l'Antipatico

giovedì 14 febbraio 2008

Vincenzo Cerami tra politica e cultura




Oggi abbiamo deciso di riproporre, alla vostra attenzione di attenti e intelligenti lettori di questo blog, un bell'articolo scritto da Vincenzo Cerami, noto scrittore e sceneggiatore, e pubblicato ieri dal quotidiano l'Unità. Partendo dal Partito Democratico, Cerami fa una limpida e coerente analisi della cultura e della politica e della loro intersecazione, sociale e ideale.

Se la politica non ha cultura
Vincenzo Cerami
Il Partito Democratico si pone in modo complesso e problematico di fronte alla politica della cultura. Non la chiude nell’ambito meramente ministeriale e istituzionale. Oltre a voler occuparsi con sollecitudine del buon funzionamento del teatro, del cinema, della musica, dei beni culturali, ecc., in accordo con coloro che vi lavorano con passione e sacrificio, guarderà a tutto ciò che cambia nel nostro modo di essere e di vivere. Un partito, per dare senso alla politica, non può esimersi da una costante analisi della realtà, a tutti i livelli.Partiamo dal principio che la maggior parte delle leggi promulgate dal Parlamento hanno una ricaduta culturale nelle nostre case e dentro di noi. La più semplice definizione di cultura è la seguente: «Il patrimonio delle conoscenze, dei comportamenti, dei gusti e dei bisogni spirituali di una comunità».La politica ha sempre mostrato un certo disinteresse per le mutazioni culturali: troppe varianti sfuggono alla sua attenzione e ai suoi obiettivi, che sono sempre immediati, schiacciati sul presente, quindi un po’ orbi. Per esempio non è stata minimamente in grado di prevedere ciò che oggi è davanti agli occhi di tutti e che Pasolini, ai suoi tempi, aveva chiamato «rivoluzione antropologica» (oggi «globalizzazione»). Un poeta e non un politico (o uno storico) ha fatto la cronaca quotidiana dei cambiamenti culturali del nostro paese, dal fascismo alla metà degli anni Settanta. La vera storia d’Italia è quella che racconta la vita che scorre, più del succedersi degli avvenimenti. La politica è figlia e non generatrice della cultura. I politici, nel dopoguerra, hanno giustamente contribuito alla diffusione del benessere, però non si sono interessati delle conflittualità culturali che sarebbero fatalmente seguite, sia buone che cattive. L’euforia della società cosiddetta dei consumi, ha nascosto a tutti lo sconvolgimento che stava provocando. Qualcuno dice che ha trasformato il popolo italiano in gente, i cittadini in consumatori e, più tardi, i consumatori in telespettatori. Il mercato, semplicemente facendo il suo dovere, ha travolto la politica decentrandola dal suo ruolo sociale, allontanandola pian piano dai veri “bisogni spirituali di una società”, cioè dalla cultura, e facendola ripiegare in se stessa.Oggi assistiamo a una sorta di reificazione della cultura: acquistando un oggetto di consumo facciamo nostro anche il vasto corredo mitologico che lo anima, e ci comportiamo in conformità. Un ragazzino che si fa acquistare dai genitori un paio di scarpe di una marca precisa, fa una scelta culturale: quel prodotto suggerisce un comportamento, un ambiente, un modo di essere al mondo. Il ragazzino che indosserà quelle scarpe frequenterà certi locali e non altri, apprezzerà una precisa musica, sceglierà solo un certo tipo di amici, ecc. Tutto questo con estrema naturalezza, nell’illusione di agire spontaneamente. Per certi aspetti si potrebbe dire che il mercato, specie quando non sa intercettare la reale domanda dei consumatori, si preoccupa di crearla, di generare bisogni.A questo punto ci troviamo ancora di fronte all’annosa questione della libertà in democrazia, come al tempo di Marcuse e Adorno, preoccupati per l’invasione dei mass media. Ci chiediamo: è libero l’individuo che ha separato il gesto dalla volontà, che agisce sotto il condizionamento di una mitologia che lo vuole vittima di un bisogno coatto?Non si tratta certamente di attribuire al mercato responsabilità dirette del fenomeno, ma tra i compiti fondamentali della politica c’è la difesa di ogni genere di libertà, compresa quella esistenziale. Chi non ricorda Giovanni Paolo II che punta il dito contro la politica incapace di creare contrappesi all’anarchico agire del mercato?Come si vede, è definitivamente chiusa la stagione che vedeva nella cultura una sovrastruttura sociale. La cultura oggi è strutturale, determinante per la crescita civile di una comunità, dove i suoi membri agiscono nella consapevolezza e pienezza del loro fare. Non esiste società più conformista di quella massificata, e la scuola, tempio della cultura, e la famiglia non devono insegnare ai ragazzi a essere tutti uguali, ammaliati dal canto delle sirene. Al contrario hanno il dovere di renderli tutti diversi, unici, irripetibili, ognuno con la propria personalità e la propria testa. Solo così, acuendo il senso critico dei cittadini, si può difendere la libertà sostanziale, distinguendola da quella apparente. Occuparsi della cultura vuol dire occuparsi della libertà.

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