ultime tracce conosciute
Tra tutti gli articoli rievocativi che stiamo leggendo in questi giorni per il trentennale della morte di Aldo Moro, quello che più ci ha colpito (e piaciuto) è senz'altro il pezzo scritto stamani sul Corriere della Sera da Giovanni Bianconi, intitolato "Lavori nell'ex prigione di Moro. Sparisce anche l'ultima traccia". Un articolo che vi vogliamo riproporre integralmente perchè ne vale la pena. Buona lettura. La striscia a terra dopo trent'anni c'è ancora, ma tra poco sparirà. La casa è in via di ristrutturazione, il parquet dello studio verrà lamato e cadrà l'ultimo segno visibile della prigione di Aldo Moro. L'appartamento in cui lo statista democristiano rapito alle Brigate rosse visse i suoi ultimi 55 giorni prima di essere assassinato, cambia volto. Accoglierà nuovi inquilini, tra le sue mura scorreranno altre vite. Ma la memoria rimane, e la giovane donna che si prepara a entrare in quello che fu il «carcere del popolo» dice: «Questo luogo appartiene alla storia d'Italia, è il simbolo di una tragedia pubblica e di un dolore privato. Io ne sono consapevole, ma la vita continua e non si può speculare su ciò che è accaduto qui dentro, né cedere alla spettacolarizzazione. Ora è mio, e ho deciso di utilizzarlo come meglio credo. Solo la famiglia Moro ha e avrà sempre il diritto di venire a visitarlo ogni volta che lo vorrà. Per il resto, è tutto scritto e fotografato negli atti giudiziari. Non c'è altro da sapere né da vedere». La donna si chiama Daniela, ed è l'ultima figlia dei coniugi che abitano al quarto piano di via Montalcini 8, la palazzina nella periferia residenziale a sud di Roma scelta dai brigatisti per allestire la cella di Moro. Era il 1977, e a comprare l'appartamento al piano terra, interno 1, cento e più metri quadrati completi di giardino, garage e cantina, fu Anna Laura Braghetti, alla quale il capo delle Br Mario Moretti aveva consegnato 50 milioni in contanti. Lo arredò come la casa di una giovane coppia, lei e Germano Maccari (l'altro brigatista carceriere di Moro, insieme a Prospero Gallinari), i «coniugi Altobelli». Nella stanza adibita a studio, accanto alla finestra, alzarono la parete insonorizzata dietro la quale fu ricavato un antro di nemmeno quattro metri quadrati, coperto da una libreria. Lì dentro, secondo quanto accertato da inchieste e processi, Aldo Moro fu rinchiuso dal 16 marzo al 9 maggio 1978 quando, in una cesta di vimini, fu portato nel garage dello stabile e assassinato dalle raffiche della mitraglietta Skorpion.
Concluso il sequestro, la «prigione del popolo» fu smantellata e l'appartamento di via Montalcini tornò quella di prima. Ma nonostante gli sforzi di cancellare ogni traccia, a terra rimase il segno della parete che per 55 giorni aveva nascosto l'ostaggio che lo Stato non era riuscito a liberare. Un anno più tardi la Braghetti, nel sospetto di essere seguita dalla polizia, abbandonò la casa dove aveva continuato ad abitare dopo il delitto Moro. Firmò una delega a vendere alla zia Gabriella, e sparì dalla circolazione fino al suo arresto, nel maggio '80. Dopo aver avuto il tempo di assassinare Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, sulle scale dell'università di Roma. Ma prima, nell'ottobre 1979, la famiglia del signor Nicasio che aveva acquistato l'attico di via Montalcini comprò anche l'appartamento al piano terra, per sistemarci la suocera. Pagarono 50 milioni, come ricorda Nicasio, «perché la zia della Braghetti disse che aveva avuto disposizione di non fare sconti». Le Br recuperarono così i soldi spesi, senza che i nuovi proprietari sapessero nulla di Moro né dei terroristi. La casa era in buone condizioni, perfino la carta da parati rimase la stessa. E la striscia sul parquet, che cominciava a scolorire, fu coperta dall'arredamento della stanza da letto di nonna Assuntina, che ci abitò tranquilla finché un giorno del 1984 le indagini di polizia e magistratura non accertarono che in quella casa era stato tenuto prigioniero Aldo Moro. E quel segno ancora ben visibile sul pavimento fece da riscontro alle conclusioni degli investigatori.
«Venne il giudice Imposimato con gli ex brigatisti Morucci e Faranda — racconta Nicasio —, solo allora sapemmo la verità, e ci fece grande impressione. Ogni volta che andavo a prendere la macchina in garage pensavo che lì era stato assassinato Moro, e spesso mi è capitato di rivolgergli una preghiera ». Sua moglie, la signora Pina, ricorda che quando arrivarono gli inquirenti sua zia Ninetta, che per un periodo visse con nonna Assuntina, offrì un cioccolatino alla Faranda pensando che fosse l'assistente del giudice: «Quando poi seppe chi era, si rammaricò di essere stata gentile con una terrorista. Certo che se avessimo saputo quello che era avvenuto in quella casa, non l'avremmo comprata».
Nonna Assuntina si trasferì per qualche tempo da un altro figlio, ma poi tornò e continuò la vita di sempre nell'appartamento che fu la prigione di Moro. Rifiutando di far entrare i giornalisti che suonavano di continuo al suo campanello, e i registi dei film venuti per i sopralluoghi; da Giuseppe Ferrara, che chiese di girare lì alcune scene de Il caso Moro, a Marco Bellocchio in cerca di ispirazioni per Buongiorno, notte. Un sacerdote amico di famiglia, già parroco della chiesa di Santa Chiara dove Moro si recava ogni mattina, si propose come intermediario con i familiari dello statista; loro sì avrebbero potuto entrare e vedere, ma non vollero. Gli unici ad essere sempre accolti per rilievi e fotografie furono investigatori e inquirenti. La signora Pina fu pure testimone al processo Moro. «Qualcuno ci propose di vendere le foto — ricorda Nicasio —, altri di farci un museo, o di proporre alla Dc di comprare la casa. Abbiamo sempre detto no, per non speculare su una sofferenza altrui con la quale noi eravamo casualmente entrati in contatto». Nonna Assuntina è morta nel 2007, l'appartamento è rimasto vuoto e ora ha deciso di andarci ad abitare la nipote più giovane, Daniela, che nel 1978 era una bambina di sei anni. E adesso dice: «Il segreto custodito da quelle mura ora appartiene a tutti, ma potrà rimanere solo nella memoria collettiva, oltre che negli atti processuali. Non è un luogo pubblico dove appendere targhe o portare i visitatori in pellegrinaggio. Anche per rispetto al dolore di chi è morto, e della sua famiglia, la storia pubblica della mia casa si chiude qui, e le sensazioni che provo le tengo per me». A trent'anni dal delitto, cala il sipario sulla «prigione del popolo » dove morì Aldo Moro. Cancellata l'ultima traccia, la scena cambia per sempre.
Concluso il sequestro, la «prigione del popolo» fu smantellata e l'appartamento di via Montalcini tornò quella di prima. Ma nonostante gli sforzi di cancellare ogni traccia, a terra rimase il segno della parete che per 55 giorni aveva nascosto l'ostaggio che lo Stato non era riuscito a liberare. Un anno più tardi la Braghetti, nel sospetto di essere seguita dalla polizia, abbandonò la casa dove aveva continuato ad abitare dopo il delitto Moro. Firmò una delega a vendere alla zia Gabriella, e sparì dalla circolazione fino al suo arresto, nel maggio '80. Dopo aver avuto il tempo di assassinare Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, sulle scale dell'università di Roma. Ma prima, nell'ottobre 1979, la famiglia del signor Nicasio che aveva acquistato l'attico di via Montalcini comprò anche l'appartamento al piano terra, per sistemarci la suocera. Pagarono 50 milioni, come ricorda Nicasio, «perché la zia della Braghetti disse che aveva avuto disposizione di non fare sconti». Le Br recuperarono così i soldi spesi, senza che i nuovi proprietari sapessero nulla di Moro né dei terroristi. La casa era in buone condizioni, perfino la carta da parati rimase la stessa. E la striscia sul parquet, che cominciava a scolorire, fu coperta dall'arredamento della stanza da letto di nonna Assuntina, che ci abitò tranquilla finché un giorno del 1984 le indagini di polizia e magistratura non accertarono che in quella casa era stato tenuto prigioniero Aldo Moro. E quel segno ancora ben visibile sul pavimento fece da riscontro alle conclusioni degli investigatori.
«Venne il giudice Imposimato con gli ex brigatisti Morucci e Faranda — racconta Nicasio —, solo allora sapemmo la verità, e ci fece grande impressione. Ogni volta che andavo a prendere la macchina in garage pensavo che lì era stato assassinato Moro, e spesso mi è capitato di rivolgergli una preghiera ». Sua moglie, la signora Pina, ricorda che quando arrivarono gli inquirenti sua zia Ninetta, che per un periodo visse con nonna Assuntina, offrì un cioccolatino alla Faranda pensando che fosse l'assistente del giudice: «Quando poi seppe chi era, si rammaricò di essere stata gentile con una terrorista. Certo che se avessimo saputo quello che era avvenuto in quella casa, non l'avremmo comprata».
Nonna Assuntina si trasferì per qualche tempo da un altro figlio, ma poi tornò e continuò la vita di sempre nell'appartamento che fu la prigione di Moro. Rifiutando di far entrare i giornalisti che suonavano di continuo al suo campanello, e i registi dei film venuti per i sopralluoghi; da Giuseppe Ferrara, che chiese di girare lì alcune scene de Il caso Moro, a Marco Bellocchio in cerca di ispirazioni per Buongiorno, notte. Un sacerdote amico di famiglia, già parroco della chiesa di Santa Chiara dove Moro si recava ogni mattina, si propose come intermediario con i familiari dello statista; loro sì avrebbero potuto entrare e vedere, ma non vollero. Gli unici ad essere sempre accolti per rilievi e fotografie furono investigatori e inquirenti. La signora Pina fu pure testimone al processo Moro. «Qualcuno ci propose di vendere le foto — ricorda Nicasio —, altri di farci un museo, o di proporre alla Dc di comprare la casa. Abbiamo sempre detto no, per non speculare su una sofferenza altrui con la quale noi eravamo casualmente entrati in contatto». Nonna Assuntina è morta nel 2007, l'appartamento è rimasto vuoto e ora ha deciso di andarci ad abitare la nipote più giovane, Daniela, che nel 1978 era una bambina di sei anni. E adesso dice: «Il segreto custodito da quelle mura ora appartiene a tutti, ma potrà rimanere solo nella memoria collettiva, oltre che negli atti processuali. Non è un luogo pubblico dove appendere targhe o portare i visitatori in pellegrinaggio. Anche per rispetto al dolore di chi è morto, e della sua famiglia, la storia pubblica della mia casa si chiude qui, e le sensazioni che provo le tengo per me». A trent'anni dal delitto, cala il sipario sulla «prigione del popolo » dove morì Aldo Moro. Cancellata l'ultima traccia, la scena cambia per sempre.
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page