l'Antipatico

venerdì 25 gennaio 2008

lo sfogo di un magistrato deluso


Pubblichiamo senza alcun commento lo sfogo del magistrato Luigi De Magistris, dimessosi dall'Associazione Nazionale Magistrati dopo la decisione del CSM di trasferimento da Catanzaro e assegnazione ad altra funzione. Siamo in un regime di merda…:
All’Associazione Nazionale MagistratiROMA
Già da alcuni mesi avevo deciso – seppur con grande rammarico – di dimettermi dall’Associazione Nazionale Magistrati.
I successivi eventi che mi hanno riguardato, le priorità dettate dai tempi di un processo disciplinare tanto rapido quanto sommario, ingiusto ed iniquo, mi hanno imposto di soprassedere.
Adesso è il tempo che “tutti i nodi vengano al pettine”.
Vado via da un’associazione che non solo non è più in grado di rappresentare adeguatamente i magistrati che quotidianamente esercitano le funzioni, spesso in condizioni proibitive, ma sta – con le condotte ed i comportamenti di questi anni – portando, addirittura, all’affievolimento ed all’indebolimento di quei valori costituzionali che dovrebbero essere il punto di riferimento principale della sua azione.
L’A.N.M. – che storicamente aveva avuto il ruolo di contribuire a concretizzare i valori di indipendenza interna ed esterna della magistratura – negli ultimi anni, con prassi e condotte censurabili ormai sotto gli occhi di tutti, ha contribuito al consolidamento di una magistratura “normalizzata” non sapendo e non volendo “stare vicino” ai tanti colleghi (sicuramente i più “bisognosi”) che dovevano essere sostenuti nelle loro difficili azioni quotidiane spesso in contesti di forte isolamento; ha fatto proprie tendenze e pratiche di lottizzazione attraverso il sistema delle cosiddette correnti; ha contribuito – di fatto – a rendere sempre più arduo l’esercizio di una giurisdizione indipendente che abbia come principale baluardo il principio costituzionale che impone che tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge.
L’A.N.M. è divenuta, con il tempo, un luogo di esercizio del potere, con scambi di ruoli tra magistrati che oggi ricoprono incarichi associativi, domani siedono al C.S.M., dopodomani ai vertici del ministero e poi, magari, finito il “giro”, si trovano a ricoprire posti apicali ai vertici degli uffici giudiziari.
È uno spettacolo che per quanto mi riguarda è divenuto riprovevole.
Anche io, per un periodo, ho pensato, lottando non poco come tutti i miei colleghi sanno, di poter contribuire a cambiare, dall’interno, l’associazionismo giudiziario, ma non è possibile non essendoci più alcun margine.
Lascio, pertanto, l’A.N.M., donando il contributo ad associazioni che, nell’impegno quotidiano antimafia, cercano di garantire l’indipendenza concreta della magistratura molto meglio dell’associazionismo giudiziario.
Non vi è dubbio che anche il Consiglio Superiore della Magistratura, composto da membri laici, espressione dei partiti, e membri togati, espressione delle correnti, non può, quindi, non risentire dello stato attuale della politica e della magistratura associata.
I magistrati debbono avere nel cuore e nella mente e praticare nelle loro azioni i principi costituzionali ed essere soggetti solo alla legge.
So bene che all’interno di tutte le correnti dell’A.N.M. vi sono colleghi di prim’ordine, ma questo sistema di funzionamento dell’autogoverno della magistratura lo considero non più tollerabile.
Il C.S.M. deve essere il luogo in cui tutti i magistrati si sentano, effettivamente, garantiti e tutelati dalle costanti minacce alla loro indipendenza.
Non è possibile assistere ad indegne omissioni o interventi inaccettabili dell’A.N.M., come ad esempio negli ultimi mesi, su vicende gravissime che hanno coinvolto magistrati che, in prima linea, cercano di adempiere solo alle loro funzioni: da ultimo, quello che è accaduto ai colleghi di Santa Maria Capua Vetere.
Non parlo delle azioni ed omissioni riprovevoli – da parte anche di magistrati, non solo operanti in Calabria – sulla mia vicenda perché di quello ho riferito alla magistratura ordinaria competente e sono fiducioso che, prima o poi, tutto sarà più chiaro.
Certo, lo spettacolo che mi ha visto in questi giorni protagonista, in un processo disciplinare che mi ha lasciato senza parole, ha contribuito a radicare in me la convinzione che questo sistema ormai è divenuto inaccettabile per tutti quei magistrati che ancora sentono e amano profondamente questo mestiere e che siamo ormai al capolinea.
Io sono orgoglioso – sembrerà paradossale – che questo C.S.M. mi abbia inflitto la censura con trasferimento d’ufficio. Era proprio quello che mi aspettavo. Ed anche scritto, in tempi non sospetti.
Ho già detto, ad un mio amico antiquario, di farmi una bella cornice: dovrò mettere il dispositivo della sentenza dietro la scrivania del mio ufficio ed indicare a tutti quelli che me lo chiederanno le vere ragioni del mio trasferimento.
La mia condanna disciplinare è grave e infondata, nei confronti della stessa farò ricorso alle sezioni unite civili della Suprema Corte di Cassazione confidando in giudici sereni, onesti, imparziali, in poche parole giusti.
La condanna è, poi, talmente priva di fondamento, da ogni punto di vista, che la considero anche inaccettabile.
Mi viene inflitta la censura, devo lasciare Catanzaro ed abbandonare le funzioni di pubblico ministero in sostanza perché non ho informato i miei superiori in alcune circostanze e perché ho secretato un atto solo ed esclusivamente per salvaguardare le indagini ed evitare che vi fossero propalazioni esterne che danneggiassero le inchieste; senza, peraltro, tenere conto delle gravissime ragioni che hanno necessariamente ispirato alcune mie condotte.
Troppo zelo, troppi scrupoli, troppo amore per questo mestiere.
Del resto il procuratore generale che rappresentava l’accusa in giudizio, nel rimproverarmi, definendomi anche birichino, ha detto che concepisco le mie funzioni come una missione.
Ebbene, questa decisione, a mio umile avviso, contribuisce ad affievolire l’indipendenza della magistratura, conduce ad indebolire i valori ed i principi costituzionali, ci trascina verso una magistratura burocratizzata ed impaurita sotto il maglio e la clava del processo disciplinare.
Il rappresentante della Procura generale della Cassazione in udienza, il dr Vito D’Ambrosio, ex politico, il quale per circa dieci anni è stato anche presidente della Giunta della Regione Marche, ha sostenuto, durante il processo, sostanzialmente, che non rappresento, in modo adeguato, il modello di magistrato.
Ed invero, il modello di magistrato al quale mi sono ispirato è quello rappresentato da mio nonno magistrato (che ha subito anche due attentati durante l’espletamento delle funzioni), da mio padre (che ha condotto processi penali di estrema importanza in materia di terrorismo, criminalità organizzata e corruzione), dai miei magistrati affidatari durante il tirocinio, dai tanti colleghi bravi e onesti conosciuti in questi anni, da quello che ho potuto apprendere ed imparare, sulla mia pelle in contesti ambientali anche molto difficili, dall’esperienza professionale nell’esercizio di un mestiere al quale ho dedicato, praticamente, gran parte della mia vita.
Il mio modello è la Costituzione repubblicana, nata dalla resistenza.
Il modello “castale” e del magistrato “burocrate” non mi interessa e non mi apparterrà mai, nessuna “quarantena” in altri uffici, nessun “trattamento di recupero” nelle pur nobili funzioni giudicanti, potrà mutare i miei valori, né potrà far flettere, nemmeno di un centimetro, la mia schiena.
Sarò sempre lo stesso, forse, debbo a questo appunto ammetterlo, un magistrato che per il “sistema” è “deviato ed eversivo”.
Pertanto, questa sentenza è, per me, la conferma di quello che ho visto in questi anni ed un importante riscontro professionale alla bontà del mio lavoro.
Certo è una sentenza che nella sua profonda ingiustizia è anche intrinsecamente mortificante.
Imporre ad un pubblico ministero, che si sa che ha sempre professato e praticato l’amore immenso per quel mestiere, di non poterlo più fare – sol perché ha “osato”, in pratica, indagare un sistema devastante di corruzione e cercato di evitare che una “rete collusiva” ostacolasse il proprio lavoro e, quindi, condannandolo per avere, in definitiva, rispettato la legge – è un po’ come dire ad un chirurgo che non può più operare, ad un giornalista di inchiesta che deve occuparsi di fiere in campagna, ad un investigatore di polizia giudiziaria che deve pensare ai servizi amministrativi.
Farò di tutto, con passione ed entusiasmo intatti, nei prossimi mesi, per dimostrare quanto ingiusta e grave sia stata questa sentenza e che danno immane abbia prodotto per l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati, ed anche e soprattutto per la Calabria, una terra (che continuerò sempre ad amare comunque finisca questa “storia”) che aveva bisogno di ben altri “segnali” istituzionali.
Lavorerò ancor più alacremente nei prossimi mesi – prima del mio probabile allontanamento “coatto” dalla Calabria – presso la Procura della Repubblica di Catanzaro per condurre a termine le indagini più delicate pendenti.
Non mi sottrarrò ad eventuali dibattiti pubblici anche tra i lavoratori, tra gli operai, tra gli studenti, nei luoghi in cui vi è sofferenza di diritti, per contribuire – da cittadino e da magistrato, con la mia forza interiore – al consolidamento di una coscienza civile e per la realizzazione di un tessuto connettivo sinceramente democratico.
Il Paese deve, comunque, sapere che vi sono ancora magistrati che con onore e dignità offrono una garanzia per la tutela dei diritti di tutti (dei forti e dei deboli allo stesso modo) e che non si faranno né intimidire, né condizionare, da alcun tipo di potere, da nessuna casta, esercitando le funzioni con piena indipendenza ed autonomia, in una tensione ideale e morale costituzionalmente orientata, in ossequio, in primo luogo, all’art. 3 della Costituzione repubblicana.
La lotta per i diritti è dura e forse lo sarà sempre di più nei prossimi mesi: nelle istituzioni e nel Paese vi sono ancora, però, energie e valori, anche importanti.
Si deve costruire una rete di rapporti – fondata sui valori di libertà, uguaglianza e fratellanza – che impedisca all’Italia di crollare definitivamente proprio sul terreno fondamentale dei diritti e della giustizia.
È il momento che ognuno faccia qualcosa – in questa devastante deriva etica e pericoloso decadimento dei valori – divenendo protagonista per contribuire al bene della collettività e del prossimo, non lasciando l’Italia nelle mani di manigoldi, affaristi e faccendieri.
23 gennaio 2008
Luigi De Magistris

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