l'Antipatico

sabato 3 gennaio 2009

si son bevuti la Milano da bere


Pare proprio che il famoso slogan degli anni Ottanta sulla Milano da bere, la Milano godona (per dirla alla D'Agostino), la Milano dell'era Craxi-Pillitteri-Tognoli, debba essere rivisto e corretto, se non altro perchè si ha la netta sensazione che ci sia rimasto ben poco ancora da bere. Anzi, la cannuccia infinita del malaffare, dei miliardi (di euro) e dei baroni del cemento non ne vuol più sapere di aspirare e tirare ancora qualche gocciolina. Non ce n'è minga! Milano non pare più città di grandi e fortunate imprese. Non sto qua a rifare tutta la storia. Negli ultimi decenni è andata malino con la Fiera di Rho, trionfalmente inaugurata ma non finita dal Berlusconi preelettorale e afflitta ormai da bilanci in rosso. E' andata male con Malpensa. Hanno avuto il loro peso le cattive, incerte, contradditorie strategie (nazionali e regionali) e le invidie "campaniliste" (Milano-Roma) e quelle politiche, tutte interne al centro destra nello scontro tra un’anima e l’altra, lombarde entrambe, l’asse Formigoni, Comunione e Liberazione, la Compagnia delle opere contro il blocco leghista. Sarà interessante vedere ad esempio come si risolverà lo scontro a proposito della Fiera: i consigli tanto di Fondazione quanto di Spa Fiera Milano sono in scadenza. Il presidente di Fondazione Luigi Roth e l’amministratore delegato di Fiera Spa, Claudio Artusi, vicini a Formigoni, potrebbero lasciare (Roth, a termine di statuto, sarebbe non più eleggibile) e sono forti le ambizioni del tandem Marco Reguzzoni - Marco Ambrosini (leghisti), il primo deputato nonchè presidente di Sviluppo Intesa Fiera. A proposito dell’ambitissima Esposizione universale, dopo le feste per la candidatura accolta (sponsor il centrosinistra di Prodi, a sostegno del sindaco Moratti), il governo di centrodestra sembra di nuovo alla finestra, con l’aria di chi non vuole boicottare ma neppure collaborare. In silenzio di fronte alla questione vitale dei quattrini: dopo aver certificato che ne mancano tre di miliardi (due miliardi e 763milioni), non mi pare ci sia una mossa che vada nella direzione di colmare il buco. Quale sia la passione della maggioranza per l’Expo è stato espresso con chiarezza dai capigruppo al Senato e alla Camera del PdL, Gasparri e Cicchitto: sì, va bene l’Expo, ma ci sono altre priorità, tipo le forze di polizia, e se si va in ritardo facciamo intervenire la Protezione civile. La conferma dell’interesse fievole è venuta pochi giorni prima di Natale: riunito il 18 dicembre il Cipe per stanziare sette miliardi e mezzo per grandi opere, neanche un euro e solo un rinvio per l’Expo. Un’altra volta le preghiere del sindaco Moratti sono rimaste senza ascolto. Il paradosso è che a sostenere le ragioni dell’Expo e di Milano sono soprattutto i parlamentari del centrosinistra, che mostrano a difesa dell’evento un’inattesa compattezza. In un documento di qualche tempo fa (siamo sempre alla vigilia di Natale), sottoscritto da una cinquantina di loro, si legge: «La maggioranza di centrodestra trova oggi nuovi alibi nella crisi economica e nella supposta necessità che i quattrini sarebbero spesi meglio altrove e per altre finalità. Al contrario noi del PD riteniamo che proprio la crisi rafforzi la necessità di lavorare al successo della manifestazione milanese». Si indicano anche due strade possibili: cioè il tesoretto della BEI, la banca europea degli investimenti, che ha stanziato quindici miliardi per grandi opere, tra i quali pescare anche a favore dell’Expo. Oppure l’articolo 22 del decreto anticrisi che estende le competenze della Cassa Depositi e Prestiti autorizzando l’utilizzo dei fondi per opere di interesse pubblico. Le ultime parole del governo sono state quelle del sottosegretario Caliendo, che l’11 dicembre scorso aveva denunciato la mancanza appunto di quei tre miliardi, dopo aver sommato la necessità di oltre tredici miliardi, per l’area di Rho (proprietà Cabassi) dove le strutture dell’Expo dovranno sorgere e per la rete dei collegamenti, metropolitane, superstrade e autostrade, dalla celeberrima Pedemontana, alla Bre.Be.Mi (la Brescia-Bergamo-Milano), alla tangenziale esterna. Opere importanti, con o senza l’Expo, che ormai è un punto fermo nel calendario internazionale, non insuperabile però: capitò ai francesi la marcia indietro, potrebbero deciderlo anche gli italiani. Il pericolo vero è che si vada avanti male come si è cominciato male, appena scordato l’entusiasmo per il successo di Parigi, con i ritardi nella definizione della governance, con lo scontro tra il ministro Tremonti e la Moratti, che avrebbe voluto piena ospitalità e remunerabilità per i suoi protetti (l’onnipresente Paolo Glisenti), pure nei sospetti di infiltrazioni mafiose, nell’indifferenza di una città, che dell’Esposizione ha visto qualche spot pubblicitario e non sa o non capisce come possa riguardarla o che tutt'al più percepisce l’evento come un’altra ammucchiata di cemento, grazie alla quale i soliti noti ci guadagneranno. Milano vive ormai di un ipertrofismo immobiliare, con i grattacieli che si alzano o che dovrebbero alzarsi, con i sopralzi sui tetti, gli scavi sottoterra per box e ampliamenti vari: una frenesia cementizia che ha indotto l’originale assessore all’urbanistica Carlo Masseroli a progettare grandi aumenti degli indici di edificabilità per costruire una «Milano densa e intensa», con settecentomila abitanti in più, incurante dell’inquinamento, del traffico, della congestione, della miseria architettonica e urbanistica e infine dei prezzi. Proprio mentre tra i grandi progetti di architetti-star riciclatori, come Daniel Libeskind e Zaha Hadid, sembra procedere a ritmo spedito solo l’ambizioso grattacielo di Formigoni, mentre l’ultimo padrone di Milano, già a San Vittore, Salvatore Ligresti cerca di farsi vedere il meno possibile in giro, in attesa che passi la bufera di Firenze. L'ultima, e apparentemente più solida, stella del firmamento cementizio, Luigi Zunino, è stato costretto a ritrarsi da Mediobanca e a cercare aiuto tra gli emiri arabi. È vero che l’Expo dovrebbe arrivare tra sei anni. Ma i primi mesi non sono una primavera entusiasmante e i primi passi ripercorrono vecchie strade: risolta la grana della governance, si è deciso di mettere alla presidenza del consiglio di amministrazione Diana Bracco, erede della famiglia che ci ha regalato la vitamina C, presidente ed amministratore delegato del Gruppo Bracco e del Centro Diagnostico Italiano, presidente di Assolombarda, della Fondazione Mai di Confindustria e Confarma, eccetera eccetera. Solo il presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati ebbe il coraggio di denunciare il palese conflitto di interessi: «Nulla da eccepire sul valore di Diana Bracco, ma proprio lei presidente di Assolombarda sembra sistemata apposta a coprire o a governare certe opportunità a vantaggio di una èlite». Anche simbolicamente. Con il rischio grave che la città, cioè la sua gente, dopo il primo interesse non si riconosca più nell’evento oppure scopra una distanza incolmabile tra sè e l’evento. Che secondo quanto spiegato dall'OCSE servirebbe al rilancio di Milano, purchè il 2015 diventasse la data traguardo di alcuni obiettivi sensibili, come la cultura, l’istruzione e la formazione professionale, la qualità urbana. E con l’edilizia che faccia pagare un po’ meno le case, infrastrutture che rendano un po’ meno penoso muoversi, interventi che incontrino le necessità dei cittadini in difficoltà, per ragioni di handicap e di età. Mentre la possibilità è di vedere all’opera solo il partito del cemento e del mattone, un’imprenditoria senza un orizzonte diverso dal proprio portafoglio, divisa tra berlusconismo, leghismo, postfascismo e ciellismo. Alla faccia del socialismo!

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