni profonde delle parti interessate, un tentativo che rappresenta la necessaria premessa per la composizione di qualsiasi conflitto. Così, se si vuole fare qualche passo serio verso una soluzione del conflitto israelo-palestinese, non è certamente sulle ragioni di Hamas che bisogna soffermarsi, né su quelle dell'esercito di Israele, bensì sull'uguale diritto di esistere sia del popolo palestinese che di quello israeliano. Un'evidenza, questa, che deve essere sempre stata incomprensibile a Bush nell'essenza. E che apparirà sempre incomprensibile a chiunque sia incapace di capire altre ragioni che quelle strumentali. Le relazioni internazionali salutano con un sollievo non indifferente l'amministrazione americana uscente, che consegna a Barack Obama e al suo team un lascito disastroso. Sperando nel miracolo del primo presidente nero degli Stati Uniti...

sabato 3 gennaio 2009

si son bevuti la Milano da bere


Pare proprio che il famoso slogan degli anni Ottanta sulla Milano da bere, la Milano godona (per dirla alla D'Agostino), la Milano dell'era Craxi-Pillitteri-Tognoli, debba essere rivisto e corretto, se non altro perchè si ha la netta sensazione che ci sia rimasto ben poco ancora da bere. Anzi, la cannuccia infinita del malaffare, dei miliardi (di euro) e dei baroni del cemento non ne vuol più sapere di aspirare e tirare ancora qualche gocciolina. Non ce n'è minga! Milano non pare più città di grandi e fortunate imprese. Non sto qua a rifare tutta la storia. Negli ultimi decenni è andata malino con la Fiera di Rho, trionfalmente inaugurata ma non finita dal Berlusconi preelettorale e afflitta ormai da bilanci in rosso. E' andata male con Malpensa. Hanno avuto il loro peso le cattive, incerte, contradditorie strategie (nazionali e regionali) e le invidie "campaniliste" (Milano-Roma) e quelle politiche, tutte interne al centro destra nello scontro tra un’anima e l’altra, lombarde entrambe, l’asse Formigoni, Comunione e Liberazione, la Compagnia delle opere contro il blocco leghista. Sarà interessante vedere ad esempio come si risolverà lo scontro a proposito della Fiera: i consigli tanto di Fondazione quanto di Spa Fiera Milano sono in scadenza. Il presidente di Fondazione Luigi Roth e l’amministratore delegato di Fiera Spa, Claudio Artusi, vicini a Formigoni, potrebbero lasciare (Roth, a termine di statuto, sarebbe non più eleggibile) e sono forti le ambizioni del tandem Marco Reguzzoni - Marco Ambrosini (leghisti), il primo deputato nonchè presidente di Sviluppo Intesa Fiera. A proposito dell’ambitissima Esposizione universale, dopo le feste per la candidatura accolta (sponsor il centrosinistra di Prodi, a sostegno del sindaco Moratti), il governo di centrodestra sembra di nuovo alla finestra, con l’aria di chi non vuole boicottare ma neppure collaborare. In silenzio di fronte alla questione vitale dei quattrini: dopo aver certificato che ne mancano tre di miliardi (due miliardi e 763milioni), non mi pare ci sia una mossa che vada nella direzione di colmare il buco. Quale sia la passione della maggioranza per l’Expo è stato espresso con chiarezza dai capigruppo al Senato e alla Camera del PdL, Gasparri e Cicchitto: sì, va bene l’Expo, ma ci sono altre priorità, tipo le forze di polizia, e se si va in ritardo facciamo intervenire la Protezione civile. La conferma dell’interesse fievole è venuta pochi giorni prima di Natale: riunito il 18 dicembre il Cipe per stanziare sette miliardi e mezzo per grandi opere, neanche un euro e solo un rinvio per l’Expo. Un’altra volta le preghiere del sindaco Moratti sono rimaste senza ascolto. Il paradosso è che a sostenere le ragioni dell’Expo e di Milano sono soprattutto i parlamentari del centrosinistra, che mostrano a difesa dell’evento un’inattesa compattezza. In un documento di qualche tempo fa (siamo sempre alla vigilia di Natale), sottoscritto da una cinquantina di loro, si legge: «La maggioranza di centrodestra trova oggi nuovi alibi nella crisi economica e nella supposta necessità che i quattrini sarebbero spesi meglio altrove e per altre finalità. Al contrario noi del PD riteniamo che proprio la crisi rafforzi la necessità di lavorare al successo della manifestazione milanese». Si indicano anche due strade possibili: cioè il tesoretto della BEI, la banca europea degli investimenti, che ha stanziato quindici miliardi per grandi opere, tra i quali pescare anche a favore dell’Expo. Oppure l’articolo 22 del decreto anticrisi che estende le competenze della Cassa Depositi e Prestiti autorizzando l’utilizzo dei fondi per opere di interesse pubblico. Le ultime parole del governo sono state quelle del sottosegretario Caliendo, che l’11 dicembre scorso aveva denunciato la mancanza appunto di quei tre miliardi, dopo aver sommato la necessità di oltre tredici miliardi, per l’area di Rho (proprietà Cabassi) dove le strutture dell’Expo dovranno sorgere e per la rete dei collegamenti, metropolitane, superstrade e autostrade, dalla celeberrima Pedemontana, alla Bre.Be.Mi (la Brescia-Bergamo-Milano), alla tangenziale esterna. Opere importanti, con o senza l’Expo, che ormai è un punto fermo nel calendario internazionale, non insuperabile però: capitò ai francesi la marcia indietro, potrebbero deciderlo anche gli italiani. Il pericolo vero è che si vada avanti male come si è cominciato male, appena scordato l’entusiasmo per il successo di Parigi, con i ritardi nella definizione della governance, con lo scontro tra il ministro Tremonti e la Moratti, che avrebbe voluto piena ospitalità e remunerabilità per i suoi protetti (l’onnipresente Paolo Glisenti), pure nei sospetti di infiltrazioni mafiose, nell’indifferenza di una città, che dell’Esposizione ha visto qualche spot pubblicitario e non sa o non capisce come possa riguardarla o che tutt'al più percepisce l’evento come un’altra ammucchiata di cemento, grazie alla quale i soliti noti ci guadagneranno. Milano vive ormai di un ipertrofismo immobiliare, con i grattacieli che si alzano o che dovrebbero alzarsi, con i sopralzi sui tetti, gli scavi sottoterra per box e ampliamenti vari: una frenesia cementizia che ha indotto l’originale assessore all’urbanistica Carlo Masseroli a progettare grandi aumenti degli indici di edificabilità per costruire una «Milano densa e intensa», con settecentomila abitanti in più, incurante dell’inquinamento, del traffico, della congestione, della miseria architettonica e urbanistica e infine dei prezzi. Proprio mentre tra i grandi progetti di architetti-star riciclatori, come Daniel Libeskind e Zaha Hadid, sembra procedere a ritmo spedito solo l’ambizioso grattacielo di Formigoni, mentre l’ultimo padrone di Milano, già a San Vittore, Salvatore Ligresti cerca di farsi vedere il meno possibile in giro, in attesa che passi la bufera di Firenze. L'ultima, e apparentemente più solida, stella del firmamento cementizio, Luigi Zunino, è stato costretto a ritrarsi da Mediobanca e a cercare aiuto tra gli emiri arabi. È vero che l’Expo dovrebbe arrivare tra sei anni. Ma i primi mesi non sono una primavera entusiasmante e i primi passi ripercorrono vecchie strade: risolta la grana della governance, si è deciso di mettere alla presidenza del consiglio di amministrazione Diana Bracco, erede della famiglia che ci ha regalato la vitamina C, presidente ed amministratore delegato del Gruppo Bracco e del Centro Diagnostico Italiano, presidente di Assolombarda, della Fondazione Mai di Confindustria e Confarma, eccetera eccetera. Solo il presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati ebbe il coraggio di denunciare il palese conflitto di interessi: «Nulla da eccepire sul valore di Diana Bracco, ma proprio lei presidente di Assolombarda sembra sistemata apposta a coprire o a governare certe opportunità a vantaggio di una èlite». Anche simbolicamente. Con il rischio grave che la città, cioè la sua gente, dopo il primo interesse non si riconosca più nell’evento oppure scopra una distanza incolmabile tra sè e l’evento. Che secondo quanto spiegato dall'OCSE servirebbe al rilancio di Milano, purchè il 2015 diventasse la data traguardo di alcuni obiettivi sensibili, come la cultura, l’istruzione e la formazione professionale, la qualità urbana. E con l’edilizia che faccia pagare un po’ meno le case, infrastrutture che rendano un po’ meno penoso muoversi, interventi che incontrino le necessità dei cittadini in difficoltà, per ragioni di handicap e di età. Mentre la possibilità è di vedere all’opera solo il partito del cemento e del mattone, un’imprenditoria senza un orizzonte diverso dal proprio portafoglio, divisa tra berlusconismo, leghismo, postfascismo e ciellismo. Alla faccia del socialismo!

venerdì 2 gennaio 2009

anno nuovo, speranze nuove


Lo so, il titolo del post poteva essere migliore. In effetti non mi sono sforzato granchè. Forse perchè ancora stordito e intorpidito per i bagordi dell'ultimo dell'anno, ma tant'è. E così ho deciso di iniziare il 2009 in questo modo, alquanto scontato, ne convengo. Anno che viene, anno che va. Un passaggio normale, ma dominato da una crisi anomala e poco domabile. Questa crisi maturata sotto i nostri occhi annebbiati e ora è esplosa e ci domina. Come abbiamo imparato sui libri di scuola, si tratta di una crisi figlia (legittima o meno non si sa) del capitalismo, del sistema che cerchiamo di avversare, ma gli effetti più disastrosi li ha su di noi. Innanzitutto sui lavoratori, diventati non più oggetto di sfruttamento e di profitto come ai bei tempi (quando si sosteneva la lotta di classe) ma spesa inutile, e quindi da mandare per un po' in cassa integrazione e poi alla mendicità. La crisi restringe (anzi elimina) i margini di trattativa. La crisi è del capitalismo, ma la prima vittima è il suo antagonista: la classe operaia, e con lei tutte le speranze di crescita e di benessere. Le crisi economiche producono anche le guerre, un modo estremo di riaffermare il potere dei ceti dominanti. La sanguinosa aggressione dello stato di Israele contro i disperati della striscia di Gaza va collocata in questo quadro di crisi e di oscurità del futuro. Non sono i rozzi razzi di Hamas a provocare l'aggressione. Ci sono le elezioni in Israele: per vincerle bisogna essere più duri e selvaggi del concorrente. C'è l'incognita di Obama: la guerra serve a farlo schierare per Israele e per i suoi bombardamenti criminosi. Nel nostro mondo occidentale c'è una crisi generale delle sinistre, delle forze che in qualche modo vorrebbero uscire dalla macchina infernale del capitalismo, che diventa più feroce quando è incalzato dalla crisi. Il capitalismo è (a mio modesto avviso) nella sua più grave crisi, peggio del famoso 1929. Più grave proprio perché il capitalismo si è perfezionato. Non ci sono più spazi vuoti nei quali la crisi si arena. Mai come oggi vale il detto secondo il quale "il battito di una farfalla a Pechino provoca un terremoto a New York". Ma allora cosa fare? Difficile rispondere: bisogna tentare qualcosa, ma cosa in particolare ancora non si sa. Forse non cedere alle tentazioni elettorali o agli schieramenti di parte ed essere più obiettivi (almeno io con i miei blog cerco di farlo). Seguire con più attenzione critica i fatti e le inchieste giornalistiche in tutti i campi, a cominciare dalla scuola e dal lavoro, per continuare con i lavoratori e per poi mettere in piena luce i nuovi meccanismi di sfruttamento e di dominio. Ci dobbiamo impegnare per una grande battaglia culturale. Bisogna svegliare le coscienze critiche (addormentate) di questo nostro Paese. Dobbiamo far diventare le pagine del blog una sorta di piazza d'incontro, di discussione, di progetto e di iniziativa. Non dobbiamo mollare. L'anno nel quale siamo entrati da due giorni deve essere l'anno della ripresa, dell'approfondimento dell'analisi, del rilancio e di ogni qualsivoglia lodevole iniziativa. L'importante è che sia veramente migliore di quello che se n'è appena andato!