l'Antipatico

domenica 3 maggio 2009

l'accordo con resa incorporata


Ogni qualvolta una grande azienda italiana riesce a conquistare una fetta di mercato mondiale non si può che gioire. Ma nel caso dell'accordo FIAT-CHRYSLER la gioia, a mio modesto avviso, dovrebbe essere alquanto moderata. E spiego anche il perchè. Prima di tutto volevo sottolineare come la grande stampa nazionale, il governo (il Pifferaio in testa, naturalmente) e i vertici del Partito Democratico abbiano salutato con euforia le recenti operazioni espansioniste della FIAT su scala globale. L'approdo nel mercato statunitense tramite l'intesa con Chrysler, e la probabile conquista della OPEL in Germania, sono stati interpretati come sintomi di quella italica capacità di aggredire i mercati esteri, una sorta di conquistatori del nuovo millennio dell'industria automobilistica globale così tanto rimarcata dal presidente del Consiglio e da molti altri. I lavoratori tuttavia non dovrebbero lasciarsi ingannare da questa pioggia improvvisa di lustrini e di paillettes giornalistiche. La realtà infatti è che la FIAT ha sì acquisito il controllo strategico della CHRYSLER, ma sotto la condizione che i sindacati americani accettassero un accordo capestro: congelamento dei salari, scatto degli straordinari solo oltre le 40 ore settimanali, cancellazione delle vacanze di Pasqua e di altre festività per due anni, pericoloso acquisto di una gran massa di azioni dell'industria automobilistica americana da parte del fondo pensione dei dipendenti, e la completa rinuncia agli scioperi fino a tutto il 2015. Massimo Giannini (uno dei migliori giornalisti degli ultimi anni, a mio giudizio s'intende) scrivendo un ottimo articolo su la Repubblica ha parlato di una soluzione responsabile e non ideologica da parte delle rappresentanze sindacali statunitensi. Ma, a mio avviso, sarebbe più onesto definirla una resa senza condizioni, che peserà non poco sulla localizzazione dei licenziamenti da un lato e dall'altro dell'Atlantico, e che dunque costituirà un enorme problema per i sindacati italiani. Siamo insomma di fronte all'ennesimo episodio di quel generale processo di inasprimento della guerra tra lavoratori che sta sempre più caratterizzando l'evoluzione della crisi economica in corso. Alla intensificazione del conflitto internazionale tra lavoratori la nuova strategia economica degli Stati Uniti contribuisce in misura significativa. Infatti, il ruolo dell'economia americana risulta oggi totalmente ribaltato rispetto agli anni passati. All'epoca del boom speculativo gli Stati Uniti agivano da spugna assorbente delle eccedenze produttive mondiali. Quel che gli altri producevano gli americani lo compravano, e in questo modo contribuivano a mitigare gli effetti della sfrenata competizione salariale nella quale si cimentava il resto del mondo. Adesso però l'America si ripresenta sulla scena internazionale in una veste opposta e feroce. Con i sindacati in ginocchio, il cambio del dollaro sempre più favorevole e un governo pronto a erogare montagne di denaro pur di rimettere in carreggiata le aziende nazionali, gli Stati Uniti non attenuano ma al contrario rendono ancor più violenta la concorrenza mondiale sulle retribuzioni e sulle condizioni di lavoro. Con questa storica mutazione di ruolo da parte degli americani, il capitalismo globale in crisi si tramuta dunque in un gigantesco beggar my neighbour, lo spietato gioco delle carte in cui lo scopo di ognuno è di vincere saltando al collo del vicino. Degli effetti di questo gioco ci accorgeremo presto anche in Italia. Infatti, dopo avere incassato la resa dei lavoratori americani, l'ottimo capitano d'industria (nonchè mio illustre compaesano) Sergio Marchionne non esiterà a imporre pesanti ristrutturazioni nel nostro Paese. La grande stampa parlerà anche in quel caso della necessità di un atto responsabile da parte dei sindacati? C'è da temerlo. Per i lavoratori italiani non vi è dunque alcun motivo per partecipare all'allegro revival nazionalista che è montato in questi giorni attorno ai colpi messi a segno dalla FIAT. Piuttosto, essi dovrebbero augurarsi che emerga presto un'alternativa di classe alla guerra mondiale tra lavoratori che la crisi capitalistica e la connessa fine dell'egemonia americana stanno alimentando. Questa alternativa si costruisce recuperando consapevolezza di un fatto evidente ma troppo a lungo dimenticato: il libero scambio dei capitali e delle merci può andare contro gli interessi della classe lavoratrice e dello stesso internazionalismo operaio. La questione allora non è se si debba o meno discutere di protezionismo. Il problema è di dare una declinazione di classe al tipo di barriere e ai movimenti di merci e di capitali che si dovranno per forza introdurre, se si vorrà evitare l'abisso di una competizione salariale planetaria e senza freni. In questo senso, sono maturi i tempi per esigere un blocco dei trasferimenti di capitale verso quei Paesi che pretendono di affrontare la crisi puntando sull'abbattimento dei salari e sul peggioramento delle condizioni di lavoro. Nel silenzio assordante dei partiti del socialismo europeo, la sinistra europea farebbe bene a battere un colpo esattamente in questa direzione. Perlomeno questo è il mio augurio...

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