meglio il leader o il programma?
Ho seguito in streaming tv sabato scorso (un piccolo estratto qui, http://www.ustream.tv/recorded/1719670) il congressino autoconvocato da Scalfarotto e altri giovani del Partito Democratico (soprannominati i Piombini) e svoltosi al Lingotto di Torino. Il tema era alquanto intrigante, in vista del prossimo congresso di ottobre: meglio scegliere il leader tra quanti si stanno candidando o meglio scegliere il programma di partito da sottoporre agli elettori (soprattutto ai desaparecidos delle ultime europee) per convincerli a ridare il voto per il PD? Personalmente tendo verso la seconda opzione, come ha anche indicato nel suo intervento al Lingotto la Serracchiani (http://www.youtube.com/watch?v=X77dvaMU8LI). Anche perchè la gente si è stufata del ping pong delle candidature e delle mozioni di sfiducia verso questo o verso quello. Il periodo che stiamo attraversando, anche grazie alle imprese del nostro beneamato presidente del Consiglio, non mi pare dei più floridi e dei più invoglianti all'ottimismo. È alquanto imbarazzante ammetterlo, per qualche verso è persino drammatico, ma se dovessimo votare domani per le politiche ci troveremmo a dover scegliere fra uno schieramento costretto a difendere il proprio leader con difficoltà sempre maggiore e un’opposizione che riesce a galleggiare solo grazie alle disgrazie altrui. Un vecchio marpione della politica come Castagnetti ha sintetizzato la situazione così: «Dobbiamo sperare sempre nelle ragazze del presidente del Consiglio o riusciamo anche a far credere di essere un partito vero di opposizione che punta a governare il Paese?». Bella domanda, non c'è che dire. Comunque, per chi non se ne fosse accorto, abbiamo un capo del Governo, padrone della sua maggioranza, sia pure in mezzadria con Bossi, che si dibatte in difficoltà sempre maggiori e perde credito all’estero, e un Partito Democratico che non è né a vocazione maggioritaria, come disse Veltroni, né tantomeno a vocazione governativa e, infine, non riesce a essere nemmeno opposizione nonostante i tentativi generosi di Franceschini, che a ben guardare qualche risultato mi sembra l'abbia prodotto. Il Paese, in verità, avrebbe bisogno di sapere se c’è un’alternativa credibile e invece nel PD (almeno come la vedo io) si è aperto un balletto deprimente sui nomi, che non ha nessun significato, se non quello di mostrare un partito che si perde dietro vecchie diatribe piuttosto che aprire una discussione seria sulla sua identità e su cosa proporre agli elettori circa i problemi che più assillano il Paese. Ho la netta impressione che anche il PD stia cincischiando sulle risposte da dare alla crisi che continua a preoccupare le famiglie, ai drammi sociali della disoccupazione, alle nuove povertà, alle sfide dell’imprenditoria grande, media e piccola sempre più in difficoltà. La settimana scorsa i giornali raccontavano di Bersani che si candidava a guidare il PD sostenuto da D’Alema, Enrico Letta e altri, mentre Franceschini puntava alla riconferma sostenuto da Fioroni, Marini, Sassoli e altri ancora. Non una parola sui programmi, sulle cose da fare. A volte ai giornali piace anche così. Bisogna pur dire che che la nascita del Partito Democratico è stata affrettata e che i suoi dirigenti si sono trovati subito di fronte alle elezioni politiche lo scorso anno, a quelle europee quest’anno, mentre già si debbono preparare alle regionali dell’anno prossimo senza aver avuto il tempo di metabolizzare entrate e uscite di leaders o presunti tali. Il tempo che rimane prima del congresso non è certo tantissimo e quindi, a maggior ragione, gli elettori avrebbero il diritto di sapere se il PD resterà un partito e non una babele.
I nomi vengono dopo, non prima. La sensazione che si ha di fronte alla proposta di Bersani o a quella di Franceschini è che siano ambedue insufficienti, perché dietro c’è un agglomerato confuso e indeterminato, che non sa da che parte stare.
In questi mesi che lo separano dal congresso di autunno, il PD deve riuscire nell’impresa di convincere gli italiani che, se da una parte (per il Pifferaio e i suoi sodali) le cose non vanno, dall’altra c’è pronta un’alternativa credibile. Per centrare l’obiettivo la condizione è che il congresso sia vero. Franceschini da giovane ha vissuto una vicenda simile, quando la DC nel 1976 celebrò un congresso durissimo al termine del quale fu eletto per una manciata di voti Zaccagnini. Fu vera politica, e quando vennero i giorni dell’ira con il sequestro Moro i partiti italiani fecero fronte comune contro lo sfacelo e la disgregazione. Quella era classe dirigente. Quella di oggi non ho ancora ben capito cosa sia.
I nomi vengono dopo, non prima. La sensazione che si ha di fronte alla proposta di Bersani o a quella di Franceschini è che siano ambedue insufficienti, perché dietro c’è un agglomerato confuso e indeterminato, che non sa da che parte stare.
In questi mesi che lo separano dal congresso di autunno, il PD deve riuscire nell’impresa di convincere gli italiani che, se da una parte (per il Pifferaio e i suoi sodali) le cose non vanno, dall’altra c’è pronta un’alternativa credibile. Per centrare l’obiettivo la condizione è che il congresso sia vero. Franceschini da giovane ha vissuto una vicenda simile, quando la DC nel 1976 celebrò un congresso durissimo al termine del quale fu eletto per una manciata di voti Zaccagnini. Fu vera politica, e quando vennero i giorni dell’ira con il sequestro Moro i partiti italiani fecero fronte comune contro lo sfacelo e la disgregazione. Quella era classe dirigente. Quella di oggi non ho ancora ben capito cosa sia.
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