l'Antipatico

sabato 31 maggio 2008

un cavaliere partenopeo




Il ritorno a Napoli (nel giro di 10 giorni) di Silvio Berlusconi, per cercare di risolvere la tragedia napoletana della munnezza, ha di fatto sancito il "new deal" del pugno di ferro in guanto di velluto adottato dal cavaliere. I commenti a tal proposito, dopo la conferenza stampa di ieri di Berlusconi (circondato dai suoi aiutanti di campo Maroni, Bertolaso e Prestigiacomo), hanno sottolineato questo nuovo modo di comunicare di sua Emittenza, dall'espressione sempre seria e corrucciata, molto diversa rispetto a quella clownesca e irridente della campagna elettorale di due mesi fa. L'analisi politica di Giuseppe D'Avanzo su la Repubblica di oggi (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/rifiuti-10/arroccamento-cavaliere/arroccamento-cavaliere.html) ci trova perfettamente d'accordo. Ma l'articolo di Augusto Minzolini sulla prima pagina de La Stampa ci ha stregati. Il pezzo s'intitola "A muso duro" e ve lo vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura.
Se davvero il carattere principale del nuovo governo è il «decisionismo» come strumento per modernizzare e rendere efficiente uno Stato decadente, non bisogna meravigliarsi per le parole pronunciate ieri a Napoli da Silvio Berlusconi. Anzi, c’è una frase del Cavaliere rivolta ai magistrati napoletani che hanno giudicato incostituzionale il decreto sui rifiuti, che descrive in maniera lampante la nuova filosofia: «Un ordine dello Stato non può vivere in un empireo e pensare alle leggi come ad un moloch assoluto. Le leggi devono essere adattate per far vivere meglio i cittadini». Può essere la rivoluzione «copernicana» per il paese degli azzeccagarbugli, delle 100 mila leggi, leggine, codicilli, una logica di governo che se attuata fino in fondo è di per sé una grande riforma: tutto è subordinato alla «magia del fare», anche le leggi, se sono antiquate e fumose, debbono essere interpretate in modo da favorire una politica interventista che tende a risolvere le emergenze. Altrimenti il governo e il Parlamento, cioè il potere politico, sono pronti ad esercitare fino in fondo le proprie prerogative per cambiarle. È successo nella crisi a Napoli. Per risolverla Berlusconi si sta comportando come se si trovasse di fronte una calamità naturale, «l’eruzione di un vulcano - i paragoni sono suoi - o un terremoto». In frangenti simili è evidente che tutti gli «ordini» dello Stato debbono comportarsi in modo adeguato. Se non si è consapevoli di questo, come hanno dimostrato alcuni pm napoletani, il governo è pronto a prendere le misure adeguate, come la «superprocura». Ma la filosofia dell’intervento deciso, che è legittimato nella testa del Cavaliere dalla volontà dell’elettorato, non investe solo il caso Napoli ma tutto l’operato del governo. Altro caso la «crisi Alitalia». Per 18 mesi il governo Prodi, volendosi attenere alla normativa sulle privatizzazioni, aveva cincischiato. Era nata una trattativa con Air France che poi è morta, a sentire la compagnia francese, per colpa del sindacato. Per andare avanti è stato necessario un prestito ponte che prima è finito sotto i riflettori della Ue e successivamente i sindaci di Alitalia hanno preteso che fosse trasformato in capitale utilizzabile per non portare i libri in tribunale. Messo alle strette il governo Berlusconi si è comportato proprio come su Napoli. Giulio Tremonti con un decreto ha modificato la normativa di privatizzazione per Alitalia e il Consiglio dei ministri ha individuato subito in Banca Intesa l’«advisor» che dovrebbe condurre in porto la privatizzazione: se avesse dovuto rispettare le regole preesistenti, tra i tempi necessari per mettere in piedi una gara e tutto il resto, Alitalia sarebbe fallita ancor prima che Banca Intesa se ne potesse occupare. Insomma, quello che il passato governo non aveva fatto in diciotto mesi, il governo Berlusconi prova a farlo in 18 giorni. Si dirà: passando da un’emergenza ad un’altra, il cambiamento delle regole «scomode» per il governo del Cavaliere potrebbe diventare la regola «comoda». Il rischio c’è e non va sottovalutato. Ma è anche vero che nel caso dell’Italia ci troviamo di fronte ad un Paese che è in piena «emergenza nazionale». Delle due l’una: o si metteva in piedi un governo d’emergenza, sul tipo dei governi di solidarietà nazionale; o, visto che dal voto è uscita fuori una maggioranza chiara, l’attuale governo non può non usare in alcuni casi strumenti e normative straordinari per evitare il fallimento del «sistema Italia». Del resto le garanzie contro il rischio di una possibile «involuzione» autoritaria, Berlusconi le offre in altri modi. Se il Cavaliere del passato si poneva di fronte all’establishment in termini antagonistici, il «nuovo» Silvio tende ad esercitare su di esso, grazie al consenso di cui gode nel Paese, una gramsciana egemonia. Ne arruola pezzi su pezzi. C’è stata la conferma in blocco dei vertici dei grandi enti pubblici che per buona parte erano stati nominati dal governo Berlusconi del 2001, ereditati da Prodi e ora tenuti al loro posto dal Cavaliere. La stragrande maggioranza dei capi di gabinetto dei ministri di Berlusconi hanno collaborato in passato con i ministri di Prodi. Renato Brunetta, per dirne una, si è scelto come primo collaboratore Filippo Patroni Griffi, già uomo di Francesco Rutelli. E lo stesso vale per ruoli più delicati: a capo del coordinamento dei servizi segreti (il Dis) è andato Gianni De Gennaro, che ovviamente non è più l’amico di Luciano Violante ma l’uomo che ha ancora il dente avvelenato con la sinistra per via del G8 di Genova. Con nomi del genere, ovviamente, l’opposizione non ha potuto dir niente e il Cavaliere si contenta di aver fatto proprio un celebre motto di Mao: «Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi».

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