la droga, un inganno senza fine
Ci sono volute le polemiche isteriche e a volte pretestuose, seguite all'outing del cantante Morgan, per riaccendere i riflettori su un tema mai abbastanza trattato a dovere e senza inutili ipocrisie, quello della droga. Il fatto, doloroso, è che non si parla mai con sufficiente responsabilità di questo scomodo e inquietante argomento. Anzi, non se ne parla più. Non si parla quasi mai del suo consumo sempre più smodato. Non se ne parla e basta, e se proprio siamo obbligati dal chiacchiericcio, lo facciamo quando qualcuno ci lascia le pelle, oppure quando un personaggio famoso (appunto il caso Morgan) o presunto tale, confessa di farne uso accampando i motivi più disparati, mentre si tratta unicamente di un consumo disperato che diventa disperante. Se ne parla per colpa di qualche vip, oppure per qualche sfigato che rimane a terra, esalando un rantolo che somiglia a un crack. Siamo bravissimi ad arrabbiarci, a scandalizzarci, quando a comportarsi così è un nostro cosiddetto eroe, ma sul problema vero dell’uso e dell'abuso, dell’accessibilità ad ogni angolo di strada, facciamo come gli struzzi, e affermiamo di non conoscerne il dramma, mentre tutti noi (adulti, genitori, educatori) potremmo scrivere un trattato sul pericolo che ne deriva e che affonda gli artigli sulla carne dei nostri figli. Drogarsi è reato, ma solo dentro una corresponsabilità collettiva. E per far comprendere che tutte le droghe fanno male, serve una comunicazione urgente e delicata, con l'inevitabile domanda: cosa dire in proposito a un giovane? Trattare la questione droga equivale a parlare di morte del cuore, della testa, della sparizione di ampie fette generazionali. È incredibile come all’abitudine del farsi, al consumo in grande quantità, dalla discoteca all’ufficio, dal fine settimana vissuto da leoni alla festa in casa, non ci mostriamo preoccupati, come se la paura fosse un misero espediente per rimuovere l’angoscia d’impotenza, attraverso la cultura d’evasione, che produce atteggiamenti nullificanti. Non è con la ricerca di parole che dovrebbero spaventare o col terrorismo dialettico che sarà possibile mettere mano all’inquietudine dei giovani, alla loro fragilità quotidiana. Occorrerebbe invece ridurre il rischio di incappare nelle morali d’accatto, che durano il tempo di una trasmissione, un incontro o una convention ben pagata. E' necessario allora dare di più e parlare di meno, fare di più per le comunità di recupero che operano sul campo da decenni con l'intento di combattere, resistere, consegnare strumenti di aiuto verso chi è imbavagliato dall’inganno di tutte le droghe. Forse è il caso di dare sembianza e storia alla morte, alle troppe morti che ci portiamo dentro, che abbiamo intorno. Forse occorre raccontare la storia personale, quella rapinata di ogni dignità a causa della roba, la storia personale di sconfitti sopravvissuti e miracolati dalle mani tese, spesso sconosciute, che ci sono venute incontro. Non è tempo di elargire ulteriori fragilità, ma di affermare che la droga non lenisce la depressione (come ha stupidamente affermato Morgan) ma rimane il maggiore distruttore di persone, di identità e che conduce dalla malattia al suicidio. E quando l’inganno è nudo, c’è la morte ad attendere al varco.
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