l'Antipatico

martedì 11 marzo 2008

aveva ragione Eugenio Scalfari...(capitolo 3)




Anche oggi ritieniamo opportuno riproporre all'attenzione dei lettori di questo blog un vecchio articolo scritto il 18 febbraio 1996 da Eugenio Scalfari su la Repubblica, alla vigilia del voto che portò l'Ulivo di Prodi a vincere il 21 aprile di quell'anno. Potrebbe essere di buon auspicio la rilettura di quel pezzo giornalistico dal titolo "Il trucco c'è ma non si vede...". Eccolo. Alle urne, alle urne, esattamente come nel marzo del '94: stessa legge elettorale, stessi problemi e, specie alla testa del Polo di destra, stessi uomini; eppure sotto una superficie apparentemente identica qualche cosa è cambiato. Bisogna capire se in meglio o in peggio e in quale direzione il cambiamento ci porterà. A me sembra appena ieri l'apertura della campagna elettorale di due anni fa. Ricordate? Berlusconi decise di scendere in campo; in meno di trenta giorni Forza Italia si dette una struttura di combattimento nascendo come una costola dal corpo dell'azienda Fininvest-Publitalia, forte di tutto l'apparato televisivo di proprietà del capo. L'anomalia era tale e talmente enorme da impressionare tutte le persone ragionevoli in Italia e in tutto il mondo occidentale; la stampa inglese, francese, tedesca, spagnola, americana registrarono per la prima volta il caso Italia con dovizia di articoli, interviste, opinioni autorevoli di uomini politici, imprenditori, intellettuali. "Potrebbe accadere anche qui da noi un fatto del genere?" chiedevano i giornalisti e la risposta era dovunque negativa: "No, qui non potrebbe accadere". Negativa, ma non priva di preoccupazione, accresciuta dall'alleanza tra il "patron" della Fininvest e l'estrema destra ancora ben lontana dalla saponata compiuta in tre velocissimi giorni nelle acque di Fiuggi. Molti e autorevoli interlocutori temevano che quei fatti così insoliti e così apparentemente immotivati potessero diffondere il contagio anche fuori d'Italia, provocare effetti imitativi, scompaginare strutture democratiche ben altrimenti consolidate. Ma Berlusconi e i suoi compagni di strada (che allora tali erano, prima di diventare i suoi "protettori") interpretavano tuttavia un sentimento profondo che saliva dalle viscere del paese e che faceva premio sugli aspetti, pur ripugnanti, di quell'anomalia. Se dovessi descrivere quel sentimento nelle sue componenti principali lo definirei così: un odio antico e totale contro lo Stato; un disprezzo altrettanto antico e altrettanto totale contro la politica e contro il Parlamento; una rivolta fiscale diffusa in tutti i ceti e soprattutto nei più abbienti; un'ondata di egoismo di classe e di regione tanto più forte quanto più forte era il gruppo sociale e l'area geografica dove quell'egoismo allignava. Infine il culto del "fai da te" a dispetto d'ogni vincolo necessario alla convivenza civile. Sentimenti che avevano - occorre pur riconoscerlo - forti motivazioni e di cui quindi era difficile negare l'efficacia e perfino la legittimità. Era anche, quella di due anni fa, la stagione in cui Mani pulite aveva raggiunto il massimo dei suoi effetti giudiziari e politici e al tempo stesso il culmine della sua popolarità; ma il grosso del paese non capì, o non volle capire, che l'azione dei procuratori di giustizia si sarebbe trovata inevitabilmente alle prese con quell'impero televisivo e finanziario che era il frutto più tossico mai prodotto dal regime dei partiti tra il 1980 e il '94. Il grosso del paese applaudì con beata incoscienza e con la stessa generosa intensità sia Berlusconi che Di Pietro. Questo gigantesco equivoco di massa la dice lunga sulla labilità del consenso in una società dominata dai "media", dagli slogan e dagli "effetti speciali". Dicevo che quei giorni di due anni fa, con tutto l'affollarsi dei problemi, dei volti, degli slogan e di quel fascio di sentimenti al tempo stesso confusi ma intensi, contraddittori ma elementari, mi sembrano accaduti ieri. Infatti anche noi di Repubblica li vivemmo e li attraversammo con le stesse contraddizioni che agitavano il paese. Eravamo - lo eravamo sempre stati - avversari intransigenti del vecchio, decrepito e corrotto regime dei partiti, ma vedevamo lucidamente quanto il cosiddetto "nuovo" covasse dentro di sè la stessa corruttela, la stessa rozzezza e la stessa cupidigia del potere che erano state appena abbattute. Credevamo d'esser lucidi e razionali, ma la passionalità spesso ci prendeva la mano e limitava la nostra capacità di capire l'ampiezza del movimento che scuoteva la pubblica opinione. Di una cosa però eravamo ben certi: che l'anomalia italiana d'una azienda che diventa partito e del suo proprietario che ascende alla guida del governo nazionale mantenendo intatto il suo straripante potere televisivo e anzi aggiungendovi perfino le reti pubbliche della Rai, sarebbe stata fonte di devastazione per tutta la democrazia italiana e che, se quell'anomalia non fosse stata rimossa in radice, nessun avanzamento positivo sarebbe stato possibile. Il grosso degli italiani allora non capì questa posizione. Forse continua a non capirla neppure adesso, frastornato dal condizionamento dei "media" e dei loro imbonitori, ma quelo era ed è il punto centrale da risolvere. Ve la figurate voi un'elezione diretta del capo dello Stato o del capo del governo con i poteri che un meccanismo del genere porta inevitabilmente con sè, che avvenga in presenza di uno dei candidati che domina senza contrasto alcuno il sistema delle comunicazioni di massa? Domando: esiste un paese nel mondo in cui un fatto del genere sia mai accaduto, salvo che in regimi di totalitarismo e di dittatura? Esiste un paese democratico in cui una situazione come questa sarebbe tollerata? Noi parliamo tutti di Maastricht e dei suoi parametri ma non diciamo che il parametro preliminare non scritto ma dato per certo nella coscienza europea è la parità delle condizioni di partenza democratica. Ho letto ieri un vigoroso articolo del direttore del Corriere della Sera che sottolinea anche lui quest'intollerabile partita che si svolge con le carte truccate. Mi rallegro molto d'esser finalmente in buona compagnia, ma non lo fummo allora, due anni fa, poichè assai flebile e incerta fu la voce degli altri grandi giornali quando sarebbe stato necessario gridare alto e forte al capo dello Stato che il conflitto d'interessi rappresentava un ostacolo insormontabile al conferimento del mandato di governo. Allora fummo soli o quasi e ne pagammo anche il prezzo. In alcuni giudizi possiamo forse aver sbagliato o ecceduto ma non su questo che rimane un punto cardine se vogliamo costruire nuove regole e nuovi modi di più civile convivenza. E allora si ricomincia, con la stessa pessima legge elettorale, con la Rai ridotta a un Ok Corral, con le reti Fininvest già in batteria, con tutti gli urlatori e i guitti nelle loro postazioni, già sintonizzati all'insegna dello slogan del presidenzialismo. Che vuol dire? Non certo soltanto l'elezione diretta del capo dello Stato che, di per sè, significa ben poco. Vuol dire un Uomo con tutti i poteri. Contrappesi? Nessuno ne ha parlato finora e perciò, se questa tesi vincesse, si può star certi che nessuno ne parlerà se non per lanciare un pò di sabbia negli occhi. Gianfranco Fini ha messo le mani avanti: diranno - ha preconizzato - che voglio la Camera dei fasci e delle corporazioni. Ebbene sì, onorevole Fini; lei vuole sicuramente qualche cosa di molto simile a un Parlamento privo di alcun potere come è infatti il Parlamento francese. Esso ha potere soltanto in un caso: quando la maggioranza parlamentare sia diversa e anzi opposta a quella che ha eletto il Presidente. Come se avessimo al Quirinale D'Alema e a palazzo Chigi lei, onorevole Fini. Bell'esempio di stabilità e omogeneità. Questo è il pastrocchio che ha messo in crisi la stessa democrazia francese e che non si può infatti verificare in alcun altro sistema politico europeo. Con l'aggiunta che in Francia non esiste neppure alla lontana un "mister Televisione". Ma nonostante queste evidenti verità, avremo due mesi e mezzo di campagna elettorale all'insegna dell'Uomo forte che decide per tutti. Questa è la trappola che bisognava evitare quando il negoziato sulle riforme cominciò. Noi auspicheremo un confronto civile e per quanto ci riguarda così lo condurremo, dando voce a tutte le parti in campo; ma certo non rinunceremo a dar voce a noi stessi, ai nostri convincimenti e alle nostre posizioni. Riteniamo che, quale che sarà il risultato elettorale, il tema del conflitto di interessi sia preclusivo d'ogni altra decisione. Riteniamo che da subito occorra riportare un minimo di ordine democratico alla Rai. Riteniamo vitale la legge sul riassetto del mercato televisivo. Pensiamo che il progetto di Dini di avviare un grande piano per l'occupazione concertandolo con le parti sociali possa e debba esser perseguito da subito. Pensiamo che l'Unione monetaria europea debba andare avanti affiancata però dalla costruzione d'una Unione politica, senza di che si costruiscono castelli di sabbia. Infine pensiamo che il nuovo Parlamento debba cambiare la pessima legge elettorale esistente. Una commissione parlamentare per la revisione della Costituzione con limiti ben precisi e limitati alla forma di Stato e di governo potrà esser fatta subito, al momento stesso dell'insediamento delle nuove Camere su base proporzionale alla forza di ciascun gruppo. Canteremo ancora una volta nel deserto mentre gli urlatori della tv imboniranno le platee? Noi speriamo di no ma di una cosa assicuriamo il pubblico che si raccoglie intorno a questo giornale: cercheremo in tutti i modi di far trionfare non già una parte sul'altra, ma la ragione sul fanatismo e l'interesse generale su quelli di gruppo e di fazione, quale che ne sia il colore e la maschera. Così terminava il bellissimo ed ancora attuale articolo di Scalfari, scritto 12 anni fa. Non trovate qualche similitudine con la situazione di oggi? Noi sì, e neppure poche.

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