il processo invisibile
E' iniziato con tutti i riflettori (della stampa e dell'informazione in generale) malinconicamente spenti il processo a Palermo contro due alti esponenti della Benemerita, accusati di favoreggiamento per la quarantennale latitanza di Bernardo Provenzano, arrestato l'11 aprile 2006 a Montagna dei Cavalli. I due alti ufficiali dei Carabinieri sul banco degli imputati sono Mario Mori e Mauro Obinu. Il primo, ex-capo del Ros dei Carabinieri e del Sisde, oggi dirige l'ufficio sicurezza del comune di Roma. Il secondo, anche lui del Ros, è un ufficiale di grande esperienza, molto noto negli ambienti dell'Arma. La procura di Palermo li accusa di un reato infamante: favoreggiamento dell'ex primula rossa di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Secondo la Procura, Mori e Obinu avrebbero omesso di catturarlo benché fossero stati informati dal colonnello Riccio della sua presenza a un summit che si tenne il 31 ottobre del 1995 in località Mezzojuso, trenta chilometri a sud di Palermo.
«Il generale Mori mi disse di non citare nel mio rapporto i nomi di tutti i politici, tra questi c’era anche Marcello Dell'Utri: una persona importante, molto vicina ai nostri ambienti. Se lo metto, pensai, succede il finimondo». È questa una delle dichiarazioni più pesanti fatte ieri davanti al tribunale di Palermo dal colonnello Michele Riccio, l'uomo che riuscì a infiltrare nel cuore di Cosa Nostra il mafioso Luigi Ilardo. Pur senza ancora nominare Dell’Utri, Riccio aveva cominciato a rivelare le parti più scabrose delle confidenze di Ilardo fin dal 1996. «Tutti gli appartenenti alle varie organizzazioni mafiose nel territorio nazionale - scrisse in un rapporto - avrebbero dovuto votare Forza Italia. I vertici palermitani avevano stabilito un contatto con un esponente insospettabile di alto livello appartenente all'entourage di Berlusconi. In cambio Cosa Nostra si aspettava leggi a favore degli inquisiti e coperture per gli interessi economici». Chi era quel politico vicino a Berlusconi? Riccio qualche sospetto lo ebbe subito. Infatti, ha spiegato, chiese esplicitamente a Ilardo se si trattasse di Dell’Utri. La risposta fu: «Ma se lei le cose le sa, che me le chiede a fare?». Non lo mise per iscritto, e non solo per le pressioni dei superiori. Glielo chiese in modo esplicito l’infiltrato: «Ilardo - ha spiegato in aula - voleva fare le sue dichiarazioni a proposito dei politici direttamente ai giudici. Ufficialmente non era ancora un pentito e temeva che, se avesse fatto qualche nome pesante, avrebbe potuto rischiare la vita a causa di talpe istituzionali». Cosa che puntualmente accadde: il 10 maggio 1996, a Catania, due killer mai identificati lo uccisero. Così, nel processo in corso, è stato a Riccio a parlare del mondo politico. Estendendo il discorso ai rapporti dello stesso suo ex superiore: «In un'occasione - ha testimoniato - vidi un piatto d'argento e Mori mi disse che gli era stato regalato da Cesare Previti». Ma, tra i fatti nuovi emersi nel processo, quello forse più imbarazzante per il generale Mori è connesso ai rapporti di suo fratello col gruppo Fininvest. Una storia vecchia e complicata. Era emersa per la prima volta nel corso delle indagini sui cosiddetti "mandanti esterni" delle stragi mafiose, procedimento poi archiviato nel quale erano indagati Berlusconi e Dell'Utri. In uno dei rapporti effettuati nel corso delle indagini, la Direzione investigativa antimafia parlava di un’azienda, la "CO.GE. S.p.A", della quale erano titolari due imprenditori coinvolti in affari di mafia, Filippo Salamone e Giovanni Miccichè. La stessa azienda, sottolineava ancora il rapporto della Dia, all’inizio degli anni Novanta era controllata dalla "Paolo Berlusconi Finanziaria S.p.A." e, tra i soci, c’era tale Giorgio Mori. Chi era costui? Mori ha sempre smentito che fosse suo parente. L’ha fatto sulla base di argomento in apparenza inoppugnabile: suo fratello si chiama Alberto e non Giorgio. Circostanza, questa, che sembrava aver chiuso definitivamente la questione. Invece, nel processo in corso, il colonnello Riccio l’ha clamorosamente riaperta. Ha detto infatti di aver saputo da una fonte autorevolissima (Giancarlo Foscale, prima amministratore delegato della Standa, poi vicepresidente della Fininvest) che il fratello di Mario Mori lavorava per l’azienda leader del gruppo Berlusconi. Non più un problema di nomi, dunque, ma un fatto sostanziale. Solo ieri il generale Mori ha ammesso che in effetti suo fratello Alberto, dunque quello vero, ha lavorato per la Fininvest, anche se solo fino al 1991. Se l’avesse detto spontaneamente, la questione si sarebbe chiarita subito per quello che, con tutta probabilità è un errore materiale sul nome. Il fatto è che il generale Mori vuole tenere l’ambiente berlusconiano, e in particolare Dell’Utri, il più lontano possibile dalla sua persona. Era lui il capo del Sisde quando, nel 2002, il servizio segreto civile diffuse un rapporto che, a sorpresa, collocava dell’Utri e Previti tra le potenziali vittime di Cosa Nostra: questo perché, «al di là dell'effettivo coinvolgimento in affari di mafia» i due erano percepiti come "mascariati", cioè compromessi, e quindi non difendibili presso l'opinione pubblica. Una testimonianza pesantissima. La descrizione dell’unico incontro tra Ilardo e il generale Mori fa rabbrividire. Secondo il colonnello Riccio, il mafioso infiltrato disse al capo del Ros dei Carabinieri queste parole: «Certe cose che avvengono in Sicilia non sono colpa di Cosa Nostra ma sono poste in essere dalle istituzioni e voi lo sapete». Adesso quella frase, che Mori smentisce di aver mai sentito, è sotto la lente d'ingrandimento della magistratura. Ilardo non può più spiegarla. Ma forse aveva ragione Provenzano quando in un pizzino scriveva «Ci sono uomini che fanno più danno da morti che da vivi».
«Il generale Mori mi disse di non citare nel mio rapporto i nomi di tutti i politici, tra questi c’era anche Marcello Dell'Utri: una persona importante, molto vicina ai nostri ambienti. Se lo metto, pensai, succede il finimondo». È questa una delle dichiarazioni più pesanti fatte ieri davanti al tribunale di Palermo dal colonnello Michele Riccio, l'uomo che riuscì a infiltrare nel cuore di Cosa Nostra il mafioso Luigi Ilardo. Pur senza ancora nominare Dell’Utri, Riccio aveva cominciato a rivelare le parti più scabrose delle confidenze di Ilardo fin dal 1996. «Tutti gli appartenenti alle varie organizzazioni mafiose nel territorio nazionale - scrisse in un rapporto - avrebbero dovuto votare Forza Italia. I vertici palermitani avevano stabilito un contatto con un esponente insospettabile di alto livello appartenente all'entourage di Berlusconi. In cambio Cosa Nostra si aspettava leggi a favore degli inquisiti e coperture per gli interessi economici». Chi era quel politico vicino a Berlusconi? Riccio qualche sospetto lo ebbe subito. Infatti, ha spiegato, chiese esplicitamente a Ilardo se si trattasse di Dell’Utri. La risposta fu: «Ma se lei le cose le sa, che me le chiede a fare?». Non lo mise per iscritto, e non solo per le pressioni dei superiori. Glielo chiese in modo esplicito l’infiltrato: «Ilardo - ha spiegato in aula - voleva fare le sue dichiarazioni a proposito dei politici direttamente ai giudici. Ufficialmente non era ancora un pentito e temeva che, se avesse fatto qualche nome pesante, avrebbe potuto rischiare la vita a causa di talpe istituzionali». Cosa che puntualmente accadde: il 10 maggio 1996, a Catania, due killer mai identificati lo uccisero. Così, nel processo in corso, è stato a Riccio a parlare del mondo politico. Estendendo il discorso ai rapporti dello stesso suo ex superiore: «In un'occasione - ha testimoniato - vidi un piatto d'argento e Mori mi disse che gli era stato regalato da Cesare Previti». Ma, tra i fatti nuovi emersi nel processo, quello forse più imbarazzante per il generale Mori è connesso ai rapporti di suo fratello col gruppo Fininvest. Una storia vecchia e complicata. Era emersa per la prima volta nel corso delle indagini sui cosiddetti "mandanti esterni" delle stragi mafiose, procedimento poi archiviato nel quale erano indagati Berlusconi e Dell'Utri. In uno dei rapporti effettuati nel corso delle indagini, la Direzione investigativa antimafia parlava di un’azienda, la "CO.GE. S.p.A", della quale erano titolari due imprenditori coinvolti in affari di mafia, Filippo Salamone e Giovanni Miccichè. La stessa azienda, sottolineava ancora il rapporto della Dia, all’inizio degli anni Novanta era controllata dalla "Paolo Berlusconi Finanziaria S.p.A." e, tra i soci, c’era tale Giorgio Mori. Chi era costui? Mori ha sempre smentito che fosse suo parente. L’ha fatto sulla base di argomento in apparenza inoppugnabile: suo fratello si chiama Alberto e non Giorgio. Circostanza, questa, che sembrava aver chiuso definitivamente la questione. Invece, nel processo in corso, il colonnello Riccio l’ha clamorosamente riaperta. Ha detto infatti di aver saputo da una fonte autorevolissima (Giancarlo Foscale, prima amministratore delegato della Standa, poi vicepresidente della Fininvest) che il fratello di Mario Mori lavorava per l’azienda leader del gruppo Berlusconi. Non più un problema di nomi, dunque, ma un fatto sostanziale. Solo ieri il generale Mori ha ammesso che in effetti suo fratello Alberto, dunque quello vero, ha lavorato per la Fininvest, anche se solo fino al 1991. Se l’avesse detto spontaneamente, la questione si sarebbe chiarita subito per quello che, con tutta probabilità è un errore materiale sul nome. Il fatto è che il generale Mori vuole tenere l’ambiente berlusconiano, e in particolare Dell’Utri, il più lontano possibile dalla sua persona. Era lui il capo del Sisde quando, nel 2002, il servizio segreto civile diffuse un rapporto che, a sorpresa, collocava dell’Utri e Previti tra le potenziali vittime di Cosa Nostra: questo perché, «al di là dell'effettivo coinvolgimento in affari di mafia» i due erano percepiti come "mascariati", cioè compromessi, e quindi non difendibili presso l'opinione pubblica. Una testimonianza pesantissima. La descrizione dell’unico incontro tra Ilardo e il generale Mori fa rabbrividire. Secondo il colonnello Riccio, il mafioso infiltrato disse al capo del Ros dei Carabinieri queste parole: «Certe cose che avvengono in Sicilia non sono colpa di Cosa Nostra ma sono poste in essere dalle istituzioni e voi lo sapete». Adesso quella frase, che Mori smentisce di aver mai sentito, è sotto la lente d'ingrandimento della magistratura. Ilardo non può più spiegarla. Ma forse aveva ragione Provenzano quando in un pizzino scriveva «Ci sono uomini che fanno più danno da morti che da vivi».
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