l'Antipatico

domenica 16 marzo 2008

quella mattina in via Fani


Oggi vogliamo riproporre ai lettori di questo blog, per commemorare la strage di via Fani a Roma di 30 anni fa e il rapimento di Aldo Moro, l'articolo scritto da Miriam Mafai per la Repubblica. "L'azione militare di dodici killer". Via Mario Fani, angolo via Stresa. Qui, sotto un'insegna Snack Bar, in una strada medio-signorile che si affaccia ancora su accenni di campagna, è stato rapito, alle 9.15, l'on. Aldo Moro. Il commando era composto di dodici terroristi tra cui una donna. L'autista e la scorta di Moro, in tutto cinque uomini, sono stati massacrati senza pietà, a raffiche di mitra. Moro aveva lasciato la sua abitazione pochi minuti dopo le nove. Doveva recarsi, come abitudine, in chiesa, alla parrocchia di S.Chiara in piazza dei Giochi Delfici e di lì proseguire per Montecitorio, dove Andreotti avrebbe illustrato alle dieci il programma del nuovo governo. A mezzogiorno dieci studenti lo aspettavano all'università per discutere la tesi di laurea. La 130 ministeriale di Moro era guidata dall'appuntato dei carabinieri Domenico Ricci; al suo fianco il maresciallo Oreste Leonardi, detto Judo, da dieci anni guardia del corpo del presidente della Dc. Moro ha scambiato un breve saluto con l'autista, Judo e gli uomini della scorta, che lo seguivano a bordo di un'Alfetta bianca. Il percorso variava e quando gli agenti avevano l'impressione di essere seguiti avvertivano via radio la centrale. Niente di tutto questo è accaduto, Moro, seduto dietro l'autista, quasi accasciato sul sedile, sfogliava il pacco dei giornali del mattino che aveva al suo fianco scorrendone i titoli di prima pagina. E' possibile che ne abbia sollevato lo sguardo solo quando si è reso conto che la sua macchina era stata costretta a fermarsi, aveva tamponato. Allo stop tra via Fani e via Stresa una 128 familiare bianca che lo precedeva, frenava bruscamente. Ma non era un tamponamento: era l'agguato. Tutto ciò che è accaduto da allora è affidato alla ricostruzione della polizia, alle prime incerte testimonianze raccolte in via Mario Fani. Due giovani sarebbero usciti dalla 128 familiare targata Corpo Diplomatico (e risultata poi rubata all'ambasciata del Venezuela) aprendo il fuoco contro la macchina di Moro. Il parabrezza e i due finestrini anteriori, crivellati di colpi, vanno in frantumi. E' una vera e propria esecuzione, messa in atto con professionale spietatezza. L'autista viene freddato con colpi precisi sparati dall'alto in basso, mentre ancora tiene le mani sul volante. Vicino a lui Oreste Leonardi, detto Judo, colpito al petto, scivola giù dal sedile, senza nemmeno poter tentare di tirar fuori la pistola. Dietro c'è Moro. Non sappiamo cosa ha visto, cosa ha sentito, in quel momento. E' questione di un istante. Appostati dietro le siepi del bar dell'angolo, balzano fuori imbracciando il mitra altri componenti del commando: almeno cinque persone. Sono giovani, a viso scoperto, vestiti da steward dell'Alitalia. Il loro obiettivo è l'Alfetta: uno degli agenti viene ucciso sul colpo, il secondo è gravemente ferito (morirà dopo due ore in ospedale). Il terzo, Raffaele Iozzino, riesce a balzar fuori della macchina, dalla portiera posteriore destra, mettendo mano alla pistola. Viene colpito, con precisione professionale, in piena fronte. Cade riverso a terra, le braccia spalancate, la faccia giovane rivolta al cielo, la pistola a un metro dalla mano protesa. Pare certo, tuttavia, che prima di cadere sia riuscito a colpire uno dei terroristi: una traccia che può rivelarsi preziosa. Una ragazza bionda, con il mitra spianato fa da palo in mezzo alla strada, mentre due componenti del commando aprono violentemente la portiera sinistra della 130 ministeriale, ne trascinano fuori Moro (che istintivamente stringe in mano la sua borsa di pelle) e lo fanno salire a forza su un'altra 132 blu metallizzata, già parcheggiata all'angolo con qualcuno al volante. La macchina, fuggita in direzione della Camilluccia, viene ritrovata prima di mezzogiorno, poco distante, in via Licinio Calvo. Sul sedile posteriore ci sono tracce di sangue. Il tutto è durato pochi minuti. I terroristi, secondo una prima ricostruzione, sarebbero stati almeno dodici e si sarebbero serviti di tre o quattro automobili, e di una motocicletta Honda. Delle auto, una, quella utilizzata per il falso tamponamento, è rimasta sul posto, una seconda è stata ritrovata, delle altre per ora non c'è traccia. Alcuni inquilini di una strada chiusa, a poca distanza da via Mario Fani, assicurano di aver visto sopraggiungere poco dopo l'attentato tre automobili: una 132 blu (quella che è stata poi ritrovata) e due 128. Poichè la strada, via Carlo Belli, è chiusa da una catenella, una donna sarebbe scesa dalla prima macchina, avrebbe alzato la catenella, avrebbe atteso che le altre auto passassero, rimettendo a posto la catenella. Anche questo episodio confermerebbe la freddezza del commando e la sua perfetta conoscenza della zona. Sul luogo della strage restano le macchine crivellate di colpi e, sul selciato cosparso di bossoli, il cadavere di Raffaele Iozzino, la borsa di Moro, un cappello azzurro da steward con un fregio in oro: la freccia e un arco a forma di ala. Al posto di Moro, ci sono, abbandonati, giornali, una sciarpa, un impermeabile, una cartella di appunti. Poi la strada è bloccata. Salgono dalla Balduina a sirene spiegate le pantere della polizia, le macchine dei carabinieri, le autoambulanze. Arrivano il capo della polizia, Parlato, il comandante generale dei Carabinieri, i generali Terzani e Siracusano, il procuratore capo della Repubblica di Roma, De Matteo con il sostituto Infelisi, il Questore di Roma, il capo della Mobile. Dietro le transenne che isolano questo campo di battaglia urbana, preme una piccola folla fatta della gente che a Roma, a quest'ora, vive nel quartiere: donne di casa, uomini anziani. Nessuno ha voglia di parlare, un silenzio fatto di attonita paura. Gli agenti della scientifica disegnano per terra decine e decine di cerchi bianchi di gesso per ogni bossolo ritrovato. C'è qualcuno che ha visto. Il figlio del giornalaio che ha l'edicola a meno di trenta metri dal luogo del rapimento. Il giornalaio balbetta: "Ha sentito gli spari, è corso lì per curiosità, si è visto puntare contro un'arma. Non so niente di più, mia moglie sta male". Ora il figlio non c'è, è già stato portato in Questura. "Ho sentito una sparatoria ma non ho capito subito di che cosa si trattava. Sembravano martelli pneumatici" racconta Tiziano Di Febo. "Quando mi sono affacciato ho visto una macchina bianca che partiva a tutta velocità e un uomo piccolo con un giubbotto di pelle che si allontanava di corsa tenendo in mano qualcosa". Una coppia che era uscita per portare a spasso il cane assicura: "Un uomo che faceva parte del gruppo dei terroristi ci ha gridato con un accento strano, sicuramente straniero, forse tedesco: scappate, scappate". Poi è arrivata la moglie di Moro, con il viso contratto, chiamando per nome i ragazzi uccisi: "Li conoscevo da tanto tempo, erano bravi ragazzi". Un giovanotto alto, grosso, rosso di capelli, si fa strada tra la folla, accompagnato da un carabiniere e arriva fino alla macchina di Moro. E' il fratello di uno degli agenti massacrati. Piange ricordando: "Glielo avevo detto proprio ieri: non hai paura a fare questo lavoro? E lui mi aveva risposto tranquillo: e chi lo tocca, a Moro?". Sono le dieci e trenta quando arriva un sacerdote: china la testa, congiunge le mani, si sofferma davanti ad ogni cadavere impartendo l'assoluzione.

1 Commenti:

  • Fiumi d'inchiostro, pluri commissioni d'inchiesta, sfilata di politici e servizi, ma alla fine (come in tutti i misteri d'Italia) la verità sul caso Moro non si saprà mai. La Storia prevede e racconta anche queste situazioni scivolose che nessuna verità incontrovertibile potrà mai cancellare.

    Di Blogger nomadus, Alle 04 luglio, 2017 23:18  

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