l'Antipatico

lunedì 21 aprile 2008

che bella accoppiata!


Era da un pò che non lo vedevamo in giro o sulle prime pagine dei giornali. Forse era dai tempi del famoso "patto della crostata" siglato a casa sua alla presenza di Massimo D'Alema. Fatto sta che il liftato (come si dice: chi va con lo zoppo...) ed ineffabile Gianni Letta, plenipotenziario berlusconiano, ex direttore de IL TEMPO di Roma, zio dell'Enrico Letta ex ministro ulivista, ha deciso di uscire nuovamente allo scoperto, una settimana dopo il trionfo elettorale del suo mentore e padrone. E lo ha fatto dove? Ma naturalmente su il Giornale di famiglia, ospitato e riverito come si fa con i pezzi da novanta, in occasione (promozionale) dell'uscita di un suo libro. E noi ve lo facciamo digerire attraverso questo post. Leggete, gente, leggete.
Parla solo quando ha qualcosa da dire. Spiega, non urla. Espone, non impone. Sfila nel silenzio indaffarato della politica del fare e del non apparire. Ora Gianni Letta si confessa. L’uomo che da vent’anni accompagna Silvio Berlusconi da Fininvest agli incarichi istituzionali, traccia un ritratto del Cavaliere in un capitolo di Chi è Stato? Gli uomini che fanno funzionare l’Italia, di Luigi Tivelli, Rubbettino 2007. Nel brano «Un campanello d’allarme per la classe politica, le classi dirigenti e il Paese» Letta racconta il suo rapporto con il leader del Pdl e ne spiega la fenomenologia. Alternando la voce del collega, dell’amico, di colui che lo conosce meglio.
E fu così che mi ritrovai con lui a Palazzo Chigi dove, grazie a lui e con lui, ho vissuto un’esperienza straordinaria e meravigliosa.
Ho lavorato bene con lui, con grande impegno e con piena soddisfazione. E non solo io, per la verità. Perché non ho mai incontrato nessuno che sappia motivare i suoi uomini come lo sa fare Berlusconi e che li sappia far sentire squadra. Lui con loro, lui in mezzo a loro, lui a rimboccarsi le maniche con noi, lui a far notte con noi. Più di una volta qualcuno, per attaccarlo, lo ha accostato con ironia e sarcasmo a Napoleone. Ma, certo, pochi come lui hanno saputo applicare così bene e vivere in prima persona alcuni di quei princìpi che hanno fatto grande il Generale. «La natura ha creato tutti gli uomini uguali. È stata sempre mia abitudine - diceva Napoleone - mescolarmi ai soldati, alle persone del popolo, parlare con loro, ascoltare le loro piccole storie e discorrere amabilmente con loro. Penso che questo mi sia stato di grandissimo aiuto». E ancora: «I piani di una campagna si possono modificare all’infinito sulla base delle circostanze, del genio del Generale, del carattere delle truppe e delle caratteristiche del Paese». Condivisione e flessibilità: lo diceva Napoleone e lo ripete Berlusconi che ha fatto suoi, nell’impresa e nella politica, i princìpi vincenti di Napoleone. Quei princìpi che uno studioso americano, Jerry Manas, esperto internazionale di gestione di impresa, così ha riassunto in un bel libro uscito da poco nell’edizione italiana;
esattezza: consapevolezza, ricerca e pianificazione continua; rapidità: ridurre le resistenze, aumentare l’urgenza e mantenere la focalizzazione; flessibilità: costruire team che siano adattabili, autonomi e unificati; semplicità: obiettivi, messaggi e processi chiari e semplici; carattere: integrità, calma e senso di responsabilità; forza morale: impartire ordini, fornire uno scopo, attribuire un riconoscimento e dei premi.
Ho ricordato prima le caratteristiche degli uomini che, dopo mio padre, più hanno influito sulla mia vita orientando la mia formazione e soprattutto il mio modo di lavorare. Penso che Berlusconi riassuma tutte quelle qualità in una sintesi felice e fortunata che può giustificare quell’aggettivo - unico - che non a caso ho adoperato all’inizio di questa conversazione. Silvio Berlusconi ha una marcia in più, anzi due: la capacità di visione e quella di «pensare in grande». Un intuito prodigioso che lo porta naturalmente a capire ciò che agli altri non è chiaro o non è ancora decifrabile. Vede prima e più lontano degli altri. «Sono una strega» dice spesso scherzando, per definire questa sua sensibilità quasi magica di prevedere il futuro.
Due doti rarissime, che difficilmente convivono. La prima non è, per lui, soltanto intuito o immaginazione, e neppure la semplice attitudine a concepire ed elaborare grandi progetti, ma anche la capacità di adattarli alle condizioni del mercato o della situazione. E con la capacità di vedere prima degli altri e più lontano degli altri, quella di indicare o di «inventare» soluzioni nuove, coniugando mirabilmente fantasia e intelligenza, talento e abilità, impegno e forza, convinzione e senso dell’organizzazione. Quante volte ci ha lasciati stupiti e increduli di fronte alla enunciazione di un nuovo piano o dell’ennesimo progetto, che molti di noi credevano o temevano fossero solo creazioni fantastiche, tanto ci apparivano ardite e impossibili? E quante volte ci siamo dovuti ricredere di fronte alla concretezza, alla realtà di quel piano o di quel progetto pienamente realizzato e diventato, contro e a dispetto delle nostre previsioni, cosa concreta e tangibile? Sempre ha centrato il suo obiettivo, arrivando laddove aveva dichiarato di voler arrivare. E poi la disposizione, la vocazione direi, a «pensare in grande». Un’attitudine che gli è congeniale e che lo accompagna da sempre, sin dagli anni delle prime esperienze imprenditoriali e che tutti hanno potuto conoscere negli anni della sua avventura politica. Ma era ancora lontana e imprevedibile la sua «discesa in campo», quando nel 1990, il giorno di S. Ambrogio a Milano, presentò una nuova, elegante edizione dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Era il primo volume di una serie raffinata e colta curata dalla Silvio Berlusconi Editore, la sua prima casa editrice, e dedicata ai grandi pensatori, quelli che più sentiva vicini e che forse più hanno influenzato la sua formazione e il suo spirito audace.
E ad Erasmo dedicò una prefazione personale che racchiude la sua «filosofia» e il suo modo di affrontare le battaglie del lavoro e della vita. Una prefazione illuminante che può aiutare gli altri a capire chi veramente sia Silvio Berlusconi. Racconta nella prefazione che a fargli conoscere l’Elogio della follia fu, ai tempi dell’Università, un amico molto caro. «Avevamo avuto una discussione piuttosto accesa, in cui a più riprese mi ero sentito dare del visionario, non ricordo più per quale motivo. L’indomani mi vidi recapitare una copia del capolavoro di Erasmo in un’edizione Einaudi con una singolare dedica: “Vedrai che ti ci ritrovi”». Ma che cosa lo aveva colpito di quel libro al di là dello stile scintillante? «Ad affascinarmi dell’opera di Erasmo - scrive Berlusconi nella prefazione - fu in particolare la tesi centrale della follia come forza vitale creatrice: l’innovatore è tanto più originale quanto più la sua ispirazione scaturisce dalle profondità dell’irrazionale.
L’intuizione rivoluzionaria viene sempre percepita al suo manifestarsi come priva di buon senso, addirittura assurda. È solo in un secondo tempo che si afferma, viene riconosciuta, poi accettata, e talvolta persino propugnata da chi prima l’avversava. La vera genuina saggezza - conclude - sta quindi non in un atteggiamento razionale, necessariamente conforme alle premesse e perciò sterile, ma nella lungimirante, visionaria “pazzia”». E aggiunge: «Tutti noi abbiamo certo riscontrato più volte la profonda verità di questa tesi. E nella mia vita di imprenditore sono stati proprio i progetti a cui più istintivamente mi sono appassionato contro l’opinione di tanti, anche amici cari, i progetti per i quali ho voluto dar retta al cuore più che alla fredda ragione, quelli che hanno poi avuto i maggiori e più decisivi successi».
Letto così, si può capire Silvio Berlusconi, il suo modo di «pensare in grande» e la forza straordinaria della sua capacità di realizzazione. Un uomo del fare, come ama spesso definirsi con civetteria tipicamente lombarda, ma che trae ispirazione e vigore da una innata energia vitale che è quella che gli ha dato quel carisma che tutti gli riconoscono, quell’autorità e quel prestigio che anche gli avversari gli invidiano. Anche in politica, anche a Palazzo Chigi, ha portato questa sua natura e se c’è un solo rammarico in lui, è proprio quello di non aver potuto realizzare tutto quello che aveva in mente. Di cose il suo Governo ne ha fatte tante. Furono trentasette le riforme di cui va giustamente orgoglioso e non si contano le decisioni e i provvedimenti adottati in cinque anni di Governo, l’unico Governo di legislatura della storia repubblicana. Ma certo gli equilibri della coalizione, le differenti visioni dei partiti di maggioranza, la continua mediazione tra posizioni e interessi diversi, il peso degli affari correnti, le resistenze della Pubblica Amministrazione, hanno spesso frenato la sua voglia di fare non consentendogli di realizzare appieno quel cambiamento dell’Italia che era nelle intenzioni e nei programmi e che aveva promesso agli elettori. Un lavoro lasciato a metà. Per ora...». Fin qui il lunghissimo e viscerale elogio di Letta a Berlusconi. Se non fossimo più che convinti del machismo berlusconiano e del suo pallino fisso per le donne, avremmo alquanto dubitato delle finalità recondite della sviolinata di Letta...

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]



<< Home page