l'Antipatico

mercoledì 30 giugno 2010

la morte in camice bianco


Forse la notizia non meritava il massimo della visibilità sui giornali italiani, in un periodo afoso tutto dedicato al pallone dei Mondiali in Sudafrica e con l'attenzione distratta un giorno dalla riduzione di pena di una condanna di un senatore mafioso e un giorno dalla tragica scomparsa di un ex gieffino che si era fatto voler bene a differenza di tanti altri. Ma la morte in corsia di qualche giorno fa (http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=108349&sez=NAPOLI) mi ha fatto tragicamente e profondamente riflettere, decidendo alla fine di dedicare questo mio post numero 500 ad una tragica e assurda morte. Assurda soprattutto quando sopraggiunge a causa del superlavoro. E se poi succede tra le corsie di un ospedale, dove la malasanità riesce sempre a trovare ricovero (e la vittima non è tra i pazienti ma tra i camici bianchi), ecco venir meno tutti i parametri ordinari, sempre pronti e allineati per replicare, ogni volta che occorre, il clichè di una città fatta a suo modo, e che proprio non vuol saperne di stare alle regole. Neppure a quelle che si è cucita addosso da sola, e che la rendono pressocché unica, con la sua storia e le sue piccole e grandi vicende cosparse sempre di punti esclamativi. A suo modo, neppure il professore Filippo Minieri, chirurgo vascolare di 60 anni, ha voluto saperne di stare alle regole. È morto fulminato da un infarto sul proprio luogo di lavoro, al Cardarelli, l’ospedale più grande di tutto il Mezzogiorno, e proprio per questo inevitabile bacino di accoglienza dei ritardi e delle inadempienze di una sanità che, particolarmente in Campania, è vicina al tracollo.
Il professor Minieri è rimasto per undici ore di fila al lavoro. Un chirurgo non può certo badare all’orologio, ma neppure è immune dai limiti dello stress e della fatica che, infatti, gli sono stati fatali. A suo modo (se visto da un particolare punto di osservazione) anche questo sacrificio può essere catalogato tra i casi di malasanità. L’organizzazione del lavoro è parte integrante del buon funzionamento di ogni nosocomio. Ma nel tragico caso di Minieri, qualcosa evidentemente non ha funzionato. L’Ordine dei Medici, protestando per i turni di lavoro, definiti massacranti, ha parlato di morte bianca. Posta semplicemente così, la vicenda servirebbe solo ad alimentare il fuoco delle polemiche sulla disastrata sanità del Mezzogiorno e della Campania in particolare. Ma a mio modo di vedere il sacrificio del professor Minieri significa invece qualcosa in più e impone di puntare lo sguardo al di là dell’efficienza delle strutture, obiettivo, tuttavia, da perseguire senza soste e tentennamenti. Il chirurgo napoletano non è incappato nella morsa della disorganizzazione, che pure gli si è stretta intorno: con qualche accortezza poteva forse evitarla, o tenersene al riparo. È stata però di altro tipo la morsa dalla quale non ha potuto (e forse voluto) sottrarsi: quella di un altruismo e di una generosità che, nella professione medica, valgono ancora più degli utensili del mestiere. Il bisturi incide nella carne. Un medico che si dà senza risparmio ai suoi pazienti è il samaritano che continua a passare ancora oggi accanto a ogni sofferenza.
Sarà difficile che un piano sanitario possa contemplare, tra i legittimi vincoli sindacali, anche situazioni estreme come quelle del professor Minieri, morto di superlavoro al Cardarelli nell’affanno di concitate rincorse tra sala operatoria, reparto e ambulatori. Qui si è di fronte a una vicenda tanto tragica quanto emblematica, nel senso delle sfide che pone e dei luoghi comuni che ribalta, pur nella patria delle contraddizioni che resta Napoli. Dove è possibile morire di superlavoro. Ma in realtà la diagnosi è da correggere: il referto parla di forti sintomi di generosità e di dedizione. A Napoli non è merce in via d’estinzione. Ed è anzi sparsa sul territorio senza forme di particolare distinzione. Anche una morte in ospedale, in una città così, può dar luogo a un’impensata variazione sul tema: si resta in bilico sulla malasanità, ma da un orizzonte pur confuso spunta tutt’altro. Un chirurgo che tocca il cuore. E senza mettere mano al bisturi.

mercoledì 16 giugno 2010

l'iniquità di una legge scellerata


Più passano i giorni e più ci si rende conto, leggendo gli stralci di intercettazioni e faldoni d'inchiesta sulla famosa cricca che ha cannibalizzato il cuore economico dell'Italia post terremoto, che la legge bavaglio voluta dal piduista presidente del Consiglio italiano è una chiara dimostrazione della scelleratezza e della iniquità determinate dalla volontà criminale di chi non vuole far sapere al Paese come e quando metterlo nel didietro agli italiani. Per ben due volte, nel giro di meno di sei mesi, Berlusconi ha voluto fare un bel regalo ai suoi amici più o meno in odore di mafia e comunque con la fedina penale appesantita: prima con lo scudo fiscale, adesso con la vergognosa legge sulle intercettazioni. Chi nei giorni scorsi ha parlato di miglioramenti sostanziali apportati al provvedimento ha detto solo delle acclarate baggianate, ben sapendo che se (sciaguratamente) dovesse passare questa legge dal tono liberticida la magistratura e le forse dell'ordine saranno praticamente esautorate e relegate a ruolo di comparse con l'obbligo del mutismo. Il problema (e lo ribadisco ancora una volta) è estremamente serio: il nostro Paese rischia di fare la fine del Cile di Pinochet, altro che tutti spiati come straparla quel mentecatto del Pifferaio di Arcore. L'Italia è martoriata da due piaghe gravissime, la mafia e la corruzione e non sono certo io a scoprirle. Pensare di imbrigliare le capacità investigative in nome della privacy con una legge bavaglio è da dementi (oltre che da furbi con l'indole criminale); semmai avremmo bisogno di una legislazione ancora più rigida ed incisiva in materia di intercettazioni. Ed invece (guarda caso) il presidente del Consiglio, pur di difendere i propri interessi personali e quelli dei suoi referenti di fiducia, non solo butta a mare la democrazia ma dà praticamente campo libero alla criminalità organizzata. Infatti, al di là dell'apparenza, il provvedimento bavaglio vieta le intercettazioni per vari reati strettamente connessi alle varie mafie esistenti nel nostro Paese; il che significa che diventerà pressochè impossibile scoprire una mole enorme di reati dalle evidenti connotazioni mafiose a cui si arrivava solo intercettando comuni reati spia (quali usura, riciclaggio ed estorsioni). Inoltre, come se non bastasse, la legge burocratizza all'infinito il ricorso alle intercettazioni in modo da scoraggiare anche i magistrati più cocciuti a richiederle: quanti Pubblici Ministeri, provo ad immaginare, manderanno in giro quintali di carte ogni tre giorni per farsi prorogare il permesso ad intercettare, una volta passati i primi mesi? Pochi. E come in un delinquenziale effetto domino questa legge bavaglio prevede il coinvolgimento di più magistrati contemporaneamente, rischiando di mandare letteralmente in tilt centinaia di piccole Procure sul territorio nazionale. E ancor di più esporrà i magistrati a potenziali ritorsioni qualora vi siano fughe di notizie, magari fatte uscire ad arte, proprio per liberarsi di un PM scomodo o troppo rompicoglioni. In buona sostanza esistono tante ragioni per dire che questa sulle intercettazioni è una legge scellerata e vergognosa, che non solo espropria i cittadini del sacrosanto diritto ad essere informati ma che garantisce inevitabilmente l'immunità ai criminali più pericolosi. E pur di impedire a magistrati e giornalisti di indagare e di scrivere su casi come quelli della cricca di Anemone o della D'Addario, come pure della Noemi o dei massaggi particolarmente efficaci a Bertolaso, il vigliacco Berlusconi ricorre alle strategie da dux del terzo millennio distruggendo di fatto lo strumento più essenziale nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione. Certo, da uno come Berlusconi c'era da aspettarselo conoscendo il suo losco ed oscuro passato. Spero vivamente che alla Camera, al contrario di Palazzo Madama, la strenua opposizione di PD, IdV e finiani dia il risultato che buona parte dell'Italia onesta e giusta si aspetta. Che cioè la legge non passi.

venerdì 11 giugno 2010

la pagina nera (e anche quella bianca) dell'informazione negata




Le prove tecniche di regime si sono avute ieri, poco dopo mezzogiorno, nell'austera aula di Palazzo Madama quando i senatori presenti nell'emiciclo, succubi dell'oligarca di Arcore (che qualcuno già comincia a chiamare confidenzialmente ducetto), hanno coscientemente stuprato la libertà d'informazione in Italia facendo passare quel vergognoso DDL emanato in nome della privacy ma che con essa non ha nulla a che fare, anzi. Il disegno criminoso di Berlusconi, volto a mettere il bavaglio a chi per professione e per amore della libera informazione ha scelto di servire il Paese fornendo tutte le notizie utili per giudicare il lavoro di chi ci governa, alla fine ha raggiunto il suo scopo. Strafottendosene altamente delle innumerevoli manifestazioni di legittima protesta ad opera di giornalisti, forze sociali e politiche (quelle poche non ancora sottomesse al laido monarca) e comuni cittadini, Berlusconi ha imposto la legge-bavaglio per poter continuare a saccheggiare impunemente il nostro Paese dal punto di vista strettamente personale, evitando come tutti i comuni mortali di sottoporsi al giudizio di qualsivoglia tribunale proprio in virtù dell'azzoppamento letale della macchina della giustizia che delle intercettazioni poteva servirsi per poter snidare i farabutti criminali, degni compari dell'attuale presidente del Consiglio. Adesso, dopo questa deplorevole pagina nera della nostra ultracentenaria Repubblica italiana, tutti i delinquenti sanno che potranno continuare a commettere qualsivoglia reato con la certezza che nè cimici nè appostamenti fotografici ad opera delle forze dell'ordine nuoceranno più alle loro malefatte. Le consorterie del crimine dormiranno sonni tranquilli, in barba alle più elementari norme del vivere civile e del rispetto delle regole democratiche che ogni Paese non dittatoriale normalmente ha. Tutto questo grazie all'ingegnosa mente criminale del presidente del Consiglio e suoi fidi sgherri nati e cresciuti all'ombra della Seconda Repubblica con il solo scopo di violentarla e sottometterla ai loro turpi interessi. E allora, vale ancora la pena essere cittadini di questo Stato? Credo proprio di no. Post Scriptum: a proposito di libertà d'informazione, questa sera CURRENT TV (piattaforma SKY canale 130) ripropone un bellissimo documentario della BBC su Berlusconi da non perdere. Visibile anche su YouTube (http://www.youtube.com/watch?v=xCFC-goeupY&feature=related). Meditate gente, meditate...

giovedì 3 giugno 2010

l'Italia dei bamboccioni


Ogni anno l'Istituto Nazionale di Statistica ci fa sapere se e come l'Italia è migliorata o se ha avuto dei momenti di dèfaillance tipici di momenti congiunturali legati alla situazione internazionale. Quelle dell’Istat le chiamano fotografie, e la fotografia di quest’anno (http://fendente3.wordpress.com/2010/05/27/rapporto-annuale-dellistat/) è quella di un Paese che annega, con l’unica consolazione che in una foto non si può vedere l’acqua crescere di livello. Quando l’acqua comincia a salire, ad esempio dentro una nave, si cerca di montare su tutto quello che si trova, così ci si arrampica sopra le sedie, sopra i tavoli, si cerca l’uscita. Poi, quando arriva la disperazione si comincia a salire sulle spalle degli altri, spingerli sotto per restare su, pronti a difendersi da quelli che a loro volta si vorranno salvare. Ecco, l’Italia di oggi (annegando) è montata sulle spalle delle nuove generazioni. E cerca invano di respirare ancora un paio di volte, prima di sentirsi l’acqua salire oltre il petto. Loro, quelli che chiamano i giovani ma che in realtà arrivano fino ai trent’anni, se ne stanno fermi in posa dentro la foto, con involontaria ironia. Sono considerati dei campioni statistici: campioni, in realtà, soltanto nell’essere i primi a finire con la testa sott’acqua. Li definiscono i Neet (Not in education, employment or training), sono più di 2 milioni, e sono inetti di fatto o quasi. Sono persone finite in bonaccia ancor prima di prendere il vento, sospesi in una zona di mezzo tra la fine della formazione e il non inizio della vita lavorativa. Nella fotografia se ne stanno lì, immobili dentro le case dei padri, a testimoniare la fine farsesca del concetto di proletariato: se per i proletari i figli erano l’unica risorsa, ora sono i genitori l’unica risorsa dei figli. I figli se ne stanno lì, in casa fino oltre i trent’anni, aggrappati alle mammelle sfinite di madri che non ne possono più di sentirli tirare. Gli hanno detto che lo Stato è una cosa anacronistica, passata di moda, che l’unico modo per tutelarsi è rivolgersi a mamma e papà. Così li vedono uscire la mattina e tornare la sera con un pugno di mosche in mano, invitati a formarsi da un Paese che al tempo stesso però prende a picconate ogni giorno la scuola, butta tutto alle ortiche, trasforma in carta straccia i diplomi di formazione avvenuta. Quello che allarma ancora di più, però, in questa foto di gruppo scattata dall’Istat, è che non sono solo i più giovani, ad annegare. Che i contratti precari sarebbero stati l’anticamera del licenziamento nei momenti di crisi, era una macabra ma facile previsione. Che però a perdere il lavoro sarebbero stati anche quelli delle generazioni dei padri (cassintegrati, licenziati o invitati ad andarsene prima del tempo), quello era uno spettro che non si voleva vedere. Adesso però li vediamo, ci hanno scattato la foto, e possiamo inserire anche questa dentro l’album di questi gloriosi anni zero. La foto è quella di un Paese in cui i giovani sono sott’acqua, e però l’acqua continua a salire, giorno dopo giorno, di qualche centimetro. E nessuno dice niente, nessuno che alzi la voce, che chieda di riavere quel che gli era dovuto. Perché quando si annega il fiato è prezioso, e ciascuno è impegnato soltanto a salvarsi. Le istruzioni sono chiare: montare sulle spalle di un altro, spingerlo sotto, ogni tanto controllare se dalla bocca dei figli, a mollo poco più sotto, esce qualche bolla. E se non esce, non è tempo di piangersi addosso. E' l'Italia dei bamboccioni, bellezza!

martedì 1 giugno 2010

Draghi & la vera macelleria sociale


Nel discorso tenuto ieri dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sì è avvertito, anche per i cosiddetti non addetti ai lavori, una sorta di monito inevitabile e imprescindibile generato dall'attuale situazione economica del nostro Paese. Si è parlato molto in questi giorni (e anche a sproposito) di macelleria sociale in relazione ai tagli previsti dalla dolorosa manovra biennale del governo targato Berlusconi. Bisogna dire che il termine «macelleria sociale», quando viene accostato a un intervento sulla spesa pubblica, in genere segnala una sola cosa: che quelle misure, quei tagli, quei sacrifici proposti come necessari al risanamento dei conti per fronteggiare un’emergenza finanziaria, producono il più delle volte un effetto devastante sulle fasce più deboli della popolazione. E ieri Draghi, nella tradizionale lettura delle considerazioni finali in occasione dell’assemblea dell’Istituto, ha offerto una prospettiva per certi versi inedita. Ed è significativo che lo abbia fatto a braccio, quasi ad attribuire un’enfasi speciale, esterna e superiore rispetto all’ufficialità dell’occasione. La vera «macelleria sociale», ha suggerito Draghi, non è negli effetti di una manovra che, considerato il momento di emergenza internazionale nel quale è stata presentata, va considerata inevitabile nel perimetro dei tagli, ma è tutta in quel fenomeno diffuso e troppo a lungo tollerato che si chiama evasione fiscale. Dietro quella che può sembrare una considerazione dettata dalla necessità di individuare un ulteriore capitolo di entrate (capace di facilitare la strada del risanamento), credo si possa scorgere una realtà alquanto diversa: l’indicazione di un possibile obiettivo comune, una strategia di misure capaci di coniugare sacrifici ed equità. In buona sostanza credo sia la vera soluzione per far quadrare il cerchio varando misure di risanamento e allo stesso tempo riforme per la crescita. È sufficiente una cifra a indicare la dimensione del problema: la sola Iva evasa nel nostro Paese ammonta a circa 30 miliardi l’anno. È più della manovra presentata in questi giorni (24 miliardi), è pari a ben 2 punti di prodotto interno lordo, ma soprattutto se quella somma fosse stata versata, il nostro Paese avrebbe oggi un rapporto tra debito e Pil tra i più bassi d’Europa. C’è da rabbrividire. Ma c'è soprattutto da incazzarsi! La lotta all’evasione, come pure la necessità di contenere la spesa pubblica, diventa così quella riforma capace di catalizzare un necessario e auspicabile consenso politico. E, in pratica, di liberare le risorse negate non dai tagli di una manovra, ma dal costante tradimento del più elementare principio di legalità sociale. È nei costi dell’evasione (oltre che in quelli della corruzione pubblica e della criminalità) che anche per il Governatore Draghi si trova la spiegazione della minore crescita dell’Italia, della pressione fiscale più alta della media europea a carico sia delle imprese che dei lavoratori e della carenza di politiche fiscali a favore delle famiglie, oltre che i limiti di un welfare disomogeneo. Non è solo una questione di legalità, perché il suggerimento è chiaro: la battaglia per ridurre l’evasione va condotta avanzando contemporaneamente e in modo evidente anche sul terreno della riduzione delle tasse e, per garantire un presente e un futuro economicamente sostenibile alle giovani generazioni si deve accompagnare al completamento delle riforme del mercato del lavoro e delle pensioni. Non è facile esprimere fiducia, considerato il contesto di crisi, e riuscire a parlare di futuro quando la bilancia occupazionale e persino salariale pende più a favore delle vecchie che delle nuove generazioni. Nella relazione del Governatore, tuttavia, emergono molto chiari quei punti di forza che l’Italia possiede e che tuttavia fatica a trasformare in rampe di lancio, come la ricchezza media delle famiglie, il basso indebitamento privato, un sistema finanziario più solido. Soprattutto la capacità di vincere collettivamente le battaglie decisive, come furono quella dell’alfabetizzazione della popolazione nell’Italia di 150 anni fa o la ben più difficile crisi di bilancio del 1992. In questo senso impedire la «macelleria sociale» non significa solo arginare sprechi e sottrazioni di risorse pubbliche, ma anche accelerare il varo di riforme strutturali nel senso della solidarietà e del patto tra generazioni. Bisogna ritrovare il valore dell'azione comune e della condivisione degli obiettivi se si vuole veramente cambiare il corso delle cose, cogliendo l’opportunità di una sfida certo dura ma che, in fondo, è molto più semplice di quanto possa apparire. E' solo una questione di volontà politica. Ad avercene...