l'Antipatico

domenica 16 novembre 2008

vivere come un invisibile




Di questi tempi parlare di povertà, di crisi economica, di impossibilità per molti di arrivare a fine mese con il misero stipendio percepito è un pò come parlare della pioggia che cade sul bagnato, accentuando se possibile il già eccessivo disagio personale di chi fatica a sopravvivere, non a vivere. Partendo da questo assunto ci siamo imbattuti sulle colonne de l'Unità (a proposito, ci piace molto il nuovo look voluto da Concita De Gregorio) in un pezzo di rara bellezza e cruda efficacia, a firma di Claudio Camarca, scrittore non nuovo a performance di questo genere, che ci fa entrare (quasi con un effetto tridimensionale) nel mondo dei poveri, dei nullatenenti, degli emarginati dalla società che cercano disperatamente di non scomparire, inghiottiti dalla noncuranza e dall'indifferenza di quanti invece una casa e un piatto caldo ancora se lo possono permettere, di questi tempi. Il pezzo di Camarca si intitola "Gli invisibili. =Ho vissuto frugando nei cassonetti=" ed è da leggere tutto d'un fiato. Per capire il senso, o il non senso, di determinate situazioni, la cosa migliore da fare è il crearle ed immergervisi. Questo ha fatto Claudio Camarca, vivendo come vivono tanti "invisibili" e raccontando il tutto nell'unico modo appropriato, nel quale spicca la quasi assenza di virgole che possono ingentilire il testo e darci il tempo per un respiro; frasi corte e secche quasi come schiaffi e che, come questi, fanno male, come fa male la verità quando ci dice come vivono gli emarginati, gli appestati del ventunesimo secolo, nella società creatrice degli "invisibili". Buona lettura (e buona riflessione). L'acqua sputa attraverso la fessura scavata nella lamiera. Gocce di ruggine sulla coperta militare. Mi tremano le ossa. Acre puzzo di umidità. Erika tossisce mentre prepara il caffé sul fornello da campo. Strofina il dorso del piede contro la caviglia. Infradito, calzettoni in cotone, tuta da ginnastica blu. Starnutisco. Echeggiano le campane della chiesa. Toni, suo marito, siede sulla branda e si passa le mani sulla faccia. Occhi chiusi, labbra serrate. Piove da tutta la notte. Le pareti della baracca gemono e si gonfiano. Sono le sei del mattino di un altro giorno da cancellare. Benvenuti nel girone infernale dei flussi migratori. Giusto sotto casa nostra. Girato l'angolo. Un passo dal supermercato. Dieci catapecchie tirate su per grazia dello spirito santo. Pareti in cartone pressato e tetto in lamiera. Materassi buttati su tappeti laceri. Riscaldamento delle stufe a cherosene. Una lampadina impiccata alla batteria di una automobile. Uomini e donne di altri paesi. Rumeni e moldavi e albanesi. Una masnada di bimbetti pallidi dai sette mesi ai nove anni. Toni mi serve il caffé nel bicchiere di carta. Scuote la testa e spalanca il sorriso ingiallito. Non capisce cosa diavolo sia venuto a cercare. «Chi cazzo te lo fa fare». Erika esce con in mano il rotolo di carta igienica. Per buona ventura il torrente è vicino. Esco a mia volta. Lavo la faccia nell'acqua gelida che riempie il bidone. Panni ad asciugare tra una baracca e l'altra. La carcassa di una Honda 500cc. Il cagnetto senza nome scappa via, si volta, mi squadra di sottecchi, trotterella. Dalle baracche si levano le rimostranze dei bambini impegnati con la scuola. Figli di migranti costretti irregolari accettati ipocritamente agli studi elementari. Herman sorge da un cespuglio, richiude la patta, fa un cenno di saluto, entra in casa. Pioviggina. Dalla terra sbuffa una nebbia impalpabile, un'anima caliginosa distesa sulle cose. Mi asciugo con la maglietta.Erika lavora da badante. Un avvocato, perbene, gentile, ma vecchio e in carrozzella. Prende tre autobus per andare e tre per tornare. Due ore di traffico quando va bene. Si imbelletta, riassesta i bellissimi capelli neri, pulisce le scarpe. Allontana lungo lo stradello sbrecciato, attenta alle pozzanghere, ai rovi, alle scorie edili defecate dai camion. Io e Toni ci facciamo la prima birra di giornata. Toni vanta sette fogli di via. In Italia da cinque anni. Clandestino. Come quasi tutti gli altri. Scarti delle sanatorie. Ciarpame senza nome. Inesistenti venuti a pietire un'occupazione, bassa manovalanza, qualche moneta per camminare eretti a palesare una dignità. In Romania era odontotecnico. Qui da noi si industria. Pulisce cantine, trasloca appartamenti, pittura e vernicia, ripara caldaie, rassetta giardini. Oggi raccogliamo vuoti di bottiglia. Ce ne andiamo in giro, io e Toni e Herman. A zonzo per la borgata. Livida, fredda. Il cielo è un coperchio azzurro metallizzato. Noi tre ce ne camminiamo con la gente che ci guarda. Herman spinge il carrello del supermercato. Indossiamo pantaloni stinti e scarpe da ginnastica slargate e maglioni lisi. Fermiamo davanti ai cassonetti dell'immondizia. Rovistiamo all'interno. Deprediamo le bottiglie in vetro. Strascichiamo al cassonetto successivo. La gente ci guarda e non ci vede. Trasfigura quello che registra. Noi siamo gli avanzi dell'orda. I ladri, i magnaccia, gli assassini. Il bubbone purulento scaturito da questo sortilegio denominato globalizzazione. Le mamme ci indicano ai bambini. Le ragazze insospettiscono. Gli automobilisti non frenano, scartano all'ultimo momento, pigiano il clacson e masticano l'invettiva.Curioso rovistare nei cassonetti. Ci spenzoli dentro. Con il tronco e la testa. Le braccia protese a caccia del tesoro nascosto. L'odore marcito che risale le narici e trafigge lo stomaco. Scovi di tutto. Metafora gridata del benessere che nemmeno ci accorgiamo di vivere. Abbranco una confezione da sei di scatolette simmenthal scadute da una settimana. Mangiamo sul posto. Potrei farne a meno. Ma non voglio offendere i compagni. E poi, sacchi di pane raffermo, confezioni di biscotti, vestiti seminuovi, uno stereo portatile appena scheggiato, un paio di scarpe, una sedia, bambole e palloni e un aquilone, libri, l'insegna al neon di un negozio di barbiere.Tiriamo tardi. Cassonetto dopo cassonetto. Alle undici ci arrendiamo stremati. Puzzo di sudore rappreso. Stravacchiamo sul bordo del marciapiede. Herman offre una sigaretta senza filtro. La Volante della Polizia rallenta, squadra, tira dritto. Meglio alzarci e levarci di torno. Entriamo nel bar a berci una birra.Herman si è fatto la galera. Due anni. Condanna per furto con scasso e minacce e lesioni. Decreto di espulsione dal territorio italiano. E' sempre rimasto qui a Roma. Lavorato come cameriere in due ristoranti. Servito nei bar sul lungomare di Ostia. Muratore e manovale e carpentiere. In Kosovo tiene moglie e due figli. Il primogenito, malato alla nascita. Polmoni. Beve birra e fuma senza filtro e ha lo sguardo vuoto e pesante. La cassiera afferra il denaro portando indietro la testa a mettere tra noi maggiore distanza. Mi sento come un foruncolo sul culo di Dio. Toni ci guida allo smorzo. Chiede lavoro. Risposta negativa. Di questi tempi, la gente non ristruttura. Deflazione, recessione, niente liquidi. Toni insiste. È pronto a qualsiasi fatica. Un mese che gira a vuoto. Si offre a pochi spiccioli. Il capomastro scuote la testa. Nemmeno la fatica di esprimersi. Spingiamo il carrello. S'è fatta ora di pranzo. Piove e fa freddo. Ho la felpa inzuppata, le scarpe fradice, i pantaloni incollati alle gambe. Dolore alla schiena. Per l'umidità che si rapprende alle ossa. E perché cammino a vuoto da cinque ore. Sono anche incazzato. Nessun motivo specifico. Parcheggio del supermercato. Herman si tuffa nel cassonetto all'entrata. Automobili cariche di buste con la spesa. Famiglie a discutere le portate della cena. Gli altoparlanti sfiatano offerte e buoni acquisto. La vigilanza ci soppesa attraverso due telecamere virate nella nostra direzione. Herman sorge tirandosi dietro un passeggino accartocciato. Ha le ruote funzionanti. Torna utile. Alla pompa di benzina troviamo due pakistani. Nelle ore di pausa, servire gli automobilisti diventa un buon modo per sbarcare la giornata. Toni ci pensa un po' su. Se sia il caso di far la voce grossa e guadagnarsi il posto al sole. Quindi, incassa la testa nelle spalle e sprofonda le mani nelle tasche dei pantaloni. Ci avviamo lungo lo stradone. Risaliamo il ponte sulla ferrovia. Corvi gracchiano dai fili dell'alta tensione. I miei compagni hanno pensato di tornarsene a casa. Se lo chiedono ogni giorno. Rientrare in patria e buttarsi alle spalle queste giornate. «È che ti muori di fame. Con l'inverno che sprofonda a meno trenta. Senza denaro per pagare il riscaldamento». Scorgiamo le baracche, un filo di fumo soffia attraverso il tetto in lamiera. Mi butto sul materasso in terra. Lo stomaco gorgoglia per la fame. Ha smesso di piovere. Toni apre una conserva di fagioli cannellini. Divide a metà nel bicchiere di carta. Mangiamo in silenzio. Posate in plastica e birra in lattina. Picnic miserabile. «Ti viene rabbia. Per come vivi. Per come sei ridotto. Ho vergogna. Non riesco a fare l'amore con mia moglie. Non telefono ai miei figli. Studiano. Una città nel sud della Romania. Ho proibito loro di venirci a trovare. Credono che abbia un appartamento, un lavoro da operaio, una macchina. Per questo non torno. Come faccio a dirgli la verità. Non potrei più essergli padre». Pesco i cannellini in fondo al bicchiere. Ci facciamo un pisolino. Così non c'è da parlare e il pomeriggio procede al tramonto. La polizia arriva per l'ora di cena. Una vettura senza insegne. Due agenti in giacca di pelle da poco prezzo e la faccia lunga di chi la vita se la sente sulle spalle. Annunciano lo sgombro. Da lì a tre giorni. Erika offre da sedere. Qualcuno porta una bottiglia di vino. I ragazzini si rincorrono lungo il terrapieno che raccoglie il torrente inquinato. Gli agenti hanno poco da dire. Snocciolano frasi mandate a memoria. «Tolleranza zero». «Sicurezza per i cittadini che pagano le tasse». «Cambio di rotta con il recente passato». «Accoglienza mirata». Toni chiede in quale campo verranno spostati. Gli agenti si guardano la punta delle scarpe. Uno accende la sigaretta. Fa girare il pacchetto. La notte scende rapida. I ragazzini ancora si rincorrono. Le grida riecheggiano nel nulla intorno che pare ammassarsi fitto.

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