tempi duri per Obama
Oggi vogliamo uscire dai confini nazionali e gettare un'occhiata alla realtà americana del dopo Bush. Passata la legittima euforia per la brillante vittoria del primo presidente degli Stati Uniti con la pelle nera (e non "abbronzata"...), gli osservatori e gli analisti di tutto il mondo stanno alla finestra per vedere come si comporterà realmente Barack Obama sulla questione Iraq.
Adesso è ufficiale: più di 600.000 iracheni e 5.000 soldati alleati sono morti per sbaglio, per un deprecabile refuso nelle informazioni fornite al presidente George W. Bush dai servizi segreti Usa. Così almeno l'ha raccontata lo stesso Bush in un'intervista alla tv Abc. Ora il presidente uscente rimpiange quell'errore informativo (ma solo quello) e ammette che, quando fu eletto, era «impreparato a combattere una guerra». Un «errore» che ha disintegrato milioni di famiglie, ha spazzato via persino l'illusione dell'innocenza da milioni di infanzie: ma per Bush il vero rimpianto è che qualcuno ha fatto male i compiti a casa, forse era distratto. Così Bush si rifiuta di ammettere le due lezioni profonde che pure l'impero americano dovrebbe aver tratto dai suoi due mandati. La prima lezione è che nessun impero può reggersi solo sulla superiorità militare, per quanto schiacciante. Nei primi quattro anni di Bush invece, il ministro della difesa Donald Rumsfeld e il suo mentore, il vicepresidente Dick Cheney, credettero di poter imporre il proprio volere in Iraq e in Afghanistan con la pura forza militare, rifiutando di fare politica, anzi commettendo errori politici incredibili (come l'improvvido scioglimento dell'esercito iracheno che gettò sul lastrico un milione di famiglie). Nel secondo mandato, il nuovo ministro della difesa Robert Gates e il nuovo comandante in capo in Iraq David Petraeus hanno cominciato a fare politica, hanno comprato prima la neutralità e poi l'appoggio di un capotribù sunnita dopo l'altro. E la situazione è migliorata. La seconda lezione è che nessun impero, per quanto potente, può tutto. La lezione è che ogni impero, anche quello americano, ha i suoi limiti che deve accettare ed entro cui deve imparare a muoversi. Lo si vede dalle fallite «esportazioni di democrazia». Queste due lezioni sono il legato più importante per il nuovo presidente, Barack Obama, che giurerà tra 43 giorni e che la scorsa settimana ha annunciato la sua squadra di politica estera, la cui composizione era già stranota. Le parole di Obama e i nomi dei ministri mostrano che ha appreso appieno la prima lezione, sulla necessità del soft power, termine coniato dal politologo Joseph Nye, che designa la capacità di suscitare nell'altro il desiderio di ciò che si vuole che desideri, la facoltà d'indurlo ad accettare norme e istituzioni che producono il comportamento desiderato: «Il soft power si fonda sulla seduzione esercitata dalle idee o sulla tendenza a fissare l'ordine del giorno in modo che rispecchi le preferenze altrui». Non che Obama si precluda l'opzione dell'hard power: non per nulla il suo consigliere per la sicurezza nazionale (posto che fu di Henry Kissinger e, di recente, di Condoleeza Rice), il generale James Jones, è un ex comandante in capo della Nato e per di più ex comandante dei marines. Ma tutti i membri della nuova amministrazione, da Hillary Clinton a Gates a Jones, sono convinti fautori dell'uso del soft power, e della diplomazia come indispensabile complemento (e a volte inevitabile sostituto) dell'azione militare. Nelle sue conferenze, Gates cita sempre la statistica secondo cui ci sono più suonatori nelle bande militari statunitensi di quanto personale civile in missione all'estero ci sia nel Dipartimento di Stato (il ministero degli Esteri di Washington). Perciò l'ascesa di Barack Obama e della sua squadra segna la fine dell'unilateralismo e il seppellimento della «dottrina Bush» (della guerra preventiva). Si badi, il multilateralismo non sgorga da disinteressata generosità: in questa stagione di vacche magre, un approccio multilateralista ha il vantaggio di coinvolgere altre potenze nei costi umani e nelle spese finanziarie delle decisioni comuni. Meno sicuro è invece che Obama abbia compreso appieno la seconda lezione sui limiti dell'impero. Anzi le personalità stesse dei ministri che ha scelto ci fanno sospettare che la prima lezione sia strumentalizzata per negare la seconda e per seguire l'obiettivo di una restaurazione dell'impero uscito indebolito dalla disastrosa gestione Bush. Con queste nomine Barack Obama si pone cioè nella linea della più classica tradizione del Council on Foreign Relations, la fucina che ha sfornato il nerbo della diplomazia statunitense, portabandiera del realismo politico. Da questo punto di vista il «cambiamento» di Obama sembra consistere più che altro in un ritorno all'ortodossia pragmatica precedente, dopo gli anni dell'ideologismo neoconservatore. Ma il vero test per Obama, un test su cui queste nomine ci dicono ancora poco, sarà un altro, e ben più critico, da un punto di dottrina politica: le sue azioni e le sue iniziative dovranno farci capire se la sua politica esterà si muoverà ancora nell'ambito concettuale della «guerra al terrore», o se invece avrà il coraggio di abbandonare quest'idea bizzarra, strumentale e perniciosa che tante vite ha già inutilmente mietuto. Staremo a vedere.
Adesso è ufficiale: più di 600.000 iracheni e 5.000 soldati alleati sono morti per sbaglio, per un deprecabile refuso nelle informazioni fornite al presidente George W. Bush dai servizi segreti Usa. Così almeno l'ha raccontata lo stesso Bush in un'intervista alla tv Abc. Ora il presidente uscente rimpiange quell'errore informativo (ma solo quello) e ammette che, quando fu eletto, era «impreparato a combattere una guerra». Un «errore» che ha disintegrato milioni di famiglie, ha spazzato via persino l'illusione dell'innocenza da milioni di infanzie: ma per Bush il vero rimpianto è che qualcuno ha fatto male i compiti a casa, forse era distratto. Così Bush si rifiuta di ammettere le due lezioni profonde che pure l'impero americano dovrebbe aver tratto dai suoi due mandati. La prima lezione è che nessun impero può reggersi solo sulla superiorità militare, per quanto schiacciante. Nei primi quattro anni di Bush invece, il ministro della difesa Donald Rumsfeld e il suo mentore, il vicepresidente Dick Cheney, credettero di poter imporre il proprio volere in Iraq e in Afghanistan con la pura forza militare, rifiutando di fare politica, anzi commettendo errori politici incredibili (come l'improvvido scioglimento dell'esercito iracheno che gettò sul lastrico un milione di famiglie). Nel secondo mandato, il nuovo ministro della difesa Robert Gates e il nuovo comandante in capo in Iraq David Petraeus hanno cominciato a fare politica, hanno comprato prima la neutralità e poi l'appoggio di un capotribù sunnita dopo l'altro. E la situazione è migliorata. La seconda lezione è che nessun impero, per quanto potente, può tutto. La lezione è che ogni impero, anche quello americano, ha i suoi limiti che deve accettare ed entro cui deve imparare a muoversi. Lo si vede dalle fallite «esportazioni di democrazia». Queste due lezioni sono il legato più importante per il nuovo presidente, Barack Obama, che giurerà tra 43 giorni e che la scorsa settimana ha annunciato la sua squadra di politica estera, la cui composizione era già stranota. Le parole di Obama e i nomi dei ministri mostrano che ha appreso appieno la prima lezione, sulla necessità del soft power, termine coniato dal politologo Joseph Nye, che designa la capacità di suscitare nell'altro il desiderio di ciò che si vuole che desideri, la facoltà d'indurlo ad accettare norme e istituzioni che producono il comportamento desiderato: «Il soft power si fonda sulla seduzione esercitata dalle idee o sulla tendenza a fissare l'ordine del giorno in modo che rispecchi le preferenze altrui». Non che Obama si precluda l'opzione dell'hard power: non per nulla il suo consigliere per la sicurezza nazionale (posto che fu di Henry Kissinger e, di recente, di Condoleeza Rice), il generale James Jones, è un ex comandante in capo della Nato e per di più ex comandante dei marines. Ma tutti i membri della nuova amministrazione, da Hillary Clinton a Gates a Jones, sono convinti fautori dell'uso del soft power, e della diplomazia come indispensabile complemento (e a volte inevitabile sostituto) dell'azione militare. Nelle sue conferenze, Gates cita sempre la statistica secondo cui ci sono più suonatori nelle bande militari statunitensi di quanto personale civile in missione all'estero ci sia nel Dipartimento di Stato (il ministero degli Esteri di Washington). Perciò l'ascesa di Barack Obama e della sua squadra segna la fine dell'unilateralismo e il seppellimento della «dottrina Bush» (della guerra preventiva). Si badi, il multilateralismo non sgorga da disinteressata generosità: in questa stagione di vacche magre, un approccio multilateralista ha il vantaggio di coinvolgere altre potenze nei costi umani e nelle spese finanziarie delle decisioni comuni. Meno sicuro è invece che Obama abbia compreso appieno la seconda lezione sui limiti dell'impero. Anzi le personalità stesse dei ministri che ha scelto ci fanno sospettare che la prima lezione sia strumentalizzata per negare la seconda e per seguire l'obiettivo di una restaurazione dell'impero uscito indebolito dalla disastrosa gestione Bush. Con queste nomine Barack Obama si pone cioè nella linea della più classica tradizione del Council on Foreign Relations, la fucina che ha sfornato il nerbo della diplomazia statunitense, portabandiera del realismo politico. Da questo punto di vista il «cambiamento» di Obama sembra consistere più che altro in un ritorno all'ortodossia pragmatica precedente, dopo gli anni dell'ideologismo neoconservatore. Ma il vero test per Obama, un test su cui queste nomine ci dicono ancora poco, sarà un altro, e ben più critico, da un punto di dottrina politica: le sue azioni e le sue iniziative dovranno farci capire se la sua politica esterà si muoverà ancora nell'ambito concettuale della «guerra al terrore», o se invece avrà il coraggio di abbandonare quest'idea bizzarra, strumentale e perniciosa che tante vite ha già inutilmente mietuto. Staremo a vedere.
2 Commenti:
Ottima lettura della questione (continuo a chiedermi che razza di lavoro fai o quali interessi coltivi, perchè fare un Post così è farlo con la P maiuscola ed è anche di più che scrivere un articolo, mi dovrai illuminare ;-) )
L'elezione di Obama mi ha lasciato piuttosto freddina, diciamo che non credo mai o almeno non credo più alle favole con fate e maghetti... in tanti mi hanno dato dell'antiamericana a priori, cosa che è anche reale, ma il mio non è solo uno slogan vuoto, l'idea che mi sono fatta della politica americana e dei suoi esponenti, va a pari passo con quello che è la storia americana e la mentalità di oggi e di tutti i tempi, di questo paese.
Il termine giusto è stare a vedere.... ma quanto costerà questo in termini globali? Ossia stare a vedere comporta esserne fuori ed invece non lo siamo affatto, quello che Obama farà avrà una notevole ripercussione negli altri paesi e questa ripercussione non è detto che non sia positiva per l'America e che lo sia invece molto meno per gli altri, a meno che non si creda che l'America esporti davvero la sua democrazia.
Il tuo Post mi fa riflettere e molto, devo metabolizzarlo ancora...
Ciao Ross
Di rossaura, Alle 08 dicembre, 2008 12:40
Continuo a rimanere orgogliosamente colpito dalle tue attestazioni di gradimento e di simpatica ammirazione per quello che scrivo. Sono felice, anzi di più, che un mio semplice post (addirittura con la P maiuscola come dici tu) possa indurti alla riflessione e alla metabolizzazione di idee e considerazioni di politica internazionale. Ripeto, non sono un giornalista, non sono un investigatore (come già precedentemente evidenziato). Sono soltanto un uomo di mezz'età curioso come una scimmia, attento e vigile a ciò che accade in Italia e nel mondo, con la recondita speranza di poter vivere (il tempo che mi rimane, perlomeno) in un Paese migliore, più giusto e con una classe politica seria, onesta, efficiente, specchio fedele dei cittadini che rappresenta. Sarà una pura utopia, ma spero che un giorno tutto questo si avveri. Un forte abbraccio, cara ROSS.
Di nomadus, Alle 08 dicembre, 2008 14:57
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