l'Antipatico

domenica 31 gennaio 2010

Brunetta, il cabarettista della politica


Ho sempre avuto l'impressione che molti ministri dell'attuale governo Berlusconi siano in politica a causa di insuccessi riportati nelle loro precedenti attività. Basti pensare alla Carfagna, stellina mancata del firmamento televisivo o alla Brambilla, aspirante conduttrice delle notti trasgressive di Italia1, per non parlare poi del capocomico assoluto: Silvio da Arcore. Ma ce n'è uno che, a mio modesto avviso, è un cabarettista nato. Uno che potrebbe reggere da solo la scena davanti a una platea tipo Zelig. Parlo di Renato Brunetta che più che ministro per la Pubblica Amministrazione e per l'Innovazione renderebbe di più come tragicomico esponente di frizzi e lazzi. A ben vedere, con lui non si correrebbe mai il rischio di annoiarsi o di non ridere. Con le sue uscite in tv e sui giornali, con le sue strampalate dichiarazioni è indubbiamente diventato un maestro nell'arte della politica ridotta a mero spettacolo. Insomma, quel che si dice di un vero talento della comicità, ben consapevole del fatto che le fortune di un umorista sono essenzialmente legate alla sua capacità di rinnovare in continuazione il suo repertorio. L'ultima battuta del Brunetta macchietta è stata quella sulla soluzione avanzata per i giovani che non si decidono ad abbandonare casa per avventurarsi, in solitario o in coppia, nella vita. Cosa fare allora per sciogliere un simile nodo? Ecco la brillante soluzione avanzata dal ministro veneziano: obbligare per legge tutti i ragazzi a uscire di casa al compimento del diciottesimo anno d'età. La cosa tragica è che, oltre ad insistere su questa bislacca linea (http://rassegnastampa.formez.it/rassegnaStampaView2.php?id=205206), il ministro cabarettista ha pensato bene di proporre un'altra esilarante legge per destinare, a tutti questi giovani obbligati a sloggiare, un benefit di 500 euro da spesare con una congrua e speculare riduzione sulle pensioni di anzianità. Lo spettacolo ha così raggiunto, quasi involontariamente, toni tragicomici. Tanto che per far calare in fretta il sipario di cotanto teatrino è dovuta partire una nota ufficiale di presa di distanza da Palazzo Chigi (e m'immagino i singulti e le risate dell'altro fregnacciaro che abita in quel Palazzo). Ma anche questa non è bastata. Stizzito per l'insuccesso della sua rappresentazione, il nano Brunetta ha reagito tacciando l'Italia intera di essere "un Paese di ipocriti" nel quale troppo si dà ai padri e troppo poco o nulla ai figli. Una battuta, questa, che si rivela per una volta tutto meno che umoristica nella sua essenziale veridicità. Basti pensare al fatto che la continua crescita del debito pubblico altro non costituisce se non un pesante aumento delle tasse a carico delle future generazioni di italiani, nell'ordine di circa 140 miliardi in più sotto la gestione dell'attuale governo (e questa non è una battuta ma dati certificati). Un dettaglio, comunque, cui finora il risibile Brunetta non sembra prestare grande attenzione: nè come ministro nè come brioso intrattenitore. Fine dello spettacolo.

giovedì 28 gennaio 2010

la politica, i milioni rubati e la disonestà dell'uomo


L'inchiesta sugli sprechi della Maddalena, curata dai giornalisti di Repubblica Paolo Berizzi e Fabio Tonacci (http://www.repubblica.it/politica/2010/01/28/news/g8-maddalena-2101455/) , ha contribuito a farmi radicare una convinzione che la politica della Seconda Repubblica non fa molta fatica nel confutare: quella della ruberia perenne, a tutti i livelli. Partendo dal presupposto che nessun uomo ha in odio il denaro e che l’unico che se ne liberò per soccorrere i diseredati, lo fecero santo (San Francesco), possiamo affermare senza tema di smentite che si misura l’onestà di un uomo esclusivamente dal suo comportamento con il denaro. Quando è suo, può anche essere uno scialacquatore, un dissipatore, un prodigo, ma quando è degli altri (denaro pubblico per esempio), allora il comportamento deve essere severo, accorto, parsimonioso e, se ne approfitta per proprio uso e consumo, è un disonesto. In parole povere, un ladro. Purtroppo viviamo una stagione di disonestà diffusa, è difficile incontrare uomini che siano insensibili alle lusinghe che il denaro è in grado di fornire a chi lo maneggia. Se ne approfitta e ce ne se appropria con gran disinvoltura, incapaci di resistere al fascino di quelle banconote che possono aggiungere alla nostra ambizione (politica, lavorativa o sociale) anche gli agi della ricchezza e del piacere. È un andazzo comune: si ruba (alcuni integrano, come diceva Totò) a tutti i livelli. Integra (ruba) l’amministratore del condominio che acconcia i conti a proprio uso e consumo; integra la cameriera o la badante o il maggiordomo a cui è affidata la spesa della casa; integra il generale che usa l’automobile blu dello Stato per accompagnare la signora a fare shopping, froda quando usa l’aereo di Stato per rifornirsi di pesce fresco del Tirreno per poterlo ammannire ai convitati del suo banchetto. Integra il medico in ospedale, il primario quando s’intasca l’onorario extra e non versa il dovuto all’Ente ospedaliero da cui dipende; integra (anzi fa peculato) il ministro, l’assessore, il sindaco, il governatore di Regione che finanzia la sua lussuria attingendo il denaro dalla biblioteca (si fa per dire) del suo ufficio. Nessuno che si faccia scrupolo dell’onestà, accucciata in un angolo quasi come un cane bastonato cui è stato tolto il diritto-dovere di abbaiare ai ladri che fanno man bassa. Ed integra perfino il magistrato cui è conferito il compito di giudicare le controversie miliardarie fra miliardari e che non si fa scrupolo se qualche milioncino extra rimpingua il proprio conto in banca. Così la Mafia, la Camorra, la Sacra corona unita, la 'ndrangheta e la delinquenza comune, proliferano e uccidono per impossessarsi del denaro, tanto denaro, sempre più denaro. Il tempio della Finanza, la Borsa, è il ricettacolo di disonestà miliardarie delle quali le vittime sono o lo Stato improvvido o il privato che ambiva ad arricchirsi a spese dei gonzi. E più passa il tempo e più la faccenda diviene di normale amministrazione. E si casca dalle nuvole quando si scopre la malversazione, il peculato, la concussione, la bancarotta dell’imprenditore, dell’amministratore pubblico che si è appropriato del denaro che doveva solo amministrare. C’è anche chi, scoperto con le mani nel sacco, si dimette dall’incarico e raccoglie unanimità di consensi per il gesto nobilissimo che lo riscatta da ogni ingiuria e malevolenza. E si va tronfi del gesto compiuto e ci si aspetta un reincarico con appannaggio più remunerato. Appunto perché di uomini così altruisti c’è carenza, ed i partiti (tutti i partiti) vanno orgogliosi di annoverarne qualcuno fra le file dei loro appartenenti. Ed è così che la gioventù impara come sia proficuo fare politica. E la politica è divenuta un mestiere ben remunerato, con annessi e connessi, come optional da saper scegliere. Naturalmente non c’è dubbio, dietro ogni grande uomo (o ladro che sia) c’è sempre una donna allettatrice. “Chercher la femme!”, è l’imperativo categorico che accompagna ogni ruberia venuta alla luce. C’è sempre una relazione illecita quando un uomo di potere si abbandona alle lusinghe ossessive del denaro. “Il y a une femme dans toutes les affaires”, scriveva Dumas figlio nei suoi romanzi polizieschi. Ma non è una scoperta. E' solo una presa d’atto. Chiedere in proposito all'ex sindaco Flavio Delbono...

lunedì 25 gennaio 2010

falsi d'autore


La notizia della visita fiscale di Berlusconi al San Raffaele di Milano (http://www.espertoseo.it/16661/notizie/berlusconi-sottoposto-a-visita-fiscale.html) mi ha fatto riflettere su quanto, a volte, sia difficile separare il vero dal verosimile, oppure il falso dal falso d'autore. Infatti non è detto che nella tecnica della comunicazione non si dia per scontato che, dopo qualche tempo, la verità venga comunque a galla a smentire la bufala. In genere viene calcolato che la verità potrà essere percepita soltanto da una percentuale bassa di quanti sono stati emozionati dalla carica dirompente della notizia propalata. E' stato così per l'11 settembre del 2001. La popolazione mondiale è stata indotta a credere che le Torri di New York siano state attaccate da aerei controllati da terroristi e in conseguenza di ciò siano crollate. L'Afghanistan, indicato subito come sede dei terroristi, è stato aggredito da una coalizione di eserciti occidentali ed è tuttora sotto il loro controllo. Se, dopo, diventa prevalente la verità che l'attacco alle Torri gemelle sia stato provocato dagli stessi americani e che non era assolutamente possibile il loro crollo, questo diventa secondario. Intanto l'obiettivo dell'operazione (e cioè l'invasione dell'Afghanistan) è stato realizzato. Il Segretario di Stato Usa Powell, davanti alle Nazioni Unite, esibì prove false (assolutamente false) delle armi di distruzione di massa in possesso dell'Iraq, ottenendo il via libera ai bombardamenti e poi all'invasione. Quando lo stesso Powell ammetterà che era tutto un falso costruito dalla Cia, l'Iraq aveva avuto centinaia di migliaia di morti, la sua entità come Stato sovrano completamente distrutto, il suo Presidente Sadam Hussein impiccato e vilepeso davanti gli occhi del mondo e, ciliegina sulla torta, la scelta degli Stati Uniti di costruire una delle più grandi basi militari nucleari di tutto il pianeta al centro di Bagdad.
Altre due operazioni di grosse bufale sono tuttora in corso: una ai danni dello Yemen e l'altra dell'Iran, sospettato di volersi costruire una bomba atomica. Non è da escludere che, con un paio di apparizioni ad hoc di Osama Bin Laden (che, come un orologio a cucù, esce a fare la sua cantata funebre ogni volta che serve alla strategia della comunicazione americana), si potranno accelerare anche i tempi dell'invasione e della distruzione di queste due nazioni. Molti pennivendoli dell'Occidente, a fronte di chi solleva dubbi o sospetti sulle verità proclamate dalla Casa Bianca e dai suoi satelliti, usano la parola complottismo. In parole povere, secondo loro, tutto ciò che contraddice quanto riferito dai massmedia è frutto di complotto inattendibile. L'attendibilità è riservata soltanto alle veline dell'ufficio stampa del Pentagono o della Cia. Per tornare alle cose di casa nostra, abbiamo avuto l'aggressione a Silvio Berlusconi messa in dubbio
anche all'estero (http://www.youtube.com/watch?v=Lqz3E2SnAFk&feature=PlayList&p=5B6F8CEB62E844D8&playnext=1&playnext_from=PL&index=2) per tanti piccoli dettagli che sono stati trascurati dal regista dell'operazione. Oggi il Tribunale di Milano chiede a Berlusconi di sottoporsi a perizia medica per la constatazione e la verifica dei danni provocati dalla statuetta lanciata da Tartaglia. Immagino il sentimento che animerà il Pifferaio: come si permette l'odiata Magistratura di voler mettere le mani sulla sua bella faccia che in pratica appartiene all'eletto dal popolo il quale, in forza del plebiscito ricevuto, si proclama al di fuori ed al disopra di ogni legge? Alcuni dubbi, comunque, se non nella mente dell'eletto almeno nella mia rimangono: che cosa ha fatto Tartaglia dalle 9 del mattino all'ora del lancio del Duomo in miniatura? Con chi è stato? Perchè il viso del Caimano è stato mostrato al pubblico dopo essere entrato in auto? Perchè l'auto non è scappata via dal luogo del misfatto a tutta velocità? Perchè è andata al San Raffaele e non all'Ospedale più vicino? Perchè le forze di sicurezza non sono state allertate? Esiste al pronto soccorso del San Raffaele una postazione di Polizia per la redazione dei verbali? Il verbale è stato redatto e da chi? Il fazzoletto o i fazzoletti insaguinati sono ancora a disposizione della Magistratura? Perchè i cerotti esibiti non corrispondono alle ferite che sono state mostrate al pubblico? Perchè i bollettini medici del San Raffaele sono stati fatti dal medico personale di Berlusconi e non dalla direzione sanitaria? Tante domande, tanti dubbi, mentre crescono in Italia e all'estero le perplessità sulla veridicità di un evento che ha infiammato la lotta politica italiana. La destra ha attribuito all'opposizione la responsabilità di mandante morale dell'attentato. Berlusconi, da quel giorno, ha goduto di particolari accondiscendenze da parte del Presidente della Repubblica e del Partito Democratico. Violante, D'Alema e altri si sono spinti fino al punto di chiedere misure legislative per liberare il novello Scarface dal fastidio di processi. Insomma, il gesto di Tartaglia ha creato un clima di vittimismo simile a quello che si creò attorno a Mussolini nel 1926 per l'attentato di Zamboni. A conti fatti viviamo nel mondo della menzogna del potere. Un mondo che gode della complicità e della fattiva collaborazione di migliaia di giornalisti che collaborano alla costruzione di mostruose accuse e sono corresponsabili dell'inarrestabile scivolamento verso la dittatura. Quella dolce dittatura che solo l'onorevole Di Pietro continua a sentire, quasi a somatizzare. Mentre tutti gli altri continuano a credere alle favole. E al Duomo che vola...

martedì 19 gennaio 2010

metà statista, metà mariuolo


Quando si parla di uomini politici come il fu Benedetto Craxi detto Bettino è anche pleonastico non suscitare dibattiti e contrapposizioni di giudizio. A dieci anni dalla sua scomparsa (da esule o da latitante poco importa) i veleni e i retroscena più o meno realistici stanno accompagnando il ricordo di un uomo certamente di peso, nel senso strettamente politico. Di Bettino ne ho già parlato nell'altro mio blog (http://tpi-back.blogspot.com/2009/12/tornano-i-devoti-del-cinghialone.html); qui mi sembra opportuno affidarne la valutazione e il libero convincimento di ognuno di noi, riferito alla sua figura, riproponendo lo speciale de La Storia siamo noi andato in onda lunedì scorso, 11 gennaio, in prima serata su RaiDue (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo640480.aspx?id=708) che consiglio vivamente di rivedere. Poi, alla fine, ognuno potrà decidere, in tutta onestà, se ritenere il fu Benedetto Craxi, detto Bettino, un grande statista o un grande mariuolo. La storia potrà confermare. Oppure no.

domenica 17 gennaio 2010

immobilismo politico & prospettive inesistenti


Osservando gli ultimi tre lustri della vita (politica e non) del nostro Paese mi sono reso conto di avere, davanti ai miei occhi, una fotografia quasi precocemente ingiallita nel suo insieme. Un'immagine quasi desolante di un Paese immobile che, di conseguenza, viene superato dagli altri, vicini e meno vicini. Un Paese che sembra aver perso prospettive, in maniera proporzionale ai risibili investimenti sul proprio futuro. Eppure l’Italia degli ultimi quindici anni è stata attraversata da una serie di cambiamenti superiori a qualsiasi altra democrazia avanzata. L’intero arco costituzionale è mutato. Partiti di diverso orientamento politico si sono succeduti al governo nazionale e a molti livelli locali, anche loro oggetto di profondi cambiamenti istituzionali. Sono state varate riforme importanti, in campo economico, all'inizio del quindicennio in esame: tutto cominciò con le riforme concertate sulla contrattazione, sulle pensioni, seguite da modifiche del mercato del lavoro. Un elenco parziale potrebbe continuare con la menzione delle riforme dell’università e della scuola. Ingenti privatizzazioni sono state portate a termine, il sistema bancario è stato ristrutturato profondamente, nuove norme del diritto fallimentare e sull’antitrust sono state approvate. Eppure, nonostante questo notevole sforzo riformatore, i risultati sono sconfortanti e anzi la retorica delle riforme di cui l'Italia ha bisogno imperversa in maniera tremendamente superficiale nel dibattito pubblico. Si tratta di una retorica che tende a riportare costantemente le lancette dell’orologio all’anno zero, invocando, non sempre in maniera responsabile e credibile, un nuovo inizio da cui il Paese possa finalmente rinascere.
Investigare le cause profonde del fallimento d’insieme di quindici anni di riforme esula chiaramente lo spazio di un post come quello che sto scrivendo. Tuttavia mi viene da sottolineare il dato più macroscopico, quello legato al fatto che le pur lodevoli iniziative che diversi governi hanno intrapreso, non sono mai state caratterizzate da una visione d’insieme e da un progetto politico coerente, finendo per rimanere intrappolate dalle tendenze corporative e conservatrici dei diversi settori, e senza la capacità di narrare un futuro possibile per l’Italia nel suo insieme. E’ la costante assenza di una narrativa nazionale, con una chiara idea di progresso radicata nell’esperienza italiana, a caratterizzare il quindicennio della transizione infinita. Questa assenza, al contrario, ha alimentato la retorica delle riforme palingenetiche, sacro Graal degli ultimi quindici anni. In assenza di una visione, si lascia intendere che essa eppure esiste, appena dietro l’angolo.
Le esperienze riformatrici di successo che, in epoche diverse, hanno caratterizzato altri Paesi, non sono mai avvenute in maniera bipartisan, con grandi accordi tra governo e opposizione. Al contrario sono state frutto, a destra come a sinistra, di una visione complessiva efficace, partigiana, e, soprattutto, chiara. Si possono citare esempi diversi tra loro, come quello dei conservatori della Thatcher, l’austerità delle riforme di Mitterand, la durezza liberista di Reagan o la terza via di Tony Blair. In tutti questi casi, riforme in settori economici e sociali molto diversi tra di loro non sono state portate avanti in isolamento le une dalle altre, ma combinate da una narrativa fondata sulla esperienza nazionale che non ripudia il passato, ma lo affronta per comprenderlo e superarlo. L’importanza di una narrativa nazionale coerente non è legata solo alla necessità democratica di raggiungere consenso popolare su un progetto comprensibile. Il consenso della maggioranza per un periodo sostenuto di tempo è una condizione certamente fondamentale. Tuttavia, alla luce dei dati snocciolati ogni anno dall'Istat, sembra chiaro come una coerenza di fondo sia necessaria affinché le istituzioni economiche e sociali riformate possano generare complementarietà positive rafforzando a vicenda gli effetti positivi dei cambiamenti, anziché generare gli incentivi perversi che sembrano dominare attualmente il nostro Paese. Infatti, quel che caratterizza l’Italia di oggi è l’assenza di un modello di capitalismo coerente, oltre alla coesistenza di difetti tipici di modelli diversi tra loro, come quelli più coordinati o più liberali, senza che essi possano essere compensati da altre istituzioni maggiormente complementari. Gli angoli fondamentali tra cui individuare complementarietà, e sostenere riforme per ridurre gli incentivi perversi di cui soffre oggi l’Italia, sono quattro: il sistema del credito, il sistema di relazioni industriali, il sistema della formazione professionale ed universitaria, ed il diritto societario, che determina le relazioni tra le imprese. Gli scorsi quindici anni ci raccontano una storia caratterizzata da numerose riforme, in questi quattro ambiti, rimaste zoppe o, talvolta peggio, concepite in maniera avulsa dal contesto di Paese a cui si riferivano. Riforme che hanno scontentato molti, senza raggiungere risultati soddisfacenti. Riforme senza visione e senza un originale carattere nazionale, due cose delle quali, dopo quindici anni di transizione infinita, si sente quanto mai bisogno. Cosa ci riserverà il futuro a cominciare da questo nuovo decennio del terzo millennio? Nessuno lo sa. Nemmeno il più ottimista dei berlusconiani. Il che è tutto dire...

giovedì 14 gennaio 2010

le solite balle berlusconiane


E' un pò come rimettere l'orologio sentendo il cannone del Gianicolo a mezzogiorno a Roma. Ogni qualvolta il presidente del Consiglio annuncia alla nazione un qualsiasi provvedimento (e stavolta l'aveva fatto in modo alquanto clamoroso ed inaspettato, concedendo la prima intervista al nemico: http://www.repubblica.it/politica/2010/01/09/news/ritorno-berlusconi-1885954/), state pur certi che, tempo 24 ore, ci sarà l'immancabile marcia indietro: un classico berlusconiano. E questa volta ha davvero qualcosa di patetico la retromarcia sul tema delle tasse compiuta dal novello Scarface (azzeccatissima definizione del mio amico DAVIDE) che aveva ripresentato al giornalista di Repubblica il suo antico sogno della riforma a due aliquote Irpef: al 23 e al 33 per cento. Ed è una tristezza che induce a pensare quanto continui a pesare, sulla nostra società, l'insieme degli interessi e delle clientele che generano la spesa pubblica e che sono schierati a difesa dello status quo. Perché (e di questo sono fortemente convinto) se il governo volesse ridurre le uscite e accantonare i progetti faraonici, non c'è dubbio che un ridimensionamento delle imposte sarebbe possibile. Ma il premier ci ha detto chiaramente che se dovesse scegliere tra la rivoluzione liberale (e la difesa di questa Italia in declino) e i suoi vizi, egli opterebbe senza indugio per la seconda soluzione. Le recenti preoccupazioni del suo fidato scudiero economico, l'ineffabile Giulio, in merito alla tenuta dei conti pubblici (rievocate da Berlusconi quale impedimento al taglio delle imposte) potevano anche essere prese nella giusta considerazione, ma non rappresentavano di certo un ostacolo insuperabile. A mio modesto avviso si possono aiutare sia il bilancio pubblico che l'economia produttiva italiana se insieme al taglio del prelievo fiscale si procede anche in altri ambiti. E' un dato acclarato quanto sia urgente liberare lo Stato dal fardello degli enti pubblici, usando le risorse ottenute dalla cessione di Eni, Enel, Poste Italiane e tutto il resto per ridimensionare il debito pubblico e di conseguenza gli interessi da pagare. Evidentemente, i privilegi e le logiche privatissime di quanti amministrano il parastato hanno fatto premio sulla necessità di aiutare l'economia nel suo insieme. Un tema alquanto importante è sicuramente il federalismo fiscale perché, se quello delineato dal governo fosse davvero tale (prospettando un sistema di imposte manovrabili e bilanci veramente locali), sarebbe più che legittimo attendersi una razionalizzazione dei servizi, una riduzione delle uscite, un ridimensionamento degli oneri. Se però non sarà così (e all'orizzonte non vedo nulla di buono), allora avremo solo un pericolosissimo federalismo di spesa, con tasse decise da Roma (dal duo B&B) e solo più soldi lasciati in periferia, con un conseguente aumento dei gravami sul bilancio generale. Un motivo in più, quindi, per non tagliare le imposte. Altro dato importante è costituito dall'esigenza di cancellare quell'insieme di aiuti alle imprese che, per loro natura, seguono logiche discrezionali anche quando sono venduti come interventi di carattere ecologico. Ed egualmente si può dire che una riduzione importante delle uscite verrebbe dalla rinuncia (da parte dei ministri berlusconiani) a giocare a Monopoli con i soldi altrui, rinunciando a mettere le mani nelle tasche dei contribuenti. Insomma, se si mettessero in soffitta (come sarebbe giusto fare) il ponte sullo Stretto, la Tav, la Banca del Sud, il nucleare di Stato e ogni altra grande opera variamente keynesiana (e berlusconiana) sarebbe possibile trovare risorse da lasciare a chi davvero produce ricchezza. Con ogni probabilità, nel momento in cui ha rispolverato (dopo ben 16 anni!) il vecchio progetto di abbassare le imposte e realizzare il progetto che fu tremontiano delle due aliquote, Berlusconi ha avuto l'ultima chance storica di fare davvero qualcosa di liberale. La goffa smentita di sé delle ultime ore segna la definitiva fine non già del suo sogno, ma di quello cullato da quanti hanno pensato che egli potesse aiutare il Paese a muoversi verso una riduzione della sfera del potere pubblico. Non sapendo che il Caimano (come il coccodrillo) mangia i suoi figli (o propositi, che dir si voglia), versando le scontate e relative lacrime. Tanto per cambiare.

lunedì 11 gennaio 2010

un buon consiglio per il presidente (del Consiglio)


A volte basta poco per far capire le cose, per rendere edotti di qualche situazione o di qualche mancato gesto. Basta (per esempio) scrivere un articolo di giornale, pubblicarlo e renderlo il più visibile possibile affinchè raggiunga lo scopo prefissato: quello di far capire al destinatario della missiva il senso e la morale di ciò che si è scritto. Non fa eccezione a tutto ciò la giornalista CATERINA SOFFICI, la quale questa mattina (dalle colonne de IL RIFORMISTA) dà un bel consiglio al presidente del Consiglio, appena tornato in piena attività istituzionale. Lo invita in pratica ad andare a Rosarno dopo i tragici fatti degli ultimi giorni per far sentire la presenza dello Stato in quella terra dimenticata. Giustamente la quarantenne giornalista fiorentina (passata con nonchalanche da LA REPUBBLICA a L'INDIPENDENTE, da ITALIA OGGI a IL GIORNALE...) sottolinea il fatto che il presenzialismo berlusconiano c'è sempre stato in momenti più o meno tragici, come a Napoli per la spazzatura e in Abruzzo per il terremoto; non vede quindi come non possa far sentire la sua presenza anche lì in Calabria. Appoggio la tesi della Soffici e vi invito a leggere integralmente il suo pezzo.

Perché Berlusconi non va a Rosarno? Perché non porta la sua solidarietà alle popolazioni calabresi, come ha già fatto durante il terremoto in Abruzzo? O come fece a Napoli, quando le strade erano piene di monnezza e di rifiuti? Non sa se portare la solidarietà contro la 'ndrangheta o contro le violenze dei clandestini? Lo faccia per entrambe le cose, così non sbaglia. Qualcuno alla fine dovrà pure rappresentare lo Stato in questa vicenda.
Ancora non un esponente del governo si è materializzato nella piana calabrese, eppure non mancano certo le scorte, gli elicotteri e i mezzi (li paghiamo noi) per portare quaggiù almeno un sottosegretario, uno straccio di governante che dica: eccomi, sono lo Stato. Finora abbiamo sbagliato tutto, scusateci. Vi garantiamo però che da ora in poi prenderemo una serie di provvedimenti per cui episodi come questi non si potranno più verificare. Invece niente. Lo Stato continua a essere il grande assente in questa battaglia da Far West che si consuma tra poveracci. Con la Lega potente alleato di governo sarebbe troppo chiedere a Berlusconi una presa di posizione forte, stile Obama dopo la meschina figura dell’esplosivo nelle mutande sfuggito al controllo della Cia. Obama, nel bene e nel male, si è comportato da Presidente degli Stati Uniti: io mi assumo la responsabilità di quando accaduto perché io sono il capo.
Berlusconi potrebbe dire: io sono il presidente del Consiglio, mi assumo la responsabilità di quanto è accaduto. Manderò a Rosarno l’esercito per controllare che la malavita locale non faccia più uso di manovalanza clandestina. Metterò sotto torchio la ‘ndrangheta, non permetterò più che i negozianti debbano pagare il pizzo, tolleranza zero contro il racket, contro lo sfruttamento, contro i taglieggiatori e i ricattatori. Finché io sarò al governo, cari calabresi, potete stare sicuri che nelle vostre campagne non si verificherà più l’odiosa pratica del caporalato, per cui una persona viene pagata 25 euro per dieci ore di lavoro e se protesta il giorno dopo non avrà più neppure quelli. Colpirò senza pietà chi sfrutta il lavoro nero e chi non ha messo in regola gli immigrati che lavorano in quelle campagne, per raccogliere le vostre olive e i vostri mandarini e le vostre arance.
Sono il presidente del Consiglio e non posso permettere che sul territorio dello Stato che io governo ci siano baraccopoli disumane come quelle di Villa Literno, di Castel Volturno e di Rosarno. Dove gli immigrati vivono nel fango, in mezzo a liquami putridi e nauseabondi, con i bagni chimici e una doccia ogni cento persone. Ecco, cari concittadini calabresi. Io vi prometto che parlare di immigrati clandestini non sarà più una scusa per non intervenire. Che farò pressione tramite il ministro e le prefetture dello Stato, perché le amministrazioni locali si impegnino in prima linea per ripristinare la legalità nelle vostre terre.
Cari abitanti di Rosarno, io sono il presidente del Consiglio e capisco che avete avuto paura. Non si può vivere nel terrore, intrappolati tra la furia degli extracomunitari e la vostra rabbia. Capisco che non potete tollerare di vivere in un territorio dove lo Stato non si è dimostrato in grado di garantire la sicurezza delle vostre case e dei vostri familiari e dei vostri beni. Ma non prendetevela con questi disgraziati, che sono più disgraziati e impauriti di voi. Questa volta non aprirò inutili inchieste, non faremo commissioni parlamentari e non ci nasconderemo dietro le solite chiacchiere di maniera. Vi prometto fatti. Quando il mio ministro Maroni dice che la situazione ci è scappata di mano perché abbiamo troppo tollerato, ha ragione. Giusto, caro Maroni e cari concittadini, abbiamo mostrato troppa tolleranza: ma contro la ‘ndrangheta e l’illegalità, non contro i clandestini.

giovedì 7 gennaio 2010

la Spagna che non t'aspetti...


La conoscenza (e l'amicizia) nata su questo blog con DAVIDE (splendido collaboratore che in quanto a scrittura non è secondo a nessuno) mi ha fatto recentemente gettare un'occhiata sulla situazione economica e sociale della Spagna, penisola nella quale vive e lavora(va) il mio caro amico. Dopo attente letture, la cosa che si evidenzia quasi da sola è la continua impennata del numero dei disoccupati in terra iberica. Nel dicembre scorso i senza lavoro spagnoli sono stati 54.657 mentre il totale dell'intero 2009 è stato di quasi 4 milioni: di questi il 42% sono giovani. E, tanto per gradire, 794.640 di loro sono disoccupati da più di un anno. Questi dati sono stati resi noti dal ministero del Lavoro spagnolo, in particolare dal segretario generale per l'Occupazione, Maravillas Rojo, che ha però precisato: "nel dicembre 2008 i disoccupati erano 139.694", aggiungendo che "...nel 2009 la disoccupazione è aumentata, anche se molto meno rispetto all'anno precedente, e questa tendenza continua a suggerire un rallentamento della distruzione di posti di lavoro". Il dato dei senza lavoro è comunque molto preoccupante, tanto più che la Spagna dovrà, in questo semestre appena iniziato, guidare la presidenza UE cercando di risolvere i problemi che hanno avuto origine dalla crisi economica mondiale. In questi anni, a dire il vero, la Spagna è stata tra i Paesi europei che più si è distinta per le scelte di politica monetarista, applicando con forza le ricette neoliberiste che, se all'inizio hanno evidenziato dei vantaggi occupazionali, successivamente hanno rivelato tutta la loro pericolosità sul piano sociale. Adesso la decisione di Madrid, di porre fra le sue priorità a livello europeo l'uscita dalla crisi, rappresenta quasi una mossa pubblicitaria pe l'opinione pubblica interna, per tentare di far fronte alle difficoltà crescenti che attraversa la Spagna oramai da molti mesi a questa parte. Tanto più che alcune stime prevedono che, tra i sei maggiori Paesi della UE, la Spagna sarà l'ultima a uscire dalla recessione. Le proiezioni degli organismi internazionali indicano che la Spagna potrebbe chiudere il 2010 con tassi di crescita negativi e con una di disoccupazione che (secondo il Fondo Monetario Internazionale) potrebbe arrivare ad oltre 4 milioni e cinquecentomila persone. La stima del governo spagnolo, tuttavia, è un pò meno pessimistica e punta a un tasso di disoccupazione del 18,9% per l'anno in corso. Il presidente di turno della UE, il premier Josè Luis Rodriguez Zapatero, si trova così ad affrontare il più grave aumento della disoccupazione da quando i socialisti sono tornati al potere. Zapatero ha costituito un gruppo di saggi che gli fornirà consigli utili per l'uscita dei Ventisette dalla crisi economica. La prima riunione si è svolta lunedì 4 gennaio e ne hanno fatto parte: l'ex presidente della Commissione europea Jacques Delors, l'ex primo ministro spagnolo Felipe Gonzalez, l'ex ministro dell'Economia ed ex eurocommissario Pedro Solbes, e infine Elena Salgado che nell'aprile scorso ha sostituito Solbes al dicastero economico spagnolo. In buona sostanza tanti nomi utili a dare lustro all'immagine del Paese ma che non serviranno, almeno credo, a risolvere le difficoltà che la Spagna sta attraversando in questo periodo, nè quelle riguardanti l'Unione Europea. Anche se l'augurio (soprattutto da parte del mio amico DAVIDE) sarà francamente diverso.

la Befana, la Polverini & i soliti dibattiti interni


Il vecchio adagio ci ricorda che l'Epifania tutte le feste si porta via, ma la realtà politica di questo inizio 2010 ci dice semplicemente che la campagna elettorale per le Regionali di fine marzo è già in pieno svolgimento. La prima a scendere in campo (curiosamente proprio nel giorno dedicato alla Befana...) è stata Renata Polverini, candidata del Popolo della Libertà alla poltrona della Regione Lazio del dopo Marrazzo. Non è un segreto di Stato la notizia che la sua candidatura ha provocato all'interno della compagine governativa qualche mugugno a causa di qualche sua velata simpatia tinta di rosso per la sua attività di sindacalista. Si sa come Feltri dalle colonne del Giornale l'abbia ferocemente attaccata, stroncandone sul nascere ogni possibile appoggio editoriale alla causa comune. Di certo anche la Renata non si sottrae a qualche critica visto e considerato la sua scelta della squadra che la sosterrà durante la campagna elettorale: nomi altisonanti come il senatore in odore di camorra Claudio Fazzone (già visto ad Annozero), il senatore Paolo Barelli e il sindaco di Fiumicino Mario Canapini. Non c'è che dire, tutta bella gente con l'aggiunta della chicca di Francesco Storace in odore di presidenza del Consiglio regionale del Lazio. La Polverini ieri si è adeguata alla festa nazionale consegnando i doni durante la Befana del poliziotto, proseguendo con la Befana tricolore di Sacrofano e terminando con la Befana dell'UGL della Polizia. Un bel tour propagandistico, senza scopa e senza fazzoletto in testa. Non ce n'era assolutamente bisogno. Come forse non si avvertiva il bisogno della candidatura (sua sponte) di Emma Bonino che, forse ispirata da una scena di un vecchio film di Nanni Moretti, forse motivata da una battuta uscitale spontaneamente, ieri ha detto:"Mi sembra si siano infilati in un patetico dibattito interno". A chi si riferiva? Beh, a quelli del PD, è ovvio, no? A sinistra oramai lo sanno proprio tutti: c'è sempre un dibattito in corso. Anche quando è tempo di piantarla e di prendere una necessaria e sana decisione loro dibattono, mentre gli altri prendono decisioni politiche che, per forza di cose, prendono in contropiede la sinistra che è eternamente in ritardo. Quando fa così la sinistra può essere tranquillamente paragonata a un treno in ritardo che non passa mai. Certo, il ciclone Marrazzo è stato quello che è stato. Una mazzata sulla schiena che ancora la sentono. Tuttavia, dovrebbe avere anche dei vantaggi. Se è vero che la candidata del PdL (la Polverini vicina a Fini) è vincente, è anche vero che dopo aver toccato il fondo non si può fare altro che risalire. Insomma, per paradosso le cose dovrebbero essere più facili proprio quando sono più difficili, quasi disperate. Invece anche con Bersani, uomo politico dotato di senso della realtà, il PD tarda a ingranare la marcia giusta e il suo treno è ancora in ritardo. Ora che Emma Bonino è la candidata radicale per il Lazio, nel PD si attendono lumi da Zingaretti (non l'attore, ma il fratello) e dal suo mandato esplorativo per cercare di capire chi contrapporre alla Polverini. Le primarie no, vero? Intanto Casini e l'Udc aspettano, attendono, temporeggiano, ma non si può aspettare vita natural durante, perché la vita natural durante non è infinita. Se poi si aggiunge che il PD andrà in ordine sparso praticamente ovunque, dal Lazio alla Campania, dalla Calabria alla Puglia, si capisce che l'eterno ritardo è figlio di contrasti interni e di una confusione mentale che non lascia ben sperare neanche per il futuro prossimo. Lo hanno definito "il partito dei depressi", un motivo forse ci sarà. Ovvio, il giudizio è di quelli cattivi, perfidi, ma qualcosa di vero ci dovrà pur essere se da quelle parti non si ride mai se non a denti stretti. Zingaretti ha un handicap: il tempo. Andava bene ieri l'altro, quando non c'era ancora la Bonino in campo. Ma ora? Si ipotizza: andranno tutti con Emma. Tutti sì, ma senza i cattolici. Insomma, è un pasticcio che fa capire una cosa che hanno capito un po' tutti e che giustamente preoccupa una come Enrico Letta: il Partito Democratico non riesce a fare alleanza. Si può vivere anche senza alleati, ma se aspiri a governare un Paese come l'Italia e sei minoranza da sempre il problema te lo devi pur porre. Allora, riepilogando: il problema che ha davanti a sé oggi il PD non è quello di vincere, bensì quello di perdere bene. Per perdere bene Bersani e D'Alema, al di là delle tattiche e della candidature, devono mettere in conto anche di investire su nomi importanti di livello nazionale o su giovani che diano il senso di una scelta e di una presenza viva e futura dei cosiddetti riformisti. Casini e l'Udc, come dimostra il caso della Puglia, sono lì a fare la loro parte, ma se il PD se ne sta in disparte a leccarsi le ferite della lotta post-congressuale, se si rigira i pollici nelle infinite discussioni interne, allora sì che è impossibile creare un'alleanza riformista. Poi non ci si venga a lamentare per le vittorie di Berlusconi...

lunedì 4 gennaio 2010

lode al Lodo (di De Magistris)


Scappare dai tribunali e dalla legge ad ogni costo? Lodo Alfano, Lodo Alfano Bis, Lodo Costa, processo breve, ddl intercettazioni, riforma della Consulta, ritocco del concorso esterno? Basta, siamo stanchi e c'è da chiedersi, citando Cicerone, per quanto tempo ancora questo novello Catilina abuserà della nostra pazienza. Forse sarebbe saggio che qualcuno proponesse veramente un Lodo, ma per salvare il Paese da Berlusconi. Qualche idea me la sono fatta e in osservanza alla prassi inaugurata dal governo, lo chiamerei "Lodo De Magistris". Pochi punti da definire insieme e non serve nemmeno cambiare la Costituzione , perché approvato in sua difesa, e se anche ci fosse un referendum, credo passerebbe con grande consenso. La proposta di fondo è questa: garantiamo a Berlusconi la possibilità di lasciare l'Italia senza conseguenze. Non c'è trucco e non c'è inganno: solo il bisogno di ritornare ad essere una nazione democratica e civile. Un volo di Stato (sembra gli piacciano tanto) con annesso Apicella e magari una graziosa signorina. Destinazione? Consigliamo le isole Cayman, che risultano affini persino ad uno dei tanti soprannomi che si è conquistato con anni di (dis) onorevole carriera: il caimano. Sarebbe per lui un modo per ritrovare, magari, anche qualche vecchio capitale messo in salvo all'estero. E se si annoia? Qualche cavallo e stalliere di fiducia li potrebbe trovare anche lì. Ci permettiamo di suggerire una sola accortezza: che non si chiamino Vittorio e non frequentino Marcello. Il rischio infatti è che anche alle Cayman la storia si ripeta: coppole e appalti nelle isole esotiche sarebbero indigeribili. Carta e tv liberate potranno riprendere a fare il loro dovere: informare sui fatti, gli stessi che da anni cerca di occultare perseguitando i giornalisti anche se pongono solo domande, cioè fanno il loro mestiere, ovviamente quelli che sopravvivono all'infezione dell' autocensura preventiva. Il Parlamento tornerebbe al proprio compito perché svincolato dalla sua agenda giudiziaria che oggi detta i temi, anzi il tema alle istituzioni: le necessità giudiziarie del fuggitivo da garantire prima di quelle degli italiani. La magistratura non più costretta agli assaliti quotidiani potrebbe dedicarsi senza timore alla missione che le spetta e le mafie non si sentirebbero più di poter spadroneggiare indisturbate. Per le casse dello Stato il guadagno sarebbe altissimo, per non parlare di quello dell'etica pubblica. Finito l'inquinamento di tutti gli ambiti economici e mediatici, il mercato finalmente alleggerito dalla cappa del suo conflitto di interessi, forse riprenderebbe a girare normalmente. E le somme ritrovate, anche con una lotta all'evasione certa, potrebbero essere investite nella formazione e nell'istruzione: una sorta di 8 per mille dell'antibelusconismo. Ma soprattutto noi non sentiremo più quel mantra che riecheggia dai contesti internazionali alle riunioni riservate e che vuole comunisti, bandiere rosse, manette impazzite accanirsi contro un solo uomo. Finalmente in questa patria liberata non ci saranno più scudi fiscali e lodi ad personam, decreti razzisti e leggi fondamentaliste, emendamenti che ridanno alle mafie ciò che lo Stato ha tolto loro. E noi? Noi semplicemente torneremo ad essere un Paese normale, degno dell'Europa e della civiltà democratica. Fantascienza? Forse. Sicuramente la stessa a cui ci ha abituati Berlusconi con le sue dichiarazioni e le sue azioni politiche surreali: diciamo degne di un altro pianeta, se esiste. Ecco, ho voluto riproporre integralmente il post scritto dall'ex pm Luigi De Magistris sul suo blog l'altro giorno per far capire a chi legge che lo stile e i concetti espressi dall'ex magistrato sono nè più nè meno gli stessi che il sottoscritto e l'amico DAVIDE (a proposito, auguroni ovunque tu sia) hanno da tempo reiteratamente esemplificato tramite numerosi post pubblicati su questo blog e incentrati sulla figura del Caimano. Non ho voglia di fare autocelebrazioni nè di ricorrere a infantili paragoni, ma credo sia giusto evidenziare quanto gli autori de l'Antipatico abbiano palesemente evocato con numerosi scritti al riguardo delle azioni politiche (quasi sempre censurabili) svolte fino ad oggi dal Pifferaio di Arcore. Un modo come un altro per ringraziare anche tutti i lettori di questo blog che continuano a seguirci. Questo è anche il mio buon anno a tutti voi.