l'Antipatico

domenica 30 novembre 2008

quel furbacchione di Formigoni


Una ragione ci sarà se il cattolicissimo e casto nei secoli Roberto Formigoni continua pervicacemente a restare inchiodato alla superpoltrona di Governatore della Regione Lombardia. Una ragione molto semplice. I fondi per l'edilizia scolastica. Quella privata, naturalmente.
Ma quali tagli ai fondi per la scuola. Sono davvero tutte fandonie dei soliti «facinorosi» di sinistra. Perché la Regione Lombardia, per esempio, non solo non riduce i finanziamenti alla scuola, ma anzi li aumenta. Alla privata ovviamente. Insomma, mentre le scuole pubbliche, anche in Lombardia, cadono a pezzi, Formigoni non si fa assolutamente problemi e continua a «stornare» denaro pubblico a favore dei suoi «amichetti» delle scuole private. A denunciare il «misfatto» un dossier presentato qualche giorno fa dal gruppo consiliare di Rifondazione Comunista al Pirellone. Dall'anno scolastico 2001/2002 sono stati spesi circa 280 milioni di euro per le scuole private, e altri 45 sono già stanziati a bilancio per il prossimo anno. Insomma il modello Formigoni, nella sua Lombardia, funziona. Un modello basato su un semplicissimo quanto agghiacciante assioma: il pubblico è brutto, il privato è bello. E allora già lo scorso anno, con una legge regionale (dal titolo "Norme sul sistema educativo di istruzione e formazione della Regione Lombardia"), si è data legittimità al principio della parificazione tra pubblico e privato. Ma già da prima, dall'anno scolastico 2001/2002, il Governatore e la sua cricca avevano iniziato a «mungere» soldi pubblici per finanziare le scuole private. Con l'istituzione di un sussidio per le famiglie degli studenti delle private, il cosiddetto buono scuola, finalizzato a coprire una quota delle spese scolastiche. Un sussidio che, per non essere in contrasto con l'articolo 33 della Costituzione («enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»), doveva essere accessibile a tutti gli studenti, sia della scuola statale sia di quella privata. Peccato che poi sia stato definito un tetto di spesa minimo per la retta scolastica al di sotto del quale le famiglie non potevano nemmeno fare domanda per il sussidio. E, guarda caso, quel tetto esclude tutte le scuole statali, fatti salvi alcuni casi isolati. Con il risultato che a beneficiare del sussidio sono così gli studenti delle scuole private (quest'anno ben il 70% dei frequentanti, dal 58% del 2001), che si beccano il 99,63% dei finanziamenti. E che, dall'anno in corso, riusciranno a fare l'ein plein e mangiarsi pure le briciole di quei 45 milioni, visto che il buono scuola è stato trasformato in «dote scuola», più precisamente «dote per la libertà di scelta», ufficializzando quello che già di fatto avviene. Di più, per avere diritto al sussidio non è necessario essere meritevoli e nemmeno economicamente svantaggiati. Non regge la scusa usata più volte dal centrodestra per giustificare la sua politica del buono scuola dicendo che serve per garantire la libertà di scelta delle famiglie lombarde. Perché, conti alla mano, dice il consigliere regionale di Rifondazione Luciano Muhlbauer, «soltanto il 26,45% delle famiglie beneficiarie dispone di un reddito annuo medio basso (fino a 30mila euro) mentre il restante 73,55% ha un reddito fino a 198mila euro». E questo grazie ai criteri «elastici» utilizzati nel calcolo del reddito Isee, il «riccometro» che stabilisce chi e in che percentuale ha diritto all'aiuto. A conti fatti insomma, se si pensa che la Regione destina solo 8,5 milioni di euro per il diritto allo studio, l'investimento pro capite per uno studente di scuola privata risulta di 707 euro, contro i nemmeno 8 per uno di una scuola pubblica. A questo bisogna aggiungere anche la voce «edilizia scolastica». Dal 2006 la giunta regionale può destinare una quota fino a un massimo del 25% dello stanziamento disponibile per interventi decisi in base alla cosiddetta «programmazione negoziata». Bene, negli ultimi due anni sono stati erogati circa 6 milioni di euro per 10 progetti, di cui uno soltanto per una scuola pubblica. E non finisce qui: nel 2008 tutti gli enti locali e le scuole pubbliche sono stati avvisati dall'assessore regionale all'istruzione che «data la ristrettezza dei fondi non era possibile finanziare progetti che implicassero nuove costruzioni», ma solo «ristrutturazioni». Con un'eccezione però: i 4,5 milioni di euro (di cui uno già versato) per finanziare il nuovo polo scolastico privato Cascina Valcarenga di Crema. Una scuola privata nuova di zecca progettata e gestita dalla Fondazione Charis, vicina a Comunione e Liberazione. Il fatto che l'assessore regionale sia di CL, e abiti proprio vicino a Crema, è solo un caso. Ovviamente.

venerdì 28 novembre 2008

una sentenza obbligata


A mente fredda è più facile argomentare la sentenza dell'altro giorno con la quale la Corte d'Assise di Como ha condannato all'ergastolo (con isolamento diurno per tre anni) i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, riconosciuti colpevoli della strage di Erba dell'11 dicembre 2006. Una sentenza di condanna che era parsa, in realtà, fin dall'inizio un epilogo pressochè scontato di questo processo, almeno sulla base delle prove raccolte dal PM Mario Astori a carico degli imputati, di fronte alle quali nulla hanno potuto i pur apprezzabili sforzi dialettici dei difensori. Ed infatti condanna c'è stata, per entrambi gli imputati, secondo le richieste del PM. Si tratta della pena più severa (l'ergastolo) nel suo complesso, tra quelle previste dal codice penale, che la commina con specifico riferimento all'ipotesi in cui l'imputato venga riconosciuto colpevole di diversi delitti, ciascuno dei quali comporti la pena massima edittale. In ipotesi del genere (che riflettono le situazioni in assoluto più gravi di concorso di responsabilità criminali in capo alla stessa persona) un tempo si applicava la pena di morte. Senonchè, dopo l'abolizione della pena capitale, per sottolineare comunque la maggiore gravità di tali ipotesi rispetto a quella del singolo delitto punito con l'ergastolo, si è stabilito che, nelle medesime evenienze, alla pena dell'ergastolo si accompagnasse sempre (quale modalità di esecuzione più afflittiva rispetto alle ordinarie modalità penitenziarie) l'isolamento diurno del condannato fino a tre anni. Alla luce di queste premesse si spiegano le ragioni che hanno condotto la Corte d'Assise di Como, una volta accertata la colpevolezza dei coniugi Romano per i quattro omicidi loro addebitati, ad applicare agli stessi la pena dell'ergastolo così inasprito. Con riferimento al quale converrà precisare che la clausola dell'isolamento diurno, in aggiunta alla pena dell'ergastolo, si configura quale conseguenza legale necessaria per quel plurimo accertamento di colpevolezza, non già come misura penale accessoria disposta a sua discrezione dalla Corte. A maggior ragione il suddetto isolamento non deve confondersi con il regime carcerario differenziato previsto dall'articolo 41 bis della legge penitenziaria, la cui funzione è essenzialmente quella di impedire eventuali contatti tra il detenuto e la criminalità organizzata esterna. Nel caso dei coniugi Romano l'isolamento consiste nell'esclusione del condannato dalla maggior parte delle attività in comune tipiche della esecuzione delle pene detentive (tranne l'attività lavorativa), collocandosi in una prospettiva di inasprimento delle normali modalità di espiazione dell'ergastolo, ma senza pregiudizio per alcuni fondamentali aspetti del trattamento rieducativo di cui anche gli stessi ergastolani sono destinatari. Ciò significa che, qualora l'attuale sentenza di condanna dovesse diventare definitiva, ai coniugi Romano non sarebbe preclusa la possibilità di usufruire di un colloquio settimanale (anche fra di loro, se fossero detenuti in case circondariali contigue), mentre appare del tutta fantasiosa l'ipotesi di una loro detenzione in "cella matrimoniale", non essendo naturalmente nulla del genere consentito dall'attuale legge italiana. Per il resto, ai coniugi Romano non saranno certamente precluse tutte quelle opportunità di trattamento penitenziario cui sono in genere ammessi anche gli ergastolani, in vista e in prospettiva di un percorso di ravvedimento che potrebbe condurli (dopo 26 anni, o forse qualche anno prima, grazie al meccanismo degli abbuoni di pena) alla liberazione condizionale anticipata. Pure nei confronti dei peggiori delinquenti, infatti, la nostra legge lascia sempre aperto uno spiraglio alla possibilità di un riscatto morale attraverso l'espiazione delle pene, ivi compreso l'ergastolo. Ma questo, evidentemente, è un discorso per sua natura proiettato nel lontano futuro. Fortunatamente.

lunedì 24 novembre 2008

fuga di cervelli


Studiano i meccanismi dell’universo, scavano dentro la materia oscura, inseguono raggi X ed emissioni infrarosse, cercano nella volta celeste le risposte alle domande primordiali dell’uomo: da dove veniamo?, chi siamo?, dove andiamo? Cosine così, tra tecnologia e filosofia. Ricerca pura. Un «lusso» per l’Italia, che certe risposte ha smesso di cercarle. Eppure senza alzare gli occhi al cielo si resta indietro in molti campi, perché per osservare stelle e galassie si usano strumenti che hanno applicazioni infinite: nella diagnostica medica, nelle analisi dei materiali, nei controlli di qualità dei prodotti industriali, nella ricerca della contaminazione dei cibi e dell’acqua, nella tecnica forense... Che deve fare, allora, un giovane astrofisico italiano? Se è bravo ed ha buone presentazioni prende un aereo e atterra a Monaco di Baviera, dove la fisica è un pallino. Garching, cittadina di 16 mila abitanti a nord di Monaco, ha perfino messo nel suo stemma un reattore nucleare, impianto che esiste dal 1954 per fini di ricerca. Attorno al reattore è poi nato un polo tecnologico e dell'innovazione che fa crescere l'industria, arricchisce la Germania, attira l'interesse del mondo.Vista da qui, la fuga di cervelli dall'Italia è un esodo lento e ordinato. Sui 76 istituti sparsi per la Germania, la prestigiosa Max Planck Society a Garching ne ha installati 4 (fisica extraterrestre, fisica dei plasmi, astrofisica, ottica quantistica) in un bellissimo multicampus per servire il quale c'è una metropolitana nuova di zecca. Gli italiani sono un centinaio, quasi il 15%, oltre a quelli del Politecnico (sempre a Garching) e degli altri istituti della Max Planck di Monaco. «A ben guardare l’emigrazione intellettuale non sarebbe un dramma, si va all'estero per ampliare i propri orizzonti, acquisire nuove conoscenze. Il problema è che non c’è ritorno», dice Giovanni Cresci, fisico di Firenze in forza all’istituto Max Planck per la fisica extraterreste. Allora, sempre vista da qui, la fuga ha due volti: quello dei «fuggitivi» che di tornare in Italia non hanno più voglia neanche se ce ne fosse la possibilità e quello di chi dà loro «asilo». Nulla di umanitario, ovviamente, questi sono «migranti» d'eccellenza aiutati dalle loro famiglie, ragazzi formati nelle tanto bistrattate università italiane che nella ricca Baviera trovano fior di accademici disposti a valutarli con un unico parametro: il merito. Oggi il paese della Merkel dà alla ricerca il 2,6% del Pil contro lo 0,9 (che il prossimo anno scenderà allo 0,7) dell'Italia ed entro il 2015 conta di arrivare al 10% del Pil, comprendendo anche istruzione e formazione. Un investimento sul futuro colossale, che impiega in modo rilevante anche le intelligenze dell'Italia. Benedetta Ciardi è una di queste: vincitrice del Marie Curie Award, prestigioso premio europeo per giovani talenti delle ricerca, astrofisica fiorentina, ha tentato uno sbocco in patria «ma quando ho capito come funzionavano le cose, quando ho visto che un curriculum di tutto rispetto vale per il 10% nella scelta di un ricercatore, quando sai che ogni concorso è una perdita di tempo perché ha un vincitore predestinato, beh, allora scappi». Rientrare? Ci ha provato, all'inizio della sua avventura tedesca, ma invano. Adesso che il suo curriculum glielo permetterebbe non ci pensa proprio: «Gli anni passano, la carriera avanza. Sono al Max Planck da otto anni, ho raggiunto il livello di professore associato con un contratto a tempo indeterminato, lavoro in un ambiente libero dove niente è impossibile. Rientrare è l'ultima cosa che mi passa per la testa». Anche Marcella Brusa, romagnola di Santarcangelo, laureata in astronomia a Bologna, ha avuto, ed ha, nostalgia di casa. «Ma poi pensi alla situazione del nostro Paese e ti consideri fortunata: possibile che in Italia le cose non siano mai stabili?, che se cambia un governo cambiano le regole, i punti di riferimento? Troppa incertezza, insomma. Qui, invece, sai in quale ambito ti muovi, cosa puoi fare e cosa no». Di fatto, per chi riesce ad entrare nel giro Max Planck, la ricerca non ha limiti: gli strumenti di osservazione (i telescopi nello spazio) e di calcolo sono il meglio che un ricercatore possa sognare. Le missioni di studio e lavoro all'estero sono all'ordine del giorno. Gli stipendi? Alti: la prima busta paga di un ricercatore è di 2100 euro al mese, il 50% in più che in Italia, di un associato 3000. I precari (praticamente tutti i ricercatori, dottorandi e post doc) hanno la stessa protezione sociale dei tedeschi. A queste condizioni logico che si smetta di cercare in Italia. Basta adattarsi, e non è sempre facile, alla disciplina bavarese e alla sua maniacale efficienza. È questa l'esperienza fatta da Claudio Cumani, fisico triestino di 45 anni, a Monaco da 15 che lavora come informatico in un istituto di ricerca europeo, conserva la passione per la politica (è stato 9 anni segretario della sezione DS) ed è presidente del Comites, l'organismo di rappresentanza dei 72 mila italiani residenti nella circoscrizione di Monaco. Cumani sviluppa software di controllo dei ricettori di immagini attraverso i dati dei telescopi. Se telecamere e fotocamere digitali migliorano ogni giorno le prestazioni, è grazie a queste ricerche. «Ho cercato sbocchi nell'industria privata in Italia. Quando leggevano il mio curriculum la risposta era: “Lei è troppo qualificato”. Così mi sono messo il cuore in pace, ho sposato una tedesca e qui sono destinato a restare. Ma non mi sfugge quello che succede in Italia. E mi preoccupa una classe politica che vede la ricerca come spesa improduttiva e una classe docente che pensa solo a se stessa. Qui sto bene, il Paese funziona a meraviglia, ai nostri livelli la vita è semplice. Eppure mi rendo conto che non sono più italiano e non sarò mai tedesco». Augusto Giussani, invece, in Italia aveva centrato il suo obiettivo: dopo il dottorato conseguito in Germania ha vinto un concorso per ricercatore a tempo indeterminato. È un fisico che si occupa della dose e degli effetti delle radiazioni sul corpo umano, radioprotezione, medicina nucleare. All'inizio dell'anno ha lasciato la sua (invidiabile) posizione in Italia per tornare a lavorare all'Istituto di Radioprotezione di Monaco. «In Italia - spiega - manca una cultura scientifica. La ricerca è vista come impedimento. Gli investimenti pubblici fino a qualche anno fa non erano tanto inferiori rispetto alla media europea, quello che faceva e fa la differenza sono gli investimenti privati. Se a questo si unisce il fatto che nell'università, come nel resto della società italiana d'altronde, ogni cambiamento viene interpretato come rischio e non come opportunità, e che tagli e ipotesi di riforma impoveriranno gli atenei, ho preferito lasciare il mio posto a Milano». Per la ricerca molto meglio l’ambiente dinamico e stimolante di Monaco. Del resto da qui con novanta minuti di volo (biglietto low cost a 40 euro) si torna a casa. Sugli emigranti della scienza il viaggio non pesa più di tanto: invece pesa, come un macigno, sull'Italia.

sabato 22 novembre 2008

un incredibile attaccamento alla poltrona


Era dai tempi del mitico Forattini anni Ottanta (con la famosissima vignetta raffigurante Giulio Andreotti attaccato alla poltrona come una cozza ad uno scoglio) che non vedevamo un politico così pervicacemente e ostinatamente seduto virtualmente (e non solo) su di una poltrona, nemmeno tanto prestigiosa come quella di presidente della Commissione di Vigilanza sulla RAI. Ma quello che sta facendo l'ex senatore napoletano del PD Riccardo Villari (in giovane età anche fidanzato della procace napoletana Barbara D'Urso) ha veramente dell'incredibile. Non ne vuole proprio sapere di lasciare la poltrona da presidente, non vuole dimettersi (ha detto che un vero ex democristiano non si dimette mai) e non vuole essere coerente con quanto dichiarato appena una settimana fa (mi dimetterò quando ci sarà un nome condiviso da tutti), nonostante il nome condiviso da tutti ci sia ed è quello di Sergio Zavoli. Niente da fare, lui non se ne va. Non ci pensa proprio. Figuriamoci, proprio adesso che la tipografia del Senato gli ha consegnato freschi di stmpa i biglietti da visita con su scritto Riccardo Villari presidente commissione vigilanza Rai. Ma scherziamo, e quando gli ricapita un biglietto così. Ma intanto nei corridoi della politica italiana il brusìo polemico e la rabbia nemmeno tanto nascosta per il comportamento da vero screanzato napoletano di Villari sta facendo alzare la temperatura istituzionale. I presidenti della Camera e del Senato gli hanno chiesto a chiare lettere di farsi da parte; addirittura l'artefice nascosto (mica poi tanto) della sua elezione, vale a dire Silvio Berlusconi, lo ha ringraziato e lo ha invitato a tornare da dove era venuto. Ma lui niente, fa orecchie da mercante e come un mercante ha incassato i trenta denari senza neppure mostrare in anticipo la mercanzìa da vendere. Vedere cammello, comprare tappeto. In questo caso non ce n'è stato bisogno. Ha fatto tutto il centrodestra. Ha presentato il cammello (Villari), ha steso il tappeto (l'opposizione) ed ora fa finta di niente, fischiettando tranquillamente e dedicandosi più che altro allo scioglimento di Forza Italia con tanto di lacrime di coccodrillo (anzi di caimano) e claque prezzolata da standing ovation. Questa è l'Italia attuale, figlia illegittima e nascosta della vittoria di aprile delle truppe cammellate berlusconiane, nipote altrttanto illegittima della famosa discesa in campo del gennaio 1994 dell'uomo dalla calza velata, del presidente tinto, del cavaliere con la bandana. E Villari non ne è che la protesi indegna e volgare, cresciuto e foraggiato all'ombra del cavallo di Troia della politica del compromesso e del ricatto morale e materiale, del voto di scambio e del favore personale, della promozione a ministro in cambio di un rapporto orale (da non confondere con una relazione a voce...) e di altre nefandezze del genere. Se questa è l'Italia che ci meritiamo...

domenica 16 novembre 2008

vivere come un invisibile




Di questi tempi parlare di povertà, di crisi economica, di impossibilità per molti di arrivare a fine mese con il misero stipendio percepito è un pò come parlare della pioggia che cade sul bagnato, accentuando se possibile il già eccessivo disagio personale di chi fatica a sopravvivere, non a vivere. Partendo da questo assunto ci siamo imbattuti sulle colonne de l'Unità (a proposito, ci piace molto il nuovo look voluto da Concita De Gregorio) in un pezzo di rara bellezza e cruda efficacia, a firma di Claudio Camarca, scrittore non nuovo a performance di questo genere, che ci fa entrare (quasi con un effetto tridimensionale) nel mondo dei poveri, dei nullatenenti, degli emarginati dalla società che cercano disperatamente di non scomparire, inghiottiti dalla noncuranza e dall'indifferenza di quanti invece una casa e un piatto caldo ancora se lo possono permettere, di questi tempi. Il pezzo di Camarca si intitola "Gli invisibili. =Ho vissuto frugando nei cassonetti=" ed è da leggere tutto d'un fiato. Per capire il senso, o il non senso, di determinate situazioni, la cosa migliore da fare è il crearle ed immergervisi. Questo ha fatto Claudio Camarca, vivendo come vivono tanti "invisibili" e raccontando il tutto nell'unico modo appropriato, nel quale spicca la quasi assenza di virgole che possono ingentilire il testo e darci il tempo per un respiro; frasi corte e secche quasi come schiaffi e che, come questi, fanno male, come fa male la verità quando ci dice come vivono gli emarginati, gli appestati del ventunesimo secolo, nella società creatrice degli "invisibili". Buona lettura (e buona riflessione). L'acqua sputa attraverso la fessura scavata nella lamiera. Gocce di ruggine sulla coperta militare. Mi tremano le ossa. Acre puzzo di umidità. Erika tossisce mentre prepara il caffé sul fornello da campo. Strofina il dorso del piede contro la caviglia. Infradito, calzettoni in cotone, tuta da ginnastica blu. Starnutisco. Echeggiano le campane della chiesa. Toni, suo marito, siede sulla branda e si passa le mani sulla faccia. Occhi chiusi, labbra serrate. Piove da tutta la notte. Le pareti della baracca gemono e si gonfiano. Sono le sei del mattino di un altro giorno da cancellare. Benvenuti nel girone infernale dei flussi migratori. Giusto sotto casa nostra. Girato l'angolo. Un passo dal supermercato. Dieci catapecchie tirate su per grazia dello spirito santo. Pareti in cartone pressato e tetto in lamiera. Materassi buttati su tappeti laceri. Riscaldamento delle stufe a cherosene. Una lampadina impiccata alla batteria di una automobile. Uomini e donne di altri paesi. Rumeni e moldavi e albanesi. Una masnada di bimbetti pallidi dai sette mesi ai nove anni. Toni mi serve il caffé nel bicchiere di carta. Scuote la testa e spalanca il sorriso ingiallito. Non capisce cosa diavolo sia venuto a cercare. «Chi cazzo te lo fa fare». Erika esce con in mano il rotolo di carta igienica. Per buona ventura il torrente è vicino. Esco a mia volta. Lavo la faccia nell'acqua gelida che riempie il bidone. Panni ad asciugare tra una baracca e l'altra. La carcassa di una Honda 500cc. Il cagnetto senza nome scappa via, si volta, mi squadra di sottecchi, trotterella. Dalle baracche si levano le rimostranze dei bambini impegnati con la scuola. Figli di migranti costretti irregolari accettati ipocritamente agli studi elementari. Herman sorge da un cespuglio, richiude la patta, fa un cenno di saluto, entra in casa. Pioviggina. Dalla terra sbuffa una nebbia impalpabile, un'anima caliginosa distesa sulle cose. Mi asciugo con la maglietta.Erika lavora da badante. Un avvocato, perbene, gentile, ma vecchio e in carrozzella. Prende tre autobus per andare e tre per tornare. Due ore di traffico quando va bene. Si imbelletta, riassesta i bellissimi capelli neri, pulisce le scarpe. Allontana lungo lo stradello sbrecciato, attenta alle pozzanghere, ai rovi, alle scorie edili defecate dai camion. Io e Toni ci facciamo la prima birra di giornata. Toni vanta sette fogli di via. In Italia da cinque anni. Clandestino. Come quasi tutti gli altri. Scarti delle sanatorie. Ciarpame senza nome. Inesistenti venuti a pietire un'occupazione, bassa manovalanza, qualche moneta per camminare eretti a palesare una dignità. In Romania era odontotecnico. Qui da noi si industria. Pulisce cantine, trasloca appartamenti, pittura e vernicia, ripara caldaie, rassetta giardini. Oggi raccogliamo vuoti di bottiglia. Ce ne andiamo in giro, io e Toni e Herman. A zonzo per la borgata. Livida, fredda. Il cielo è un coperchio azzurro metallizzato. Noi tre ce ne camminiamo con la gente che ci guarda. Herman spinge il carrello del supermercato. Indossiamo pantaloni stinti e scarpe da ginnastica slargate e maglioni lisi. Fermiamo davanti ai cassonetti dell'immondizia. Rovistiamo all'interno. Deprediamo le bottiglie in vetro. Strascichiamo al cassonetto successivo. La gente ci guarda e non ci vede. Trasfigura quello che registra. Noi siamo gli avanzi dell'orda. I ladri, i magnaccia, gli assassini. Il bubbone purulento scaturito da questo sortilegio denominato globalizzazione. Le mamme ci indicano ai bambini. Le ragazze insospettiscono. Gli automobilisti non frenano, scartano all'ultimo momento, pigiano il clacson e masticano l'invettiva.Curioso rovistare nei cassonetti. Ci spenzoli dentro. Con il tronco e la testa. Le braccia protese a caccia del tesoro nascosto. L'odore marcito che risale le narici e trafigge lo stomaco. Scovi di tutto. Metafora gridata del benessere che nemmeno ci accorgiamo di vivere. Abbranco una confezione da sei di scatolette simmenthal scadute da una settimana. Mangiamo sul posto. Potrei farne a meno. Ma non voglio offendere i compagni. E poi, sacchi di pane raffermo, confezioni di biscotti, vestiti seminuovi, uno stereo portatile appena scheggiato, un paio di scarpe, una sedia, bambole e palloni e un aquilone, libri, l'insegna al neon di un negozio di barbiere.Tiriamo tardi. Cassonetto dopo cassonetto. Alle undici ci arrendiamo stremati. Puzzo di sudore rappreso. Stravacchiamo sul bordo del marciapiede. Herman offre una sigaretta senza filtro. La Volante della Polizia rallenta, squadra, tira dritto. Meglio alzarci e levarci di torno. Entriamo nel bar a berci una birra.Herman si è fatto la galera. Due anni. Condanna per furto con scasso e minacce e lesioni. Decreto di espulsione dal territorio italiano. E' sempre rimasto qui a Roma. Lavorato come cameriere in due ristoranti. Servito nei bar sul lungomare di Ostia. Muratore e manovale e carpentiere. In Kosovo tiene moglie e due figli. Il primogenito, malato alla nascita. Polmoni. Beve birra e fuma senza filtro e ha lo sguardo vuoto e pesante. La cassiera afferra il denaro portando indietro la testa a mettere tra noi maggiore distanza. Mi sento come un foruncolo sul culo di Dio. Toni ci guida allo smorzo. Chiede lavoro. Risposta negativa. Di questi tempi, la gente non ristruttura. Deflazione, recessione, niente liquidi. Toni insiste. È pronto a qualsiasi fatica. Un mese che gira a vuoto. Si offre a pochi spiccioli. Il capomastro scuote la testa. Nemmeno la fatica di esprimersi. Spingiamo il carrello. S'è fatta ora di pranzo. Piove e fa freddo. Ho la felpa inzuppata, le scarpe fradice, i pantaloni incollati alle gambe. Dolore alla schiena. Per l'umidità che si rapprende alle ossa. E perché cammino a vuoto da cinque ore. Sono anche incazzato. Nessun motivo specifico. Parcheggio del supermercato. Herman si tuffa nel cassonetto all'entrata. Automobili cariche di buste con la spesa. Famiglie a discutere le portate della cena. Gli altoparlanti sfiatano offerte e buoni acquisto. La vigilanza ci soppesa attraverso due telecamere virate nella nostra direzione. Herman sorge tirandosi dietro un passeggino accartocciato. Ha le ruote funzionanti. Torna utile. Alla pompa di benzina troviamo due pakistani. Nelle ore di pausa, servire gli automobilisti diventa un buon modo per sbarcare la giornata. Toni ci pensa un po' su. Se sia il caso di far la voce grossa e guadagnarsi il posto al sole. Quindi, incassa la testa nelle spalle e sprofonda le mani nelle tasche dei pantaloni. Ci avviamo lungo lo stradone. Risaliamo il ponte sulla ferrovia. Corvi gracchiano dai fili dell'alta tensione. I miei compagni hanno pensato di tornarsene a casa. Se lo chiedono ogni giorno. Rientrare in patria e buttarsi alle spalle queste giornate. «È che ti muori di fame. Con l'inverno che sprofonda a meno trenta. Senza denaro per pagare il riscaldamento». Scorgiamo le baracche, un filo di fumo soffia attraverso il tetto in lamiera. Mi butto sul materasso in terra. Lo stomaco gorgoglia per la fame. Ha smesso di piovere. Toni apre una conserva di fagioli cannellini. Divide a metà nel bicchiere di carta. Mangiamo in silenzio. Posate in plastica e birra in lattina. Picnic miserabile. «Ti viene rabbia. Per come vivi. Per come sei ridotto. Ho vergogna. Non riesco a fare l'amore con mia moglie. Non telefono ai miei figli. Studiano. Una città nel sud della Romania. Ho proibito loro di venirci a trovare. Credono che abbia un appartamento, un lavoro da operaio, una macchina. Per questo non torno. Come faccio a dirgli la verità. Non potrei più essergli padre». Pesco i cannellini in fondo al bicchiere. Ci facciamo un pisolino. Così non c'è da parlare e il pomeriggio procede al tramonto. La polizia arriva per l'ora di cena. Una vettura senza insegne. Due agenti in giacca di pelle da poco prezzo e la faccia lunga di chi la vita se la sente sulle spalle. Annunciano lo sgombro. Da lì a tre giorni. Erika offre da sedere. Qualcuno porta una bottiglia di vino. I ragazzini si rincorrono lungo il terrapieno che raccoglie il torrente inquinato. Gli agenti hanno poco da dire. Snocciolano frasi mandate a memoria. «Tolleranza zero». «Sicurezza per i cittadini che pagano le tasse». «Cambio di rotta con il recente passato». «Accoglienza mirata». Toni chiede in quale campo verranno spostati. Gli agenti si guardano la punta delle scarpe. Uno accende la sigaretta. Fa girare il pacchetto. La notte scende rapida. I ragazzini ancora si rincorrono. Le grida riecheggiano nel nulla intorno che pare ammassarsi fitto.

martedì 11 novembre 2008

cattive abitudini


Chi di noi non ha mai avuto modo di riconoscersi pregi e difetti, abitudini e consuetudini, vizi e virtù. A volte per qualche critica ricevuta, a volte per puro senso del dovere, chiunque si sarà ritrovato a fare i conti con la propria coscienza. Ma a nostro modesto avviso deve esistere una categoria di persone che tanti scrupoli non se li pone affatto, non avvertendone il bisogno. Questa categoria di persona dimora stabilmente in due palazzi storici: Palazzo Madama e Montecitorio. Parliamo chiaramente dei cosiddetti "pianisti", artisti del voto plurimo difficilmente reperebili su piazza con annunci di personale qualificato. Sono già stati assunti tutti quanti. E questa storia dei "pianisti" fa il paio con la recente sentenza della Cassazione che ha stabilito che è legittimo licenziare un dipendente che si fa timbrare il cartellino da un collega, perché questo comportamento lede il "vincolo fiduciario" che intercorre col datore di lavoro. E dunque, lo stesso vincolo che intercorre tra elettore ed eletto non viene ugualmente tradito con la pratica della "suonata"? Certo che sì, ma nessuno sente l'obbligo morale e civile di porre fine alla "suonata" licenziando in tronco l'incauto suonatore, che anzi si sente ben motivato nell'espletamento della sua funzione "artistica" visto e considerato che prende anche la sua bella retribuzione giornaliera per la presenza in Aula. E allora pensiamo (e diciamo): ma perché deve essere considerato reato gravissimo (e siamo d’accordo) farsi timbrare il cartellino di entrata o di uscita dal posto di lavoro da un collega, e non viene considerato altrettanto gravissimo il comportamento di un deputato che si fa "timbrare il cartellino" (cioè votare nella sacralità dell’aula della Camera) da un collega volenteroso (che nel primo caso riportato, quello della gente comune, rischia anche lui tantissimo)? Sia il "pianista" della Camera (ma come mai anche il Senato non si adegua?) che quello che si fa "suonare" (assenteista) non ledono forse il "vincolo fiduciario" (cioè la presenza, il lavoro, la correttezza, l’onestà) che intercorre col datore di lavoro, che nel caso dei parlamentari sono gli elettori? Chissà dove saranno l’operaio/operaia o l’ impiegato/ impiegata (assenteisti) al momento in cui si fanno timbrare il cartellino dal collega: sono in ritardo, sono alle prese coi figli, alle prese con asili nido, alle prese con treni pendolari, alle prese con chissà quali vicende, compresa anche quella (non escludiamolo) della poca voglia di lavorare. E chissà dove saranno i deputati che non si presentano in aula per la votazione ma che votano lo stesso per "procura". Saranno in qualche commissione, saranno in qualche loro studio professionale, saranno nel loro collegio a convincere passati e futuri elettori a dargli ancora la fiducia, saranno in qualche ristorante di Roma, saranno a qualche presentazione di libro, saranno con qualche prostituta in qualche albergo di lusso di Roma. Chissà dove saranno. Una cosa è certa: che per operai e impiegati nel caso in cui si facciano timbrare il cartellino può scattare il licenziamento. Per i deputati infedeli ("suonatori" e "suonati") non scatta niente. Anzi la Camera, cioè il contribuente (cioè noi e voi) deve anzi stanziare 450.000 euro per acquistare l’apparecchio che dovrà far rigare diritti i propri "dipendenti". Cioè, i nostri dipendenti. Vi sembra giusto tutto questo? Vi sembra possibile che la Casta, l’odiata Casta, debba distinguersi anche per questo? Una vergogna. E perché invece di spendere tutti quei soldi per l’apparecchio delle impronte, il presidente della Camera Fini non decide di denunciare in maniera implacabile tutti quegli scansafatiche che non si presentato alle votazioni? E non punisce in maniera esemplare anche tutti i pianisti più volte immortalati in foto e in video? Troppo complicato. Meglio spendere quasi un miliardo delle vecchie lire per tentare di mettere ordine in un settore che forse avrebbe bisogno invece di qualche licenziamento. Ma alla fine si sa, licenziare le cattive abitudini costa troppo. Meglio conservarle.

domenica 9 novembre 2008

buon compleanno Alex, leggenda del calcio


Una domenica particolare per chi, come noi, ha sempre ammirato e si è sempre entusiasmato per un calciatore oramai entrato nella leggenda degli dei del pallone. Di coloro i quali, in buona sostanza, danno del tu al pallone e con la sfera di cuoio ci deliziano e ci regalano numeri da fantascienza, da antologia, proprio come fa (e come ha sempre fatto) Alessandro Del Piero. Il magico numero 10 juventino di San Vendemiano questa domenica compie 34 anni e noi vogliamo fargli i più sinceri auguri, accompagnati dai ringraziamenti sentiti, veritieri, che vogliono in parte sdebitarci dalle troppe, eccessive a volte, emozioni che in questi 15 anni di carriera bianconera ci ha fatto magicamente vivere, omaggiando (noi e altri 14 milioni di tifosi sparsi per la Penisola) i veri intenditori di calcio di giocate e magici lampi di genio, infilando 250 perle realizzative (e qui vogliamo fare noi un omaggio a lui, http://www.youtube.com/watch?v=C-Svt_A1CDE) che a rivederle ancora ci fanno venire i brividi lungo la schiena. E nella mente rimangono indelebili i gol realizzati nella notte di Tokyo del 1996 (finale Intercontinentale), così come quelli rifilati alla Fiorentina o alla Roma o al Real Madrid di mercoledì scorso o perchè no, l'ultimo, quello di oggi a Verona. Non ci stancheremo mai di rivederli, uno dopo l'altro, come in una magica ed infinita sinfonia di bellezza e di creatività nel colpire il pallone, di destro, di collo piede, di sinistro, a giro, di testa, di tacco. Un campionario inarrivabile e crediamo irripetibile, tesoro unico e incommensurabile, fatto dono perpetuo per tutti gli amanti del calcio, al di là del tifo per questa o per quella squadra. Perchè Alex è un tesoro che appartiene a tutti noi. E che nessuno potrà mai scipparci. Ancora auguri, magico Capitano!

sabato 8 novembre 2008

due o tre cose su Vittorio Feltri


Non volevamo parlarne proprio oggi che anche tpi-back l'aveva fatto (http://tpi-back.blogspot.com/2008/11/il-difensore-dufficio.html) ma certi post l'ineffabile direttore bergamasco del giornalino denominato Libero ce li scuce proprio dal profondo dell'anima. E' da giorni che seguiamo in silenzio l'evolversi delle sue peripezie alquanto nefaste alla guida del quotidiano di viale Majno ed è un susseguirsi di editoriali francamente da appallottolare e gettare nel water, se non fosse per il pericolo di intasamento del water medesimo, con le prevedibili conseguenze da chiamata di idraulico. Ed oggi abbiamo deciso, dopo il suo editoriale di stamattina, di ricordare ai nostri lettori (e di conseguenza anche a quelli di tpi-back) un pò di storia di questo impettito e sempre ben vestito giornalista, abitualmente con la pipa a portata di mano e con la sempiterna aria di chi te lo ha appena messo nel di dietro senza farsene accorgere. Due anni fa Vittorio Feltri vinse, un pò a sorpresa, un premio giornalistico che per i milanesi è equiparabile all'Oscar per gli attori. Vinse l'Ambrogino d'oro. Occorre ora inquadrare il personaggio e la sua evoluzione per apprezzarne i meriti finalmente premiati. E bisogna andare un pò indietro nel tempo per focalizzare meglio la situazione e gli antefatti. Il compianto Indro Montanelli fu cacciato nel 1994 da Silvio Berlusconi dalla direzione del Giornale (che aveva fondato e diretto per 20 anni) perchè, disse, "non voglio ridurmi a trombetta di un editore in fregola di avventure politiche". Nel dicembre 1993 Feltri disse al Corriere: "Io al Giornale? Ma che cretinata. Berlusconi non mi ha offerto neppure un posto da correttore di bozze". Infatti un mese dopo Feltri diventa direttore del Giornale. Quando nel marzo 2001, durante la trasmissione televisiva "Il Raggio Verde" di Michele Santoro, Feltri dà del voltagabbana a Montanelli, questi, oramai 90enne e già malato (morirà a luglio), telefona in diretta per sbugiardarlo e raccontare la verità, ricordando come Feltri si fosse messo al servizio di Berlusconi dopo che questi aveva cacciato il vecchio Indro con l'inganno e con l'aiuto della redazione alla quale aveva promesso aumenti di stipendio se si liberavano di lui. Sul momento Feltri diventa paonazzo e tartaglia qualcosa mentre Indro gli dà del servo del padrone, poi all'indomani gli spara addosso su Libero: "Santoro getta in campo anche Montanelli". A luglio 2006 Feltri dichiara: "Se Montanelli fosse vivo, lavorerebbe a Libero". La storia ha decretato che mai Montanelli ha scritto un rigo su un giornale diretto da Feltri (Europeo, Indipendente, Giorno, Borghese, Libero). Che cosa pensava di Feltri, Montanelli lo dichiarò al Corriere nel 1995: «Il suo Giornale confesso che non lo guardo nemmeno, per non avere dispiaceri. Mi sento come un padre che ha un figlio drogato e preferisce non vedere. Comunque, non è la formula ad avere successo, è la posizione: Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti!». E difatti Montanelli, da sempre uomo di destra, nei suoi editoriali alla Voce così parlava di Berlusconi: "Ha l'allergia alla verità, una voluttuaria e voluttuosa propensione alla menzogna. Chiagne e fotte, dicono a Napoli dei tipi come lui". "Questa non è la destra, questo è il manganello. Gli italiani non sanno andare a destra senza finire nel manganello". Tornando a Feltri, dobbiamo dire che l'occhialuto direttore negli anni ha sempre voluto circondarsi di esperti in ogni campo. Infatti oggi, tra le penne illustri di Libero, abbiamo: Luciano Moggi, che dopo essere stato riconosciuto come il gran burattinaio dei corrotti e venduti di Calciopoli e affondato la Juve in serie B, viene chiamato da Feltri per fare l'editorialista sportivo. L'avvocato Carlo Taormina, indagato dalla Procura di Torino per aver fabbricato prove false nel delitto di Cogne. Gianni De Michelis, pluripregiudicato per Tangentopoli, definito da Biagi "avanzo di balera" per la sua passione per le discoteche sulle quali ha scritto persino una guida. Senza dimenticare il vicedirettore di Libero, Renato Farina (in arte agente Betulla), indagato per favoreggiamento in sequestro di persona, reo confesso, sul libro paga del Sismi, che fabbricava dossier falsi e faceva pedinare un magistrato per lo stesso Sismi. Scoperto, ammette l'errore e chiede scusa. L'Ordine dei giornalisti della Lombardia, a settembre 2006, lo sospende per 12 mesi, l'Ordine Nazionale e la Procura di Milano invece impugnano la sospensione e chiedono che Farina venga radiato a vita. Per completare questo parterre de roi manca solo che a Previti venga offerta una rubrica fissa sulla lotta alla corruzione. Poichè Farina, sospeso, non può scrivere sul giornale, viene inventato un curioso escamotage: Farina invia lettere a Libero che le pubblica in prima pagina. Viste le sue benemerenze, due consiglieri comunali milanesi, ex di Forza Italia, propongono Farina per l'Ambrogino d'oro. Il giornalista Filippo Facci lo sberleffa sul Giornale; il giorno dopo Feltri gli risponde su Libero: "Chi tocca Farina sappia che deve fare i conti anche con me, prima o poi. Sul piano della iettatura avverto il dilettante del Giornale: ho la patente. Ne ho già stecchiti per molto meno....La dico tutta. Farina merita l'Ambrogino d'oro". Facci replica: "Ieri sono stato attaccato da Vittorio Feltri: un signore che non ha neppure il coraggio di essere direttore responsabile del suo giornale perchè ha paura delle querele. Un signore che ha fatto la battaglia contro le baby-pensioni e poi è andato in pensione a 53 anni. Un signore che ha fatto la battaglia contro le sovvenzioni pubbliche ai giornali di partito e poi ha trovato il modo di prenderle anche lui". Entra in campo (e come poteva essere diversamente) anche Silvio Berlusconi che difende Farina con una lettera a Libero intitolata "Attaccano la libertà". Da che pulpito. Lui che aveva fatto cacciare Biagi, Santoro, De Bortoli, Massimo Fini, Oliviero Beha, i fratelli Guzzanti, Luttazzi. Forse perchè nessuno di loro aveva commesso, a differenza di Farina, alcun illecito. E ancora: perchè sottovalutare le benemerenze passate di Feltri? Nel 1993 dalle pagine dell'Indipendente difendeva entusiasticamente Mani Pulite. Nel 1994, passato al Giornale, insinua che i giudici Davigo e Di Maggio sarebbero iscritti ad una cooperativa edilizia assieme al giudice corrotto Diego Curtò e a Salvatore Ligresti. Non è vero niente, e Feltri verrà condannato dal tribunale. Nel novembre 2001 viene radiato dall'Ordine nazionale dei Giornalisti (ma allora è un vizio!) all'unanimità per aver pubblicato le foto di bambini vittime di pedofili, pur di vendere qualche copia in più. Dopo 15 mesi l'Ordine trasforma la radiazione in censura con 46 voti contro 42. Un soffio. Nel 2005 viene condannato a Monza per aver diffamato con un articolo su Libero del 2002 il magistrato di Potenza Woodcock. Nel febbraio 2006 condannato a Bologna a 18 mesi di reclusione per diffamazione del senatore Chiaromonte. E non contiamo le querele fatte da Di Pietro al Giornale di Feltri ritirate dietro indennizzi di centinaia di milioni di lire sborsati dall'editore. A novembre 2006 Feltri se la prende col sindaco di Milano (titolo di Libero: Letizia Moratti, ma sei scema?) perché, oltre a voler imporre il pedaggio a chi entra in città con l'auto, ha addirittura «snobbato nelle visite ai morti quelli della Repubblica sociale di Salò». Il che, agli occhi di Feltri, è veramente insopportabile. E` come se il sindaco di Parigi rendesse omaggio ai collaborazionisti filonazisti di Vichy, mettendoli alla pari del generale De Gaulle. Oppure se quello di Madrid onorasse la tomba del generalissimo Franco e dei suoi sgherri. Invece, in Italia, la Moratti viene chiamata a discolparsi per aver ignorato i repubblichini che, oltre a sparare su suo padre partigiano, mandavano gli ebrei nei lager e sognavano per l'Italia un radioso futuro da provincia del Reich millenario. E magari Feltri avrà pure rimpianto, in cuor suo, di non aver potuto indossare la divisa del Terzo Reich...

sabato 1 novembre 2008

il Gran maestro & il Gran bugiardo




Ci mancava solo l'investitura ufficiale (non richiesta) dell'ex Gran maestro della P2, l'ineffabile Licio Gelli, nei confronti del Gran bugiardo (al secolo Silvio Berlusconi) per concludere nel migliore dei modi il quadretto non propriamente edificante intorno alla figura e all'opera (se vogliamo chiamarla così) del Pifferaio di Arcore. Come se non avesse abbastanza problemi (legati al calo di consensi, al pastrocchio della Gelmini, alle turbolenze interne alla maggioranza e chi più ne ha più ne metta) a Berlusconi mancava solo questa inopportuna uscita del suo vecchio pigmalione nonchè tutore ai tempi della P2 (da ricordare la famosa tessera di iscrizione del cavaliere che tante polemiche suscitò all'epoca, anche se ancora non era entrato in politica) per farlo ritornare negativamente al centro dell'attenzione mediatica, seppur indirettamente. Le frasi che il Grande vecchio ha dedicato al cavaliere, durante la conferenza stampa di presentazione di una nuova trasmissione televisiva di Gelli di cui francamente non sentivamo l'esigenza, hanno provocato polemiche a non finire in un momento non certo felice per il tycoon televisivo. L'aver promosso sul campo Berlusconi come l'unico capace di portare avanti le malsane idee gelliane (con tutto ciò che ne consegue) non deve aver fatto sobbalzare di gioia il cavaliere, conscio che tale pubblicità risulta essere più negativa che mai, considerando il pedigree (morale e non solo) del committente. Servirà ora un rapido dietro-front di smarcamento dal Gran maestro ad opera del Gran bugiardo, anche per non alimentare ulteriormente quell'innato e mai smentito legame (personale, di idee politiche e di associazionismo negativo) che ha sempre caratterizzato in passato l'accostamento delle due (losche) figure.