l'Antipatico

martedì 23 febbraio 2010

il vero giornalismo informativo


Lo dico senza piaggeria e senza ipocrisia: la televisione e il giornalismo d'inchiesta con la firma di Riccardo Iacona è quanto di più vero e incisivo si possa oggi trovare nel panorama dell'informazione lobotomizzata da Berlusconi e dai suoi sgherri (basti citare Minzolini, Fede, Vespa, Feltri e Belpietro). E non mi si venga a dire che Iacona è uno con i paraocchi e con la tessera da comunista o da bolscevico. Chi lo segue, e chi ne apprezza l'asciutta e sobria conduzione giornalistica, non può non valorizzarne in toto il suo modus operandi. Tanto per fare un recente esempio: riguardiamoci per intero la puntata di domenica scorsa su RaiTre di PresaDiretta (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-3c632591-88bc-4ab7-9e53-f076a370cdb5.html?p=0) dedicata quasi totalmente alla situazione del post terremoto nel capoluogo abruzzese e ditemi voi se non è vero giornalismo informativo! L'ineccepibile inchiesta di Iacona (e dei suoi validi collaboratori) ha fatto il punto della situazione a quasi 11 mesi dal tragico evento. Abbiamo scoperto così, seguendo con sempre maggiore attenzione il filo logico del giornalista, che sono ancora quasi 28 mila gli aquilani cosiddetti dispersi, quelli cioè che vivono a tutt'oggi negli alberghi della costa abruzzese o in affitto temporaneo in appartamenti o a casa di parenti. Nonostante le strombazzate di regime di Berlusconi, Bertolaso & soci, lì ci sono ancora 3 cantieri aperti del famigerato progetto C.A.S.E., le magnificate case del Pifferaio di Arcore arredate di tutto punto. Nessuno lo dice (figurarsi il TG1 di Minchiolini), ma ci sono ancora 166 appartamenti da ultimare e 213 da assegnare. E mancano all'appello centinaia di prefabbricati in legno leggero della Protezione Civile guidata (ancora non si sa per quanto) da Guido "Sciatica" Bertolaso. In parole povere, la ricostruzione vera e propria segna vergognosamente il passo e, quel che più scandalizza, non è stata ancora emanata l'ordinanza per la ricostruzione del Centro Storico del capoluogo abruzzese dove (a parte qualche puntellamento a favore di telecamera) nulla è stato fatto. Eppure, come abbiamo scoperto dall'inchiesta di Iacona, ci sono centinaia di case che, con poca spesa, avrebbero potuto essere oggi abitabili. A parte gli abitanti del Centro Storico ci sono migliaia di cittadini aquilani che, per colpa delle ordinanze contraddittorie e della gelatinosa burocrazia, aspettano ancora delle risposte alle loro legittime richieste di finanziamento per cominciare i lavori. E qualcuno ce li ha messi anche di tasca propria, i soldi, per poter ristrutturare e cancellare quelle tragiche ferite lasciate sui muri la notte del 6 aprile dello scorso anno. In ultimo un modesto consiglio a Iacona: caro Riccardo, a parte l'augurio che tu possa sempre continuare così in libertà a fare i tuoi servizi giornalistici, perchè non mandi una copia della cassetta della puntata di domenica scorsa a Berlusconi allegando un biglietto di esortazione a far lavorare così (come fai tu) i suoi pennivendoli di regime, sia della televisione che della carta stampata? Chissà, tentar non nuoce: hai visto mai che un domani il fido Emilio decida di sguinzagliare qualche suo eminente redattore per poter fare un bel reportage (magari non da lecchino) sulla corruzione al tempo di Re Silvio?

venerdì 19 febbraio 2010

la BEBELE della vergogna


No, non è un refuso di stampa. BEBELE sta per BErlusconi, BErtolaso, LEtta: l'oramai arcinoto triumvirato della vergogna che le cronache giudiziarie, degli ultimi tempi, hanno fatto conoscere nella loro immorale natura di cinici pupari del potere al servizio dei propri squallidi interessi, costituiti dalle solite tre esse: soldi, sesso e schifezze varie. Ognuno ha fatto la sua parte, ognuno ha avuto il proprio ponte di comando e tutti si sono circondati di quella sottospecie di corte dei miracoli formata da intrallazzatori riciclati, faccendieri da quattro soldi, spicciafaccende di infimo ordine e marchettare tipo Tor di Quinto. In questi giorni lo schifo e la rabbia, l'indignazione e il senso di legittimo rancore nei confronti di questi squallidi protagonisti al negativo, hanno dato il via a una sorta di caleidoscopio della protesta, di molteplicità della disapprovazione e del malcontento generale. E' inutile andare in tv con la faccia di bronzo e con l'atteggiamento dell'alluvionato sommerso dalle ingiuste critiche e lagnanze (basta rivedere frammenti di Ballarò come in questo caso, http://www.youtube.com/watch?v=baXlGCCisno), se poi non si ha il senso del pudore e dell'onestà intellettuale di dimettersi nonostante tutto e tutti. Non serve riscoprirsi ventriloqui della legalità travestiti da paladini dell'anticorruzione (come ha fatto il Pifferaio di Arcore, http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201002articoli/52348girata.asp) se poi si ha nel proprio DNA la formula magica della disonestà e dell'immoralità elevate all'ennesima potenza. Che senso ha frequentare porporati e salotti buoni, organizzare incontri a base di crostate e scrivere lettere strappalacrime (http://rassegnastampa.formez.it/rassegnaStampaView2.php?id=209345) se poi si presta il fianco e si avalla lo spirito corruttivo e l'ignavia insolenza del proprio padrone? Tutto questo non ha senso e non può trovare asilo morale presso chiunque sia dotato di buon senso e di amor proprio, oltre che di genuina partecipazione per la verità e per il senso civico di appartenenza nei confronti di un vivere in modo sano e trasparente. La scontata considerazione che mi viene da fare è che i soggetti in questione non hanno un senso della vergogna magari figlia di un'educazione ricevuta ma non metabolizzata; non hanno nemmeno quel senso dell'onore, oramai in via di estinzione, che permette di praticare quel magnifico sport che è il rassegnare le dimissioni, il rimettere il proprio mandato e uscire di scena in modo dignitoso. Purtroppo questo succede solo sui set cinematografici.

giovedì 18 febbraio 2010

paghiamo poche tasse, altro che evasori!


A giudicare dal titolo di questo mio odierno post sembra che io stia prendendo in giro quei pochi lettori che seguono questo blog. In realtà non è una boutade e se avrete la compiacenza di seguirmi nel discorso ve ne accorgerete. Iniziamo: paghiamo troppe poche tasse. Infatti, in media, ogni contribuente italiano versa all'Erario appena 4.670 euro all'anno di imposte sul reddito. Questo lo ha reso noto il Dipartimento delle Finanze del Ministero dell'Economia (http://www.finanze.it/export/download/novita2010/Avviso_per_la_stampa_dati_completi_rev_12_feb_loghi.pdf). Come si può ben capire si tratta di una cifra equivalente a un'inezia, una quisquilia. Soprattutto se si pensa a tutti i servizi (diretti e indiretti) dei quali ogni cittadino usufruisce per sè e per la propria famiglia. Dalla sanità alla scuola, dalla sicurezza alle infrastrutture, fino a una parte della previdenza, in fondo bisogna ammettere che paghiamo poco allo Stato in cambio di quanto riceviamo. Non si legga facile ironia nelle mie parole. Pertanto, prima di venire idealmente lapidato da qualche contribuente imbufalito, vorrei spiegare meglio il quadro che emerge dalle ultime statistiche fiscali rese note l'altro ieri. Il punto nodale è che paghiamo in media troppe poche tasse perchè siamo troppo pochi a versarle! Orbene, la popolazione italiana è costituita da più di 60 milioni di abitanti, ma i cittadini che presentano la dichiarazione Irpef sono poco più di 41 milioni. Di questi, il 27% non versa un euro al Fisco: vuoi perchè dichiara redditi troppo bassi per pagare imposte, vuoi perchè compensa a zero grazie alle detrazioni e alle deduzioni. E' quindi abbastanza chiaro che in questa area si annidano parecchi furbacchioni travestiti da poveri, i quali dichiarano la metà (o molto meno) di quanto effettivamente guadagnano. Ma se si considera che in questo insieme i lavoratori dipendenti e i pensionati costituiscono il 78% dei soggetti, per quanto ci siano evasori e malintenzionati, siamo costretti a fare i conti con un altro dato di fatto: paghiamo troppe poche tasse anche perchè si guadagna veramente poco. La metà dei contribuenti (anche se il dato si riferisce al 2007, quando la crisi era ancora lontana) non supera i 15.000 euro di reddito annuo lordo; stando a ciò questi individui se la cavano al massimo con mille euro (o poco più) al mese. E allora, quante tasse vuoi chiedere loro? C'è poi una seconda fascia di contribuenti (circa il 40%) che sta tra i 15.000 e i 35.000 euro l'anno, per proseguire via via con fasce di reddito che si riducono fino all'1% che dichiara oltre i 100.000 euro. Ma qui i conti non tornano più. Anzitutto perchè, anche solo guardando le automobili parcheggiate in strada, appare chiaro che esiste una fetta di popolazione assai superiore all'1% che ha un tenore di vita decisamente agiato (che però riesce evidentemente a eludere il pagamento dell'Irpef). Più di tutti, però, colpisce un altro dato: un club ristretto, pari al 12% dei contribuenti oltre i 35.000 euro di reddito, paga ben il 52% di tutte le imposte Irpef. Si evince quindi che la fascia di mezzo dei contribuenti sopporta un carico fiscale realmente pesante. Per dirla in parole povere, il 12% di 41 milioni di contribuenti (vale a dire 4 milioni e mezzo di persone) paga oltre la metà delle imposte (facendo eccezione per quelle sulle imprese e per quelle indirette) che servono a finanziare lo Stato e il relativo vivere civile di oltre 60 milioni di cittadini italiani. Facendo un totale approssimativo si tratta di circa 70 miliardi di euro. E visto che i lavoratori autonomi trovano molto spesso come compensare, gli imprenditori come scaricare sui conti aziendali e i professionisti sono noti per esser bravissimi a far di conto, ecco che il carico fiscale resta (per una porzione davvero spropositata) sulle spalle di un sempre più ristretto ceto medio, fatto di lavoratori dipendenti e pensionati. I quali saranno pure in carriera i primi e agiati i secondi, non dico di no, ma è certo che gli stessi finiranno per rimanere schiantati da un tale insopportabile peso, soprattutto se hanno figli a carico e quindi fortemente penalizzati dall'attuale sistema di tassazione. In buona sostanza di tasse ne paghiamo (in media) troppo poche, ma principalmente siamo in troppo pochi a pagarle. E sempre gli stessi. Che ne dite, cari Berlusconi & Tremonti, vogliamo iniziare finalmente a parlarne seriamente di questo argomento?

lunedì 15 febbraio 2010

istantanea della nuova povertà


Una scena che ultimamente si vede molto spesso nella capitale spagnola. Di primo mattino, sui marciapiedi della Gran Via (il cuore commerciale di Madrid) un uomo di mezza età si accosta a un cestino della spazzatura, si guarda attorno, fa mezzo giro su se stesso e poi lesto infila la mano nel cestino e ne trae qualcosa, forse una confezione di latte condensato, che fa rapidamente sparire sotto la falda del soprabito. Nei suoi occhi smarriti s’indovina una vergogna maldominata, come un malanno di nuovo conio, venuto all’improvviso a cambiarti la vita. La scena, riflessa nel cristallo scintillante di una elegante boutique e che sembra un’istantanea di Cartier-Bresson, stringe il cuore. E questa non è che una delle tante istantanee scattate negli ultimi mesi nella terra iberica. Come ad esempio nel refettorio di calle Eduardo Dato o nella mensa delle Figlie della Carità di San Vincenzo. Le file cominciano già dal marciapiede, fra una bottega di profumi e un negozio di telefoni cellulari. Ci sono molti immigrati, forse più della metà. Ma c’è una buona percentuale di spagnoli, donne soprattutto, che chiedono alle suore prevalentemente un aiuto alimentare. Si capisce benissimo che il bisogno alimentare è solo la punta di un iceberg che sta alle fondamenta della società iberica e ora che la crisi morde alla gola il miracolo economico zapateriano, il disagio sociale è molto più vasto. Talmente vasto che il tono acidulo delle smentite ufficiali non fa che rafforzarne la mole. Ci sono almeno 8 milioni di poveri, anche se il governo lo nega. Ma la cosa che sorprende è che in una nazione di 45 milioni di individui, che ha un tasso di disoccupazione del 20% (che fra i giovani raggiunge il 40%) e che ha un quinto della popolazione senza lavoro, non ci sono convulsioni sociali, nè eclatanti manifestazioni di piazza. Com’è possibile che tutto si riduca alla mesta indolenza con cui un esercito di padri di famiglia, di ex ferrovieri, di ex impiegati di banca, di trentenni licenziati dalle agenzie di pubblicità, di elettricisti senza clienti, di rappresentanti di commercio senza più una ditta alle spalle, fa la fila davanti alle agenzie di collocamento o agli sportelli della Caritas? Proprio qui, nel Paese che tra il 1980 e il 1992 aveva triplicato il proprio Pil e che solo un anno fa annunciava con una iattanza da romanzo picaresco il sorpasso sul reddito pro capite italiano? Proprio qui, dove si è verificato l’urto migratorio più consistente d’Europa con il 10% di immigrati, ma dove la pax zapateriana aveva abilmente diluito e governato i potenziali conflitti sociali?
Apparentemente i conti non tornano. La realtà si confonde con l’immaginazione e, come nel visionario teatro di Calderon de la Barca, verrebbe da dire che per gli spagnoli davvero
la vida es un sueno . Ma davvero un sussidio mensile di 420 euro e il miraggio di un trabajo temporal in mancanza di un posto fisso possono far sognare? Certamente no. La ragione sta nel doppio volto dell’economia spagnola. Sotto la crosta dei dati ufficiali si muove un magma sommerso che non ha niente da invidiare a quello italiano. E se guardiamo indietro nel tempo, ci accorgiamo che questi 8 milioni di poveri esistevano già prima del grande balzo economico. Sono rimasti gli stessi durante gli anni di euforia e ci sono tuttora, con qualche migliaio di unità in più e 4 mila posti di lavoro che vanno in fumo ogni giorno, ora che il sueño di Zapatero scricchiola. Quello che nessuno sa dire con certezza è dove sia finita tutta la ricchezza prodotta da anni di vacche grasse, di Pil in espansione a livelli cinesi, di bolle immobiliari, di spavalda reconquista dell’America Latina da parte di colossi finanziari come il Santander e la BBVA. Alla fine quel che conta è che (per quel concerne i poveri e i nuovi poveri) si sopravvive con una miscela di sussidi, di lavoro nero e di solidarietà familiare. Tre gambe che, a dispetto dei parametri di Maastricht e delle preoccupazioni dell’Ocse e del Fondo monetario internazionale, finora hanno tenuto in piedi l’economia nazionale. E a dar retta a certe cifre c’è da crederci: pare che in Spagna vi siano almeno 1 milione e trecentomila aziende totalmente sconosciute all’erario, che danno lavoro a qualcosa come 14 milioni di lavoratori. Tutti rigorosamente in nero, a dispetto del Pil nazionale che da sette trimestri è in calo e che nell’ultima tornata è andato sotto del 3,6%. Del resto basta una controprova elementare: se davvero il 20% degli spagnoli fosse senza lavoro ci sarebbero milioni di richieste di sussidi. Invece il numero di domande ufficiali è infinitamente più basso. Invece a pagare il conto più salato sono gli immigrati, in gran parte irregolari, che se ne tornano nel proprio Paese. E che dire dei giovani, confinati fra le mura di famiglia, protetti da un ingannevole benessere che tuttavia non permette loro di scorgere un futuro degno di questo nome al di là delle pareti di casa? Ancora un'ultima istantanea: nella bella piazza che si apre alla Puerta del Sol, due uomini stanno rimboccandosi il sacco a pelo nel quale passeranno la notte. Su un pezzo di cartone hanno scritto: "Puedes ayudarme por favor? No tengo casa, no tengo trabajo". Qualche metro più in là, fra il cicaleggio gaio degli impiegati che escono dagli uffici all’ora cara a Garcia Lorca, un altro neopovero scrive: "Te regalo mi poesias". Per un euro ti scrive sette o otto versi, per cinque euro un sonetto intero. Non è propriamente un regalo, ma come non capire il pudore di chi si vergogna a chiedere la carità?




sabato 13 febbraio 2010

il ritorno dei mariuoli


Ho l'impressione che ultimamente c'eravamo un pò distratti sul fronte della corruzione politica. Nella nostra memoria storica non facevano più capolino mariuoli e corruttori. Ma poi ci è venuta in soccorso la giornata di giovedì 11 febbraio, con le notizie degli arresti di Camillo Pennisi (http://www.voceditalia.it/articolo.asp?id=45997) e di Renzo Masoero (http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201002articoli/52153girata.asp), proprio mentre emergevano nuovi particolari sull'inchiesta che ha coinvolto il capo della Protezione civile Guido Bertolaso (di cui ho scritto sull'altro mio blog con http://tpi-back.blogspot.com/2010/02/guido-bertolaso-indagato-non-certo-per.html e con http://tpi-back.blogspot.com/2010/02/fate-schifo-ma-per-davvero.html). E il tutto ci fa fare un bel tuffo nel passato, a quel 17 febbraio 1992 quando scattarono le manette ai polsi del socialista Mario Chiesa, subito liquidato dall'allora leader Bettino Craxi come appunto un mariuolo. Era l'inizio di Tangentopoli e dell'inchiesta Mani Pulite. L'Italia scoprì una classe politica e una Pubblica Amministrazione largamente corrotte, oltre a una classe imprenditoriale corruttrice e concussa. Di tipi come Mario Chiesa ne finirono in manette a centinaia (forse non sempre a ragione...), a Milano come a Roma, a Napoli come a Palermo. Il tutto avveniva 18 anni fa. Oggi sembra di rivivere quei fatti, quegli avvenimenti. Sembra di essere tornati a respirare la stessa aria inquinata di corruzione e di ipocrisia, di mazzette e di scambi di favori (anche sessuali). Eppure soltanto due settimane fa c'era stato l'allarmato discorso del procuratore capo di Milano, Manlio Minale, in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario. Snocciolò cifre inequivocabili: 58 inchieste per corruzione nel 2009, rispetto alle 38 dell'anno precedente. Per non parlare degli altri reati di mala amministrazione. Insomma c'era da allarmarsi, eccome. E se scorriamo le agenzie di stampa solo in questo mese di febbraio troviamo, in appena 12 giorni, ben 18 inchieste nuove di zecca su corruzione e concussione. Da Nord a Sud, da Milano a Vercelli, da Genova a Comacchio, da Firenze ad Ancona, da Pescara a Sassari. E poi ancora Roma, Caserta, Napoli, Bari, Cosenza, Siracusa, Enna. Una sfilza impressionante con decine di arresti e centinaia di indagati: sindaci, assessori e consiglieri comunali, provinciali, regionali. Di ogni colore, da destra e da sinistra. E tanti funzionari pubblici invischiati nella gelatina corruttiva: semplici impiegati, vigili urbani, finanzieri, medici ospedalieri e tutto il campionario della Pubblica Amministrazione. Tutti nascosti all'ombra dei politici o dietro la loro distrazione. Davvero un gran brutto scenario che ci sembra di aver già visto, con i soliti ladri di soldi e di moralità. Diciotto anni fa gli italiani sostennero entusiasticamente il lavoro dei magistrati (chi non ricorda il cosiddetto popolo dei fax...). Poi, probabilmente anche per responsabilità di una parte dei giudici, la luna di miele finì. E con essa l'attenzione e la tensione morale. Qualcuno ne ha approfittato, anzi ancora ne approfitta, come conferma la cronaca di questi ultimi giorni. E allora è inevitabile l'intervento giudiziario (anche se il Pifferaio di Arcore non è contento). L'importante, adesso, è che i magistrati lavorino con tranquillità, senza protagonismi e senza ombre di partigianeria. Ma anche senza il timore di essere messi continuamente sotto accusa. Ma tutto ciò non basta. Tra poco saremo chiamati a votare per le regionali. E allora sarà il momento delle scelte. Dovremo scegliere nomi, storie e comportamenti dei candidati politici. Su tutto: dai valori cardine (vita, famiglia, libertà educativa, solidarietà e lavoro) che difenderanno, fino alla moralità che li dovrà distinguere. Anche per evitare scelte che, in futuro, possano nuovamente far evocare quell'epiteto di 18 anni fa: MARIUOLO! Post Scriptum: consiglio caldamente la lettura di questo splendido articolo del professor MICHELE AINIS (http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7003&ID_sezione=&sezione=) che potrebbe disincentivare la pratica della corruzione.

mercoledì 10 febbraio 2010

la droga, un inganno senza fine


Ci sono volute le polemiche isteriche e a volte pretestuose, seguite all'outing del cantante Morgan, per riaccendere i riflettori su un tema mai abbastanza trattato a dovere e senza inutili ipocrisie, quello della droga. Il fatto, doloroso, è che non si parla mai con sufficiente responsabilità di questo scomodo e inquietante argomento. Anzi, non se ne parla più. Non si parla quasi mai del suo consumo sempre più smodato. Non se ne parla e basta, e se proprio siamo obbligati dal chiacchiericcio, lo facciamo quando qualcuno ci lascia le pelle, oppure quando un personaggio famoso (appunto il caso Morgan) o presunto tale, confessa di farne uso accampando i motivi più disparati, mentre si tratta unicamente di un consumo disperato che diventa disperante. Se ne parla per colpa di qualche vip, oppure per qualche sfigato che rimane a terra, esalando un rantolo che somiglia a un crack. Siamo bravissimi ad arrabbiarci, a scandalizzarci, quando a comportarsi così è un nostro cosiddetto eroe, ma sul problema vero dell’uso e dell'abuso, dell’accessibilità ad ogni angolo di strada, facciamo come gli struzzi, e affermiamo di non conoscerne il dramma, mentre tutti noi (adulti, genitori, educatori) potremmo scrivere un trattato sul pericolo che ne deriva e che affonda gli artigli sulla carne dei nostri figli. Drogarsi è reato, ma solo dentro una corresponsabilità collettiva. E per far comprendere che tutte le droghe fanno male, serve una comunicazione urgente e delicata, con l'inevitabile domanda: cosa dire in proposito a un giovane? Trattare la questione droga equivale a parlare di morte del cuore, della testa, della sparizione di ampie fette generazionali. È incredibile come all’abitudine del farsi, al consumo in grande quantità, dalla discoteca all’ufficio, dal fine settimana vissuto da leoni alla festa in casa, non ci mostriamo preoccupati, come se la paura fosse un misero espediente per rimuovere l’angoscia d’impotenza, attraverso la cultura d’evasione, che produce atteggiamenti nullificanti. Non è con la ricerca di parole che dovrebbero spaventare o col terrorismo dialettico che sarà possibile mettere mano all’inquietudine dei giovani, alla loro fragilità quotidiana. Occorrerebbe invece ridurre il rischio di incappare nelle morali d’accatto, che durano il tempo di una trasmissione, un incontro o una convention ben pagata. E' necessario allora dare di più e parlare di meno, fare di più per le comunità di recupero che operano sul campo da decenni con l'intento di combattere, resistere, consegnare strumenti di aiuto verso chi è imbavagliato dall’inganno di tutte le droghe. Forse è il caso di dare sembianza e storia alla morte, alle troppe morti che ci portiamo dentro, che abbiamo intorno. Forse occorre raccontare la storia personale, quella rapinata di ogni dignità a causa della roba, la storia personale di sconfitti sopravvissuti e miracolati dalle mani tese, spesso sconosciute, che ci sono venute incontro. Non è tempo di elargire ulteriori fragilità, ma di affermare che la droga non lenisce la depressione (come ha stupidamente affermato Morgan) ma rimane il maggiore distruttore di persone, di identità e che conduce dalla malattia al suicidio. E quando l’inganno è nudo, c’è la morte ad attendere al varco.

venerdì 5 febbraio 2010

una crisi senza fine


L'allarme per la situazione economica in Spagna sta raggiungendo livelli veramente preoccupanti. Il mio caro amico e coautore di questo blog, DAVIDE, più volte con i suoi commenti e con i suoi scritti ha fotografato l'attuale situazione in terra iberica che lo vede, purtroppo, vittima e protagonista suo malgrado. L'ultimo grido allarmante giunge anche dalla Caritas spagnola. C’è gente «che non può permettersi nemmeno il minimo per sopravvivere. E si tratta di persone che, fino a poco tempo fa, avevano un reddito normale». È una denuncia forte quella del segretario della Caritas spagnola Sebastian Mora. La crisi economica del Paese iberico si aggrava di mese in mese e proprio ieri la Borsa spagnola ha vissuto un tonfo storico, con un calo di 6 punti (il peggior risultato dal novembre del 2008) che registra i timori della crisi che non accenna a calare. I poveri sono ormai otto milioni, un decimo della quota europea: di questi oltre 1 milione e mezzo versa in condizioni di difficoltà estrema. Una tragedia con cui la Caritas si confronta quotidianamente, grazie soprattutto agli operatori dell’organizzazione che cercano, in qualche modo, di lenire la miseria di tanti spagnoli. Certo è che Il loro compito si sta facendo ogni giorno sempre più gravoso. La diffusione dei dati sulla disoccupazione di qualche giorno fa ha avuto l’effetto di una doccia gelata sui cittadini e sul governo di Zapatero: quattro milioni di spagnoli sono senza lavoro, quasi il 35% in più rispetto allo scorso anno. Erano dieci anni che non si registrava un livello simile. «Povertà ed emarginazione non sono un fatto naturale – ha affermato Mora – ma il risultato di relazioni economiche ingiuste». E ha concluso: «Non abbiamo imparato niente dalle recessioni del passato». Lo dimostra (continua a sottolineare Mora) l’elevata percentuale di emarginati nel Vecchio Continente. Un dato che contraddice i proclami ufficiali: Bruxelles aveva deciso di proclamare questo come «l'anno europeo per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale». L’intento però, secondo Mora, si sarebbe rivelato «un fallimento». Almeno finora. Trovare un modello di sviluppo più equo che permetta di ridurre la miseria e di eliminare quella estrema entro il 2010: è questo l’obiettivo che si prefigge della Caritas spagnola. L’organizzazione cattolica si propone anche di creare una «Rete di protezione sociale» per soccorrere le 600mila famiglie in condizioni disperate, nonchè gli immigrati. L’aggravarsi di questa recessione economica sta causando seri problemi al governo socialista guidato da Zapatero. Il premier spagnolo appare sempre più in difficoltà, come mette in luce l’ultimo sondaggio, diffuso ieri dal Centro di Ricerche Sociologiche. Il Partito Popolare risulta in vantaggio di quattro punti percentuali sui socialisti. Non solo. I tre quarti degli spagnoli hanno dichiarato di avere poca o nessuna fiducia nell’attuale premier mentre la quota dei fedelissimi si è ridotta al 26,3%. Anche dalla stampa sono piovute feroci critiche al leader, accusato di «confusione» e «mancanza di rigore politico» nell’affrontare la recessione. Sotto accusa, in particolare, l’ultimo dietrofront del governo sul ricalcolo delle pensioni, dopo la levata di scudi dei sindacati e dell'opposizione. Perfino il quotidiano progressista “El Pais” ha preso le distanze dal governo, accusato di trasmettere «insicurezza» ai cittadini. Insomma, a conti fatti si preannuncia un durissimo 2010 sia per il governo di Zapatero, sia per gli spagnoli. Spero non troppo per il mio amico DAVIDE. Auguri di cuore.

martedì 2 febbraio 2010

tragedie annunciate (e mai evitate)


La notizia sconvolgente del suicidio dell'operaio bergamasco (http://www.dirittiglobali.it/articolo.php?id_news=18449) mi ha fatto riflettere su quanto sia ineluttabile a volte, per quelle persone straziate dalla sensazione di impotenza dopo aver perso un posto di lavoro, decidere di farla finita piuttosto che continuare a sperare invano. Sergio non si è spento silenziosamente. Il suo è stato un grido acutissimo, in faccia a una violenza insopportabile: quella dell'essere privato dell'unica fonte di dignità e di sopravvivenza, il lavoro. Ora vi sarà chi, prima di consegnare all'oblìo questa tragedia, spiegherà che non si può mai sapere quali siano le ragioni reali di atti come questo e che è riduttivo attribuirne le cause alla perdita del posto. Chi disinvoltamente utilizza il proprio cervello in questo modo ha di solito le chiappe bene e non ha la più pallida idea di cosa significhi (materialmente e socialmente) essere privati dei mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia, con la tragica conseguenza di essere spogliati della propria identità, della speranza stessa in una via di uscita. La morte di Sergio ci parla lugubramente della sua solitudine disperata, del suo calvario che riflette una condizione collettiva condivisa in sorte da tante persone. E della sciagurata irresponsabilità con cui chi comanda continua a sottovalutare, a nascondere, la gravità della crisi, esimendosi da qualsiasi iniziativa di contrasto. Macabri episodi come questo bucano l'impersonale asetticità delle percentuali, delle statistiche con le quali si prova a dar conto di ciò che accade. E che raccontano che c'è un pezzo di società che va in rovina. A che punto siamo arrivati? Ci rendiamo conto delle abnormi proporzioni che questa crisi sta assumendo nel nostro Paese? Quella patetica coppia formata da Berlusconi & Tremonti ha qualcosa da dire in merito? Guardate che non c'è solo la disoccupazione conclamata. C'è anche (soprattutto) quella precaria non censita. Poi c'è quella mascherata dalla cassa integrazione, quella propedeutica della collocazione in mobilità e della non reintegrazione nel posto di lavoro. Poi c'è quella che non risulta perché, ufficialmente, chi lavora due giorni la settimana, o una settimana al mese, è conteggiato fra i lavoratori in attività, anche se fa la fame. Inoltre, dentro la crisi, anche le aziende che si ristrutturano mutano pelle: all'espulsione dei lavoratori con maggiore anzianità e mediamente più protetti subentra l'ingresso dei forzati della precarietà. Un esercito di lavoratori interinali, a progetto, somministrati, occasionali, privi di tutele e di diritti. In fondo alla catena c'è l'ultimo anello, quello del lavoro servile, schiavistico, appannaggio degli immigrati. Ecco, il gesto di estremo autolesionismo di Sergio dissolve l'effetto ipnotico di una rappresentazione mediatica della realtà che più fasulla non potrebbe essere e che dovrebbe invece sbatterci duramente in faccia una tragedia che forse qualcuno con le chiappe al caldo avrebbe potuto evitare.