ricordando Enzo Tortora
A vent'anni dalla morte di Enzo Tortora, ci sembra giusto ed opportuno ricordarlo attraverso un bell'articolo, dal titolo "Tortora, un uomo solo fra troppi poteri", scritto da Paolo Martini (un giornalista che si è sempre occupato di televisione) e pubblicato oggi su La Stampa. Buona lettura.
Può capitare di tutto nella vita, anche a un giovane cronista. Mi sono ritrovato a 24 anni in una scena da film, che tra l’altro c'è davvero in "Un uomo perbene" con Michele Placido, anche se non ho mai voluto vederlo: ricostruisce l'allucinante vicenda giudiziaria di Enzo Tortora. A vent’anni dalla morte del grande presentatore, resta una pagina davvero amara e indigeribile. Lavoravo al Giorno e mi dedicavo quotidianamente ai retroscena televisivi nell'ambiente milanese della Rai e dell'allora nascente impero di Canale 5. Facevo un po’ la posta a tutti i personaggi. Tortora lo braccavo spesso al venerdì sera dietro le quinte di Portobello, un programma da venti milioni e rotti di spettatori, il primo e il più copiato dei people-show, gli spettacoli con la gente comune. Con Tortora, come tanti, avevo avuto subito un bello scontro: il personaggio aveva un carattere spigoloso ed era un solitario. Ma alla fine, anche grazie alla stima della sua più stretta collaboratrice, Gigliola Barbieri, ero riuscito a costruire un filo diretto. Il pomeriggio prima dell'arresto di Tortora fui convocato dal mio direttore di allora, Guglielmo Zucconi, un giornalista di lungo corso e di chiara fama, che era stato anche parlamentare Dc. Zucconi mi disse di telefonare a Tortora perché gli era arrivata voce che fosse implicato in una retata anti-camorra. Ebbe modo di ripetermelo con molta insistenza una seconda e una terza volta nello stesso pomeriggio. Parlai con Tortora, che era a Roma per riunioni, una prima volta verso le 16, e di nuovo prima delle 20. La sua reazione fu sempre la stessa, divertita. «Sì, dica al suo direttore di metterci pure Tognazzi e Vianello, e il cast è fatto!». Più tardi un cronista dell'Ansa di Napoli lo raggiunse con la stessa anticipazione, ma Tortora non si preoccupò di avvertire nessuno, nemmeno uno dei suoi amici avvocati. Si fece delle grandi risate pure con la sorella Anna, raccontandole le nostre telefonate prima di addormentarsi in una stanza dell'hotel Plaza a Roma. Alle 4 della mattina, quando i carabinieri lo buttarono giù dal letto, cercò solo di non farsi sequestrare il salvadanaio di porcellana a forma di maialino, ancora impacchettato, che voleva regalare alla diletta figlia Silvia. Mai avrebbe pensato che potessero smontarlo alla ricerca di droga. Fu chiuso in caserma e verso le 12 fu offerto alla pubblica gogna in manette per le troupe televisive, i paparazzi. Era il 17 giugno del 1983. Tortora riuscirà a riprendersi dall'allucinante trafila di menzogne e pasticci tra giustizia e mass-media soltanto il 17 giugno dell'87, dopo l'assoluzione definitiva e una dura battaglia. Quattro anni di calvario, e poi la celebre sortita televisiva del rientro: «Dove eravamo rimasti?» si limitò a dire commosso alla prima puntata del nuovo Portobello. Ma non arriverà felice nemmeno al primo Natale dopo la fine dell'incubo. Un tumore lo divora in pochi mesi, e il 18 maggio dell'88 toglie il disturbo senza potersi dedicare alla causa della «giustizia giusta», che per Tortora era diventata qualcosa di più della sua stessa causa. A distanza di anni, penso si possa finalmente comprendere in quale clima politico s'inscriva l'"affaire" Tortora. Nella Democrazia Cristiana è al potere l'irpino Ciriaco De Mita, con il capo doroteo napoletano Antonio Gava determinante a sostenere la maggioranza, ma le difficoltà sono enormi. L'Unità e i giornali d'opposizione hanno appena montato in modo pasticciato il «caso Cirillo», intorno a una brutta vicenda di terrorismo, camorra e riscatti legata al rapimento di un ras politico locale di Gava, l'assessore Ciro Cirillo. E la reazione caparbia di una parte della Dc non si fa attendere: c'è bisogno di un caso giudiziario talmente eclatante da togliere ogni dubbio all'opinione pubblica. Tant'è che si legge in un primo editoriale del Giorno, e ricordo bene il direttore Zucconi che mi confida di aver personalmente parlato con il ministro Rognoni prima di scriverlo: «L'arresto di Tortora e contemporaneamente di altri presunti 855 camorristi prova che non è vero che in questo paese non cambia nulla, non è vero che le leggi o sono sbagliate o se sono giuste non vengono applicate, non è vero che esistono gli intoccabili». Al giovane cronista di allora restano altri due confidenze da rivelare. Ai margini del terzo interrogatorio del presentatore prima del processo, il 9 marzo del 1984, Tortora viene avvicinato da un alto ufficiale dei Carabinieri che lascia intendere di essere un pezzo grosso dei servizi segreti e gli propone una trattativa: «La prego, ci dia il modo di uscirne. Le persone e le istituzioni molto importanti che rappresento le chiedono solo questo: si limiti ad ammettere almeno di aver fatto uso personale di cocaina, qualche volta, tanto lo fanno tutti nel suo mondo. Una piccola retromarcia, e la chiudiamo lì per sempre». L'ultimo retroscena inedito riguarda la madre del boss milanese della camorra Francis Turatello. L'anziana signora, che era un'assidua telespettatrice di Portobello, mise a disposizione dell'assistente di Tortora, Gigliola Barbieri, l'avvocato dell'organizzazione. Alla fin fine Turatello era stato trucidato in un carcere di massima sicurezza proprio da uno degli accusatori improvvisati del presentatore, Pasquale Barra, che si guadagnò il soprannome di 'O Animale perché divorò le viscere della sua vittima. Per settimane la Barbieri si dedicò alla ricerca di un qualche indizio di un coinvolgimento, spulciando tra le carte di questo avvocato, e a sua volta il legale indagò con cura tra i molti affiliati della camorra al Nord. Nessuna traccia. Pochi mesi dopo l'avvocato fu brutalmente freddato davanti all'uscio del suo studio. Sono tanti, dunque, i misteri anche del caso Tortora che rimangono aperti: i testimoni ancora vivi potrebbero finalmente parlare. Perché un ministro volle passare l'informazione in modo che Tortora fosse avvertito il giorno prima? Magari per farlo scappare o spingerlo a qualche altro gesto inconsulto che sarebbe poi stato facilmente interpretabile come prova della colpevolezza? Perché i servizi segreti provarono a trattare? Che cosa è successo tra la camorra di Cutolo e il potere politico? Forse, semplicemente, certi leader democristiani nel governo del Paese continuarono al peggio negli Anni 80 la tradizione dei fanfaniani, che della grande mamma Rai avevano fatto, come dalla celebre definizione che costò il licenziamento a Tortora nel '69, «un jet condotto da un gruppo di boy-scout».
Può capitare di tutto nella vita, anche a un giovane cronista. Mi sono ritrovato a 24 anni in una scena da film, che tra l’altro c'è davvero in "Un uomo perbene" con Michele Placido, anche se non ho mai voluto vederlo: ricostruisce l'allucinante vicenda giudiziaria di Enzo Tortora. A vent’anni dalla morte del grande presentatore, resta una pagina davvero amara e indigeribile. Lavoravo al Giorno e mi dedicavo quotidianamente ai retroscena televisivi nell'ambiente milanese della Rai e dell'allora nascente impero di Canale 5. Facevo un po’ la posta a tutti i personaggi. Tortora lo braccavo spesso al venerdì sera dietro le quinte di Portobello, un programma da venti milioni e rotti di spettatori, il primo e il più copiato dei people-show, gli spettacoli con la gente comune. Con Tortora, come tanti, avevo avuto subito un bello scontro: il personaggio aveva un carattere spigoloso ed era un solitario. Ma alla fine, anche grazie alla stima della sua più stretta collaboratrice, Gigliola Barbieri, ero riuscito a costruire un filo diretto. Il pomeriggio prima dell'arresto di Tortora fui convocato dal mio direttore di allora, Guglielmo Zucconi, un giornalista di lungo corso e di chiara fama, che era stato anche parlamentare Dc. Zucconi mi disse di telefonare a Tortora perché gli era arrivata voce che fosse implicato in una retata anti-camorra. Ebbe modo di ripetermelo con molta insistenza una seconda e una terza volta nello stesso pomeriggio. Parlai con Tortora, che era a Roma per riunioni, una prima volta verso le 16, e di nuovo prima delle 20. La sua reazione fu sempre la stessa, divertita. «Sì, dica al suo direttore di metterci pure Tognazzi e Vianello, e il cast è fatto!». Più tardi un cronista dell'Ansa di Napoli lo raggiunse con la stessa anticipazione, ma Tortora non si preoccupò di avvertire nessuno, nemmeno uno dei suoi amici avvocati. Si fece delle grandi risate pure con la sorella Anna, raccontandole le nostre telefonate prima di addormentarsi in una stanza dell'hotel Plaza a Roma. Alle 4 della mattina, quando i carabinieri lo buttarono giù dal letto, cercò solo di non farsi sequestrare il salvadanaio di porcellana a forma di maialino, ancora impacchettato, che voleva regalare alla diletta figlia Silvia. Mai avrebbe pensato che potessero smontarlo alla ricerca di droga. Fu chiuso in caserma e verso le 12 fu offerto alla pubblica gogna in manette per le troupe televisive, i paparazzi. Era il 17 giugno del 1983. Tortora riuscirà a riprendersi dall'allucinante trafila di menzogne e pasticci tra giustizia e mass-media soltanto il 17 giugno dell'87, dopo l'assoluzione definitiva e una dura battaglia. Quattro anni di calvario, e poi la celebre sortita televisiva del rientro: «Dove eravamo rimasti?» si limitò a dire commosso alla prima puntata del nuovo Portobello. Ma non arriverà felice nemmeno al primo Natale dopo la fine dell'incubo. Un tumore lo divora in pochi mesi, e il 18 maggio dell'88 toglie il disturbo senza potersi dedicare alla causa della «giustizia giusta», che per Tortora era diventata qualcosa di più della sua stessa causa. A distanza di anni, penso si possa finalmente comprendere in quale clima politico s'inscriva l'"affaire" Tortora. Nella Democrazia Cristiana è al potere l'irpino Ciriaco De Mita, con il capo doroteo napoletano Antonio Gava determinante a sostenere la maggioranza, ma le difficoltà sono enormi. L'Unità e i giornali d'opposizione hanno appena montato in modo pasticciato il «caso Cirillo», intorno a una brutta vicenda di terrorismo, camorra e riscatti legata al rapimento di un ras politico locale di Gava, l'assessore Ciro Cirillo. E la reazione caparbia di una parte della Dc non si fa attendere: c'è bisogno di un caso giudiziario talmente eclatante da togliere ogni dubbio all'opinione pubblica. Tant'è che si legge in un primo editoriale del Giorno, e ricordo bene il direttore Zucconi che mi confida di aver personalmente parlato con il ministro Rognoni prima di scriverlo: «L'arresto di Tortora e contemporaneamente di altri presunti 855 camorristi prova che non è vero che in questo paese non cambia nulla, non è vero che le leggi o sono sbagliate o se sono giuste non vengono applicate, non è vero che esistono gli intoccabili». Al giovane cronista di allora restano altri due confidenze da rivelare. Ai margini del terzo interrogatorio del presentatore prima del processo, il 9 marzo del 1984, Tortora viene avvicinato da un alto ufficiale dei Carabinieri che lascia intendere di essere un pezzo grosso dei servizi segreti e gli propone una trattativa: «La prego, ci dia il modo di uscirne. Le persone e le istituzioni molto importanti che rappresento le chiedono solo questo: si limiti ad ammettere almeno di aver fatto uso personale di cocaina, qualche volta, tanto lo fanno tutti nel suo mondo. Una piccola retromarcia, e la chiudiamo lì per sempre». L'ultimo retroscena inedito riguarda la madre del boss milanese della camorra Francis Turatello. L'anziana signora, che era un'assidua telespettatrice di Portobello, mise a disposizione dell'assistente di Tortora, Gigliola Barbieri, l'avvocato dell'organizzazione. Alla fin fine Turatello era stato trucidato in un carcere di massima sicurezza proprio da uno degli accusatori improvvisati del presentatore, Pasquale Barra, che si guadagnò il soprannome di 'O Animale perché divorò le viscere della sua vittima. Per settimane la Barbieri si dedicò alla ricerca di un qualche indizio di un coinvolgimento, spulciando tra le carte di questo avvocato, e a sua volta il legale indagò con cura tra i molti affiliati della camorra al Nord. Nessuna traccia. Pochi mesi dopo l'avvocato fu brutalmente freddato davanti all'uscio del suo studio. Sono tanti, dunque, i misteri anche del caso Tortora che rimangono aperti: i testimoni ancora vivi potrebbero finalmente parlare. Perché un ministro volle passare l'informazione in modo che Tortora fosse avvertito il giorno prima? Magari per farlo scappare o spingerlo a qualche altro gesto inconsulto che sarebbe poi stato facilmente interpretabile come prova della colpevolezza? Perché i servizi segreti provarono a trattare? Che cosa è successo tra la camorra di Cutolo e il potere politico? Forse, semplicemente, certi leader democristiani nel governo del Paese continuarono al peggio negli Anni 80 la tradizione dei fanfaniani, che della grande mamma Rai avevano fatto, come dalla celebre definizione che costò il licenziamento a Tortora nel '69, «un jet condotto da un gruppo di boy-scout».
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