l'Antipatico

giovedì 19 marzo 2009

7 anni dopo qualcosa è cambiato?


Si sa che le commemorazioni, soprattutto se di eventi tragici, sono la migliore occasione per dare libero sfogo alle più sopraffini arti retoriche. Ma la retorica spesso altro non è se non l'intelligenza applicata al nulla. L’anniversario dell’omicidio di Marco Biagi (http://www.repubblica.it/online/politica/marcobiagi/marcobiagi/marcobiagi.html) che cade oggi, merita però il tentativo di sviluppare una riflessione sulle profonde conseguenze di quella pagina tragica della storia italiana. A mio modesto avviso, il problema non è stato tanto riproporre la questione delle responsabilità morali e politiche di un omicidio. Non è stato tanto verificare in che misura il tetro clima ideologico intorno al progetto di riforma del mercato del lavoro curato da Biagi, creato scientemente da alcune forze politiche, abbia determinato o favorito o addirittura indotto quel gesto terroristico. Incidentalmente non si può dimenticare come (secondo un classico schema dei totalitarismi di ogni tempo e di ogni latitudine) una certa cultura fondamentalista abbia operato in questi sette anni una scientifica opera di rimozione della memoria. Per allontanare da sé il sospetto di responsabilità oggettive, di collateralismi con la nuova ondata del terrorismo rosso che prende di mira inermi giuslavoristi, una parte della sinistra ha cercato di rompere il legame indissolubile tra Marco Biagi (del quale si piange la morte) ed i temi e le proposte dello stesso Biagi (che quella morte ha determinato). Fino al tentativo, consumatosi nella scorsa legislatura, di offendere la memoria del professore bolognese, rifiutandosi di appellare come "legge Biagi" la famigerata legge n. 30. Ed in effetti è vero che la legge n. 30 non rispecchia fino in fondo le idee di Marco Biagi. Ma solo nel senso che la legge era assai timida e parziale mentre le sue idee erano molto più innovative (e riguardavano la riforma dell’articolo 18, la riforma degli ammortizzatori sociali, la riforma del modello di contrattazione).
La cosa che più preoccupa è invece quella sorta di interdizione linguistica che ha colpito, a destra come a sinistra passando per il centro, il tema del mercato del lavoro e della sua riforma. Oramai la regola per cui "chi tocca l’articolo 18 muore" (e non solo metaforicamente) sembra essersi impadronita della coscienza dell’intera classe politica, anche dei suoi uomini migliori. Nei giorni scorsi è capitato così di leggere frasi come quella del ministro Brunetta secondo il quale "il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo". (Corriere della Sera del 9 marzo 2009). Del resto circa un anno fa capitava di leggere il sempre brillante ministro Tremonti, secondo il quale "è migliore la libertà di assumere rispetto alla libertà di licenziare. Non credo che l’eliminazione dell’articolo 18, una norma largamente sopravvalutata, sia una priorità. Del resto la struttura sociale europea non è preparata ad una forsennata mobilità".
Che i nostri governanti esercitino una certa prudenza su temi scottanti e che suscitano inevitabilmente aspri conflitti sociali e politici è comprensibile ed in una certa misura anche apprezzabile (perché consente di evitare velleitarie fughe in avanti). Occorre però non oltrepassare il limite del ridicolo. Il nostro mercato del lavoro è notoriamente uno dei più arretrati fra i paesi industrializzati ed una delle principali cause della scarsa competitività del Paese (che cresce in media la metà di quanto crescono gli altri paesi europei). Il processo di riforma faticosamente avviato nelle scorse legislature è ancora largamente incompiuto. E tale incompiutezza è uno dei principali fattori della situazione del carattere fortemente frammentato del nostro mercato del lavoro, causa di gravi fenomeni di precarietà lavorativa, diseguaglianza sociale, inefficienza economica. E questi limiti diventano sempre più insostenibili in una fase di crisi economica. Se in una fase espansiva anche un mercato inefficiente può più o meno funzionare (perché la domanda di lavoro è sostenuta e quindi le concrete condizioni nelle quali avviene lo scambio di mercato sono abbastanza buone), la situazione precipita quando la domanda di lavoro cala. In questa situazione tutto il carico dei problemi è sulle spalle dei non garantiti, degli outsider, mentre gli insider vedono scorrere la crisi come in un film. E’ lapalissiano che la libertà di assumere è meglio della liberà di licenziare! Peccato che (come comprende anche uno studente di economia del primo anno) limiti e divieti alla seconda incidano pesantemente sull’inclinazione all’esercizio della prima. E ciò soprattutto in fase economica recessiva.
Certo dal punto di vista della comunicazione politica non è facile rilanciare il tema dell’articolo 18 in una fase di crisi economica, nella quale si agita lo spettro di licenziamenti di massa. Una fase buia nella quale tutte le pecore (precari e lavoratori a tempo indeterminato, dipendenti pubblici e privati, dipendenti delle piccole e delle grandi imprese) diventano grigie. Ma come ammoniva Marco Biagi "avvicinare la situazione dei 'vendederos de estrada' messicani ai lavoratori super protetti dell'articolo 18 è davvero un insulto ai primi e una presa in giro per i secondi. L'articolo 18 sarebbe la diga che bisogna difendere a tutti i costi: peccato che quella diga impedisca a tanti soggetti di entrare nel mercato del lavoro".
A 7 anni di distanza da quelle parole, forse, un consiglio potrei rivolgerlo (molto sommessamente) ai nostri governanti: anziché lanciarsi in spericolate elaborazioni teoriche, che cercano di dimostrare l’indimostrabile, si limitino a tacere! Lascino l’onere (ed il rischio) di occuparsi di riforma del mercato del lavoro a chi ne capisce di più e rischia di meno. Ed esempi non ne mancano, né a destra (Giuliano Cazzola) né a sinistra (Piero Ichino, mirabile il suo intervento a commemorazione di Marco Biagi nella seduta odierna del Senato)! Ma come sempre, suppongo, questo consiglio rimarrà inascoltato...

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