oggi, 30 anni fa
Più o meno a quest'ora, martedì 9 maggio 1978, i brigatisti rossi parcheggiarono la famosa Renault rossa in via Caetani a Roma, vicino a via delle Botteghe Oscure (sede del vecchio PCI) e non lontano a piazza del Gesù (sede della vecchia DC), con il cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio, avvolto in una coperta scura. Si concludeva così, in quel modo tragico, la prigionia del presidente della Democrazia Cristiana, durata 55 giorni e iniziata la mattina del 16 marzo in via Fani alle 9,05 con l'annientamento dei 5 uomini della sua scorta. Riproponiamo oggi, anticipandola, la prima pagina de la Repubblica del 10 maggio e l'articolo sia di Miriam Mafai, sia l'editoriale di Eugenio Scalfari. Una annotazione a margine: da questa mattina è consultabile on line, sul sito del Senato della Repubblica (http://www.archivioinchieste.senato.it/geaarchivio/default.htm), tutta la documentazione coperta da segreto di Stato sull'affare Moro. Segreto di Stato che un'apposita legge del precedente governo Prodi ha fatto decadere dopo 30 anni. Non ci sembra una cosa irrilevante. Ecco l'articolo della Mafai, intitolato "Undici colpi al cuore". Questo fagotto gettato dietro il sedile posteriore della Renault color amaranto parcheggiata in via Caetani è il corpo di Aldo Moro. E' un fagotto informe, avvolto in una coperta di lana color cammello, con un bordo di raso, una coperta come ce ne sono in tutte le nostre case. Il sedile è leggermente inclinato verso l'avanti. la macchina ha gli sportelli aperti. A pochi metri ci sono il ministro Cossiga, i sottosegretari Darida e Lettieri, il procuratore capo Giovanni De Matteo, il capo della polizia Parlato, il generale Corsini comandante dei carabinieri. Sono le 14,15. Giancarlo Pajetta passa attraverso il cordone di carabinieri, rivolge uno sguardo interrogativo a Cossiga: "Sì, è Moro" risponde il ministro degli Interni a voce bassissima. La Renault è parcheggiata contromano, il muso rivolto verso via dei Funari, sotto un'impalcatura metallica che protegge i lavori di restauro della Chiesa di S. Caterina. E' una vecchia macchina impolverata, maltenuta, la vernice della carrozzeria in qualche punto è scrostata. Contro le transenne controllate dalla polizia, che isolano via Caetani dalla parte di via dei Funari e dalla parte delle Botteghe Oscure preme, silenziosa e cupa, la folla di abitanti del quartiere, giovani soprattutto. Alcune donne si allontanano correndo. Una, prendendo in collo un bambino, grida: "C'è una bomba, c'è una bomba!". Non è vero. Ma attorno alla macchina abbandonata c'è il vuoto. "E' meglio non avvicinarsi" avverte Cossiga, "aspettiamo gli artificieri. Ci sono molti bossoli". C'è qualche istante d'irreale silenzio attorno a quella bara di metallo dentro la quale è rinchiuso Moro. Poi qualcuno si avvicina alla porta posteriore della macchina. Oltre a Cossiga ci sono Bonifacio, Pecchioli. Un ufficiale di polizia alza un lembo della coperta di lana: s'intravede la faccia di Moro, gli occhi semichiusi, la barba lunga, bianchissimo il collo della camicia. Da via delle Botteghe Oscure, chiusa al traffico, giunge un rumore di grida e imprecazioni. C'è gente arrampicata sulle macchine in sosta, abbarbicata alle inferriate dell'Istituto Pontificio di Santa Lucia. C'è gente che arriva correndo, chiedendo notizie, premendo contro i cordoni dei reparti della Guardia di Finanza, della Polizia e dei Carabinieri. Arriva Gonella, e sembra piccolissimo, con le labbra tremanti. Arriva un vecchio sacerdote, la stola violetta gettata di traverso su una tonaca consunta, l'ampolla dell'olio santo tra le mani. Si chiama padre Damiani, è stato avvertito da due agenti di polizia pochi minuti fa, arrivati a prelevarlo nella sua chiesa di piazza del Gesù. Sono le 14,45. Padre Damiani traccia un segno di croce sulla fronte ghiaccia di Moro e gli impartisce l'assoluzione. Alle 15, a sirene spiegate, arriva un'ambulanza dei Vigili del Fuoco, mentre la folla ondeggia, preme pericolosamente e scoppia qualche piccolo incidente. Bastano pochi minuti, poi l'ambulanza, scortata dai mezzi della polizia, parte in direzione dell'Istituto di medicina legale dove avrà luogo l'autopsia. La folla adesso rompe i cordoni: sotto la palizzata dove era parcheggiata la Renault color amaranto, trasportata in Questura, viene posata una bandiera bianca della DC, tre rose e alcuni cartelli scritti a mano: "Moro siamo tutti con te". Una telefonata anonima, pervenuta poco dopo le 13,30 al centralino della Questura, aveva avvertito: "In via Caetani c'è un'auto rossa con il corpo di Moro". Immediatamente scattava l'allarme, mentre nella zona, invasa da poliziotti e carabinieri, si diffondeva la voce che una bomba stesse per scoppiare. Il ritrovamento del cadavere è avvenuto poco dopo. Qualche minuto prima delle due, i segretari di tutti i partiti politici sapevano che il cadavere gettato nel portabagagli della Renault targata Rona N56786 (una vecchia targa che era appartenuta a un'Alfetta dell'ATI e che era stata restituita un anno fa all'Ufficio della Motorizzazione di Napoli) era quello di Aldo Moro. Via Michelangelo Caetani è una strada molto frequentata, in cui è estremamente difficile trovare posto per parcheggiare: è possibile quindi - e lo confermano alcune testimonianze - che la macchina sia stata portata sul posto nelle prime ore del mattino, tra le 7 e le 8. E lì lasciata, con il suo tragico carico, fino a quando gli assassini hanno ritenuto opportuno avvertire. In un angolo del bagagliaio, dalla parte dov'è sistemata la ruota di scorta sulla quale poggiava la testa di Moro, c'erano anche le catene da neve, e qualche ciuffo di capelli grigi. Questo particolare può far pensare che la macchina con il cadavere abbia percorso un tragitto accidentato, durante il quale il corpo avrebbe subìto dei sobbalzi. Ai piedi del cadavere c'era una busta di plastica contenente un bracciale e l'orologio. Il corpo di Moro, quando è stato estratto dagli artificieri, era ripiegato e irrigidito. Indossava lo stesso abito scuro che aveva il giorno del rapimento, un abito blu, con la camicia bianca a righine, e la cravatta ben annodata. L'abito era macchiato di sangue; sul petto di Moro erano stati premuti alcuni fazzoletti per impedire che il sangue sgorgasse dalle ferite. Nei risvolti dei pantaloni è stata trovata una notevole quantità di sabbia o terriccio. La morte risaliva certamente a molte ore prima, forse all'alba di ieri, forse al pomeriggio del giorno precedente. Sotto il corpo e sul tappetino della Renault c'erano alcuni bossoli di proiettile 7,65 o 9 corto. La presenza dei bossoli faceva pensare, in un primo momento, che l'esecuzione fosse avvenuta all'interno stesso della macchina, ma i primi rilievi effettuati in serata, all'Istituto di medicina legale, sembrano suggerire una sequenza se possibile ancor più spietata e agghiacciante. Moro sarebbe stato ucciso con una raffica di pistola mitragliatrice, calibro 7,65 o 9 corto, dotata di silenziatore. (Potrebbe trattarsi di una CZ modello 61, più nota come Skorpion, arma di fabbricazione cecoslovacca con cui è già stato ucciso nel giugno del 1976, a Genova, il mgiudice Coco). Almeno undici i fori che hanno squarciato il petto del prigioniero inerme. Moro è stato ucciso in piedi, la faccia rivolta agli assassini; d'istinto ha portato al cuore la mano sinistra, un dito era lacerato da un proiettile. Indossava la canottiera e la camicia, non aveva le scarpe. Tracce di sabbia sono state trovate infatti non soltanto nel risvolto dei pantaloni, ma anche sui calzini, mentre le scarpe appaiono pulite. Il cadavere presenta un'altra ferita su una coscia, una piaga purulenta mal curata. E' possibile che si tratti di una lesione dovuta a un colpo che ha raggiunto di striscio Moro la mattina del 16 marzo, nell'agguato di via Fani. I killers hanno poi trascinato il cadavere su un terreno sabbioso e con qualche ciuffo di vegetazione: piccole spighe d'erba di campo - i cosiddetti forasacchi - sono rimasti infatti impigliati nei calzini. Poi gli assassini lo hanno rivestito, con il gilet, la cravatta, la giacca; gli hanno infilato le scarpe. Hanno recuperato i bossoli gettandoli all'interno della vettura, e dal luogo della feroce esecuzione si sono avviati fino al centro di Roma, fino alla strada - non certo scelta a caso - a poche decine di metri dalla direzione comunista e da quella democristiana, quasi un macabro avvertimento e un'ultima sfida alle forze di polizia che controllano giorno e notte la zona. E questo è l'editoriale scritto da Eugenio Scalfari, intitolato "Contro il terrore le leggi della Repubblica". Il primo atto della tragedia si è concluso nel modo più atroce: un cadavere crivellato di proiettili, avvolto in un fagotto di coperte, abbandonato sul sedile di un'auto a pochi metri dalle sedi della Democrazia cristiana e del Partito comunista. In questo modo, dopo 55 giorni d'attesa e d'agonia, le Br hanno restituito il corpo di Aldo Moro. L'emozione di queste ore è immensa ed a rendere il dramma ancora più cupo c'è quel comunicato della famiglia che suona come una condanna disperata contro il governo e il partito, colpevoli di non aver accettato l'ultimatum dei terroristi. Nessun lutto nazionale - gridano nel loro dolore i familiari di Moro - nessun funerale di Stato, nessuna cerimonia pubblica, nessuna medaglia alla memoria, ma solo silenzio. Giuseppe Saragat, dal canto suo, interpretando le reazioni d'una parte dell'opinione pubblica ha detto: "Accanto al suo cadavere c'è anche il cadavere della prima Repubblica che non ha saputo difendere la vita del più generoso uomo politico del nostro Paese". E' proprio così? La prima Repubblica muore insieme a Moro per mano delle Brigate rosse? Altri, nelle stesse ore, formulano propositi d'indiscriminate rappresaglie; per le strade s'è inteso parlare di giustizia sommaria contro i detenuti della banda Curcio e non mancava qualche fascista che davanti a piazza del Gesù, ostentando il "saluto romano", incitava i democristiani a vendicarsi su Berlinguer. Emozioni e parole incontrollate in questi primi momenti così gravi sono comprensibili. Ma i problemi che ci sovrastano sono tali da richiedere da parte di tutti al tempo stesso calma e fervore, freddezza e passione civile. Il primo tema è quello della concordia nazionale. Questo governo e questa maggioranza erano nati per amministrare una situazione d'emergenza, ma l'emergenza di ieri era nulla di fronte a quella attuale. Non si chiede una forzosa unanimità, ma si chiede che gli egoismi e i calcoli di partito cedano il passo ai doveri verso il Paese. Il secondo tema è quello della risposta efficace ai criminali del terrore. Abbiamo constatato purtroppo quanto sia stata impari l'organizzazione delle forze della sicurezza pubblica, dei servizi d'informazione e d'investigazione, della magistratura inquirente. Gli apparati dello Stato non erano evidentemente preparati ad uno scontro di questo livello. Ora - sia pure a prezzo di sangue innocente - abbiamo imparato di quale natura sono gli avversari che abbiamo di fronte. Ogni sforzo dev'esser fatto per colmare il ritardo e dotare lo Stato di mezzi adeguati di prevenzione e di repressione. Questi mezzi, proprio perchè debbono essere efficaci, vanno usati nell'ambito della legge e dello stato di diritto. La caccia alle streghe è di solito il modo con cui i governi deboli cercano di mascherare la loro impotenza. Dopo uno smacco di queste proporzioni può dunque emergere la tentazione d'una risposta indiscriminata. Finora governo e partiti sono riusciti ad evitare un simile errore. E' augurabile che perseverino su questa linea. Ma la vera lotta contro il terrorismo si deve svolgere su un altro terreno. E' evidente infatti che nello scontro fisico e nella caccia dell'uomo sull'uomo i criminali hanno inevitabilmente la meglio su chi combatte in nome della legge e con le armi della legge. Occorre dunque affrontare il male alle radici. E le radici affondano nella disaffezione dalle istituzioni, nel discredito che le circonda, nella difficoltà di molti a riconoscersi in esse e in loro difesa combattere. E affondano anche in un'economia fatta più di sperperi che di lavoro produttivo, più di assistenza che di creazione di ricchezza. Quello che Saragat teme e che taluno forse si augura, che cioè il 9 maggio le Br ci abbiano consegnato il cadavere della prima Repubblica, può diventare realtà solo se tutti insieme non affronteremo l'opera di rifondare la prima, quella nata dall'antifascismo, dalla Resistenza e dall'unione delle forze democratiche. Al di fuori di quest'obbiettivo non c'è che l'avventura e la guerra civile.
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