un abbandono doloroso, ma necessario!
Quando ho letto la lettera aperta pubblicata sul Corriere della Sera di una ricercatrice italiana di 47 anni e indirizzata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (che proprio ieri compiva 84 anni, auguri in ritardo Presidente), ho pensato cosa avrei scritto se un giorno mi dovessi trovare nella stessa situazione (a prescindere se sono o meno un ricercatore, di notizie forse...) di Rita Clementi, la ricercatrice per l'appunto. Riflettendo, mi sono detto: questo senso di sfiducia e di impotenza espresso dalla signora nella sua missiva l'avrei fatto risaltare anch'io, in una eventuale lettera al Capo dello Stato. Per chi non ha letto la lettera può provvedere cliccando qui (http://www.corriere.it/cronache/09_giugno_29/ricerca_clementi_e10bae7e-646a-11de-91da-00144f02aabc.shtml), agli altri che l'hanno già fatto dedico queste mie riflessioni. Per prima cosa ho notato nella lettera della signora Clementi molta rabbia e altrettanta indignazione. L’esperienza che ha fatto fin qui del nostro mondo universitario le fa dire che è stanca di essere italiana. Sono dell’idea che per voler smettere di essere connazionale di Michelangelo e di Dante Alighieri ci vuole veramente un gran motivo, se esiste. Ma la denuncia della signora va presa sul serio, e non rubricata velocemente sotto l’etichetta (evanescente come tutte le etichette applicate ai casi personali) di fuga di cervelli. Qui non si tratta solo di una che fa armi e bagagli perché altrove si potrà trovare meglio. Meglio pagata e meglio rispettata. No, qui c’è una donna di valore che denuncia una immoralità diffusa nel mondo universitario e della ricerca. Una immoralità che al di là di questo singolo caso è percepita diffusamente. Una immoralità per così dire di sistema. Il cui esito è una stagnazione nell'ambito della ricerca in Italia. La signora nella sua lettera racconta una serie di frustrazioni che hanno segnato una carriera che invece scientificamente aveva conosciuto a livello internazionale riconoscimenti importanti e, quel che più conta, la delusione di una donna che ha sottomesso i propri interessi e la propria vita privata alla missione di aiutare con la ricerca chi soffre. Non saranno forse molti i casi di questo genere. Ma nemmeno pochi. E hanno un grande peso specifico nella qualità generale dell’Università. La signora invoca un sistema meritocratico, e la rimozione di persone che nonostante manifesta propensione al maneggio (riconosciuta addirittura dalla magistratura) continuano a sedere con il consenso dei colleghi nei luoghi dove si decidono posti e carriere. Una immoralità di singoli che diventa immoralità di sistema. Il governo sta pensando di varare una riforma per l’Università che, a quanto è dato di sapere, vorrebbe finalmente intaccare questa situazione. Lo spero vivamente. Di sicuro per la signora Rita è tardi, forse non lo sarà per altri. Del resto il problema della immobilità del sistema universitario non si registra solamente nei campi della ricerca scientifica applicata in ambiti come il biomedico, di cui alla lettera della signora Clementi. Anche nel campo umanistico (dalla letteratura alla storia dell’arte) il deficit di capacità di ricerca e di trasmissione adeguata della tradizione alle giovani generazioni è lampante. Il Presidente si è mostrato in passato sensibile a questi temi e lo farà probabilmente anche in questo caso. Ma il problema non può essere risolto neppure dall’impegno della più alta carica dello Stato. Occorre un cambio di mentalità generale, di costume. Il governo può favorirlo, e le leggi possono evitare di cristallizzare privilegi e rendite di posizione. Ma sarà solo la valorizzazione della passione e la capacità di sacrificio di più e più persone come Rita Clementi che potrà rendere migliore l’Università italiana. E di conseguenza tutto il nostro Paese.
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