l'Antipatico

domenica 18 ottobre 2009

confronti improponibili


Ci sono momenti in cui mi piacerebbe vedere un'altra Italia: invece sono costretto, mio malgrado, a digerire questa cicuta ributtante costituita dall'insieme degli estratti peggiori del berlusconismo, oltre che dal sensazionalismo becero e vigliacco della stampa e della televisione made in Arcore. Un voltastomaco continuo e incessante cui nemmeno vagonate di Enterogermina riescono a porre rimedio. E mentre assisto a tutto questo sfacelo italiano, mi vengono in mente i dati relativi alla vera e sostanziale realtà della situazione nel nostro Paese: una recente ricerca traccia il profilo dei poveri che continuano a vivere in Italia in condizioni da Burkina Faso. Sono principalmente meridionali e disoccupati cronici, con un titolo di studio basso e un nucleo familiare numeroso. Le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà spendono meno di 230 euro al mese e sono circa il 5% del totale. All'attuale classe politica italiana tutto ciò non interessa affatto e allora mi sembra giusto fare un paragone tra chi si è autoproclamato l'eletto dal popolo e chi (poco più di 60 anni fa) tracciava il solco della vera natura del buon capo di governo che guida un Paese. Diceva Alcide De Gasperi: "Noi, governo e Parlamento, abbiamo una responsabilità verso la nazione: quella di osservare i princìpi fondamentali della democrazia che sono legge uguale per tutti, subordinazione dei partiti al bene supremo del Paese, sforzo reciproco di trovare (ciascuno nella funzione che gli spetta e nel rispetto delle opinioni) la via per consolidare un regime di libertà, instaurando oltre che nelle leggi anche nel costume il metodo democratico sinceramente voluto e onestamente applicato". Parole pronunciate il 1° giugno 1948 dal miglior presidente del Consiglio che il nostro Paese abbia mai avuto, altro che Berlusconi. De Gasperi fece questa dichiarazione dopo le elezioni del 18 aprile, in una situazione ben più complessa rispetto a quella di oggi, ovvero dopo una drammatica campagna elettorale, in un quadro internazionale da guerra fredda e con la più forte e agguerrita sinistra dell’Occidente.
Altri tempi, altri uomini, altro spessore. Nessuno, allora, si sognava che il voto popolare (la DC di De Gasperi, da sola, aveva sfiorato il 49% dei voti) potesse autorizzare a delegittimare le istituzioni o la Carta costituzionale. Oggi, invece, non c’è limite al peggio. Si è innestata una marcia indietro nella cultura democratica, si picconano i muri portanti della casa comune (come dice giustamente Bersani), si delegittimano gli organi di garanzia, si attaccano le più alte cariche dello Stato, si usano in televisione toni da osteria poco galanti verso le donne, ci si appella al popolo o alle piazze, pur avendo in Parlamento una larga maggioranza.
Di questo passo, la via verso il baratro è segnata, se non ci fermiamo per tempo. E se non rimettiamo in gabbia i falchi della politica, liberando le colombe.
Dalla follìa di questi giorni si può e si deve uscire, nell’interesse del Paese. La decisione della Corte costituzionale sul Lodo Alfano non mette in discussione il diritto-dovere di governare per chi ha vinto le elezioni. Ribadisce solo che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. È scritto nell’articolo 3 della Costituzione. Certo, quella Carta ha sessant’anni. C’è bisogno di qualche ritocco nelle applicazioni, non certo nei princìpi. Resta, comunque, la stella polare per la civile convivenza degli italiani, al di là delle diverse opinioni politiche. Ma nulla di serio si costruisce sulle macerie, tanto meno senza la collaborazione di tutti.
Chi ha avuto un ampio consenso dal voto popolare ha ancor più responsabilità nel servire il Paese, non nell’appropriarsi delle istituzioni, sfrattando dalla casa comune chi non la pensa allo stesso modo. Più alte sono le responsabilità, più elevato deve essere il senso dello Stato e della democrazia, che si fonda sulla divisione dei poteri. È grave dare del vile al Presidente della Repubblica, ma è altrettanto grave sbeffeggiarlo e non prendere in considerazione quel che dice.
Non c’è investitura popolare che possa essere usata come grimaldello per scardinare la centralità del Parlamento, mortificato dal ricorso continuo al voto di fiducia (25 in soli diciassette mesi di governo). O per tenere in pugno i parlamentari, già asserviti da una legge elettorale che, espropriando il popolo di un suo diritto, ha dato ai capi di partito il potere di nomina.
E mentre la politica è alle prese con i bizantinismi, tre milioni di italiani fanno la fame. Soprattutto se hanno perso il lavoro. La crisi svuota il carrello della spesa. E qualcuno la fa solo tra gli avanzi dei mercati. Sono i dati di una ricerca del Banco alimentare, che lancia l’allarme in Italia. «Questa povertà», hanno detto i ricercatori, «non è un'invenzione dei mass media, ma è un'amara e dura realtà di cui fanno una terribile esperienza centinaia di migliaia di famiglie italiane». Basterebbe questo ritratto doloroso e drammatico per far venir voglia, a chi pensa di essere il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, di cambiare rotta (politica e personale) e di mettersi realmente al servizio del Paese. Come fece De Gasperi. Ma purtroppo Berlusconi non sarà mai come lui.

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