l'Antipatico

martedì 31 marzo 2009

l'Ingegnere, il cavaliere & il sindaco redento







Poi non dite che sono fissato con il Pifferaio di Arcore. Questa volta la mia attenzione di blogger la rivolgo al vecchio comunista (ed ex sindaco rosso di Fivizzano) riciclatosi pidiellino: l'onorevole, nonchè ministro dei Beni Culurali e coordinatore nazionale (insieme a La Russa e Verdini) del presunto Popolo della presunta Libertà, eccellentissimo grand'Uff. Sandro Bondi, detto il testina. Domenica sera chi scrive ha assistito all'intervista che Fabio Fazio ha fatto a don Bondi nel corso del programma di RaiTre Chetempochefa (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-16612047-0d6e-457c-a8fa-6a89a4b73021-ctcf.html?p=3). Non sapevo, francamente, che l'oggetto della conversazione fosse anche (e fortunatamente non solo) il nuovo libro dell'ex sindaco comunista di Fivizzano, dal titolo più che poetico Il sole in tasca (Mondadori, pp. 108, euro 17,00), sulla cui copertina fa bella mostra di sé un sottotitolo che così recita: "L'utopia concreta di Adriano Olivetti e Silvio Berlusconi". Un'affermazione che deve aver lasciato basito il conduttore televisivo di "Che tempo che fa" che tentava invano di convincere Bondi che forse quel parallelo era un po' azzardato. E deve aver lasciato interdetti tutti coloro che, a prescindere dalle proprie convinzioni politiche, continuano ad avere a cuore un minimo di oggettività storica. Il confronto tra i due, a mio modesto avviso, sembra francamente improponibile. Intanto Olivetti è stato, dalla scuola all'università fino ai suoi ultimi giorni, un imprenditore che nell'80-90% delle sue giornate faceva appunto l'imprenditore. E questo dagli anni Venti, quando entra in fabbrica, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1960. Tra le sue attività ne spiccano alcune che mi sembrano molto lontane da quelle del Pifferaio di Arcore (scusate, ma mi sto accorgendo che continuo ad occuparmi del caimano anche non volendo). In primo luogo il rispetto della condizione operaia e il forte impegno a promuoverne lo sviluppo e l'emancipazione. Teniamo conto che perfino alcuni famosi progettisti della Olivetti provenivano dalle file operaie e hanno avuto poi grandi riconoscimenti. Nulla potrebbe essere più lontano dalla battuta che ebbe a fare Berlusconi in un dibattito con Prodi poco prima delle elezioni e che suonava più o meno così: «Non vogliamo mica mettere sullo stesso piano operai e professionisti!». Adriano Olivetti pensava invece che, come esseri umani, queste due categorie di persone fossero sullo stesso piano. E che i primi avessero diritto ad avvicinare i secondi. Anche gli utili dell'azienda, che in quegli anni furono notevoli, venivano impiegati in modi non convenzionali. Quei profitti, più che andare ad Olivetti e alla sua famiglia, furono utilizzati per costruire biblioteche, case per i dipendenti, asili, servizi sociali. E non solo ad Ivrea ma ovunque l'industria fosse collocata. Nel Meridione o altrove dove si verificò, in piccolo, uno scatto sociale molto avanzato. Mi pare che l'accostamento sia assolutamente improponibile anche per quanto riguarda il pensiero politico. Olivetti ha scritto dei libri di grande spessore teorico che studiosi di filosofia politica e di teoria della politica studiano ancora oggi. Il nocciolo del suo pensiero politico era che la democrazia comincia dal basso, da una comunità fatta di persone che lavorano, che studiano, che interagiscono tra loro e che insieme decidono come utilizzare il ricavo delle loro attività. Mentre quella berlusconiana è una politica calata dall'alto. Non potrebbe esserci dunque una divaricazione maggiore. E ancora: uno dei riferimenti forti su cui Olivetti si è molto impegnato come imprenditore (ma anche come intellettuale) è stata la pianificazione territoriale. L'ingegnere di Ivrea aveva una grande sensibilità urbanistica: è stato presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica e riteneva che l'ordine nel territorio e la sapiente collocazione di varie tipi di attività e di edilizia residenziale fossero un aspetto fondamentale di un Paese moderno che sapesse appunto regolare le attività sul territorio. Il piano casa del quale abbiamo appena sentito parlare dal Pifferaio di Arcore non so quanti anni luce sia distante da questa idea, perché è esattamente l'opposto sia di un piano territoriale concreto sia di una sensibilità per l'importanza che ha il territorio nella vita delle persone. C'è anche l'antifascismo che scava ancor più un baratro tra i due personaggi in questione: Adriano Olivetti venne schedato negli anni '30 in questura come socialista. Dubito che questo possa accadere anche per il caimano. Una volta riaffermata la verità storica resta il fatto che ci ritroviamo, ancora una volta, a fronteggiare l'ennesimo tentativo di ridisegnare la nostra storia ad uso e consumo della destra e di Berlusconi. Che pensare in questo caso? Che spunto interessante e intellettualmente prolifico mi può offrire una dichiarazione di Bondi come quella con cui ho iniziato questa mia analisi? Francamente me ne infischio di Bondi e di Berlusconi, ma purtroppo assisto a tutto quanto sta accadendo in Italia (quanto invidio Davide, in questo momento, beatamente immerso nella movida madrilena...) con grande preoccupazione, se non addirittura con angoscia, perché l'immagine che i media, controllati dalla persona di cui alla fine (volente o nolente) sto parlando, danno della situazione attuale risuta essere quella che poi appunto condiziona la mente dei giovani. Anno dopo anno vedo (con estremo rammarico) affievolirsi la memoria storica recente degli italiani, con lo straordinario rischio che costruzioni del tutto artificiose (come quella del libro di cui sto parlando) diventino la realtà per le nuove generazioni. E questo fa veramente paura.

domenica 29 marzo 2009

se tutti gli italiani fossero come Davide...


Sarò franco. Non mi era mai accaduto in passato, in questi tre anni di blog, di ricevere un commento ad un mio post come quello che ho letto poco fa nella mia casella postale elettronica. Il mio nuovo amico Davide riesce, con una naturalezza a dir poco sconvolgente, ad emozionarmi ed a colpirmi nel profondo del'anima con il suo scritto, con le sue idee, con la sua passione civica. Mi onoro di esserti amico (seppur telematico) caro Davide. Lo dico con il cuore. Ecco la sua lettera da poco arrivata nella mia mail. Caro Nomadus, davvero mi lasciano sempre sorpreso, e nel miglior senso del termine, le tue analisi, i tuoi veramente intellgenti post. Forse é proprio per questo, agganciandomi anche all'analisi che fai della geriatrica e incartapecorita societá italiana, che ben poca gente li legge. Non immagini quante volte l'argomento "Italia, che succede? Che cosa sta diventando il vostro/nostro Paese", sia il centro di accese discussioni con amici spagnoli (sempre piu' allibiti) e italiani (quelli emigrati dalla disperazione come me). E i filoni di discussione sono sempre gli stessi, quelli che anche tu conosci bene e non ti stanchi di esporre nel blog. Io credo di essere arrivato a una conclusione che ne accorpa allo stesso tempo le origini e le conseguenze, e non é certo una bella conclusione. Ovvero: la nostra mentalitá, la nostra identitá di popolo, parlando in un senso eterogeneo (e quindi ammettando ampie eccezioni, che peró sembrano risultare ininfluenti sul senso -appunto- globale), é stata per anni soggetta al relativo benessere che ha imperato dal dopoguerra, all'impulso dato dagli USA (che si é poi trasformato in servile dipendenza), ma ne è sempre in fondo rimasta la stessa di sempre, arrivando oggi, conformemente all'evoluzione storica delle cose, a estremizzarsi e a rattrappirsi nelle sue peggiori caratteristiche. Sto parlando della nostra innata tendenza al menefreghismo, alla visione dello Stato come di una entitá succhiasangue dalla quale scappare e truffare in ogni modo possibile, perché vista sempre come incapace di risolvere ed amministrare saggiamente i nostri problemi. Ognuno di noi, nella misura a lui piu' congeniale, cerca di svicolare le tasse, di ottenere il suo piccolo/grande privilegio, che lo aiuta a vivere meglio nel suo orticello (o immenso parco), ben sapendo che tanto dall'alto non verranno mai aiuti o reali benefici, ma solo inc..ate. Semmai, a un livello di benessere alto, lo Stato viene visto come un aggancio, una leva di potere alla quale la condizione di cui sopra ci permette di accedere per ottenere benefici negati a chi cerca semplicemente di vivere e lavorare onestamente. La collettivitá non ci appartiene, non siamo mai stati un popolo civile che pensa che un sacrificio attuato come singolo, l'obbedienza alle regole dettate dalla Costituzione (se vengono attuate collettivamente) porteranno un beneficio a tutti, e quindi anche a noi stessi. Una parte di questo ragionamento può essere comprensibile, vista la effettiva inefficienza, corruzione e malversazione dei nostri governi, storicamente parlando. Ma anche questo è frutto dello stesso tipo di mentalitá, che semplicemente viene applicata dai politici nella loro funzione di governanti, pregiudicando la funzione che gli viene assegnata dal popolo, e quindi infondendogli questo senso di inadeguatezza, questa percezione di truffatori, di ladri, di incapaci. Le nostre indubbie qualità, quali creatività, poetica, brillantezza, dinamismo, umorismo, allegria e simpatia, per citarne alcune che potrebbero anche sembrare luoghi comuni ma invece sarebbero effettivamente grandi qualitá su cui avremmo potuto costruire grandi cose nel nostro Paese, insieme alle enormi risorse che esso offre, le abbiamo sempre piú votate al beneficio di una sfera personale, intima, a difesa di piccoli gruppi di interesse, fino ad arrivare al disastro di oggi, dove giá non siamo piú capaci di esprimerle collettivamente, ma anzi diamo un’immagine diametralmente opposta a chi ci guarda da fuori (giá, da fuori, dato che a noi comunque piace tantissimo imbrodarci nella nostra retorica “nazionale”, e sempre più spesso siamo incapaci di guardare con interesse e con apertura mentale al di fuori dei nostri confini, di capire come interagiamo nello scacchiere europeo e mondiale). Siamo sempre piu’ il popolo dagli occhialoni Gucci, la camicia bianca impeccabile e i vestiti griffati molto appariscenti D&G. Il popolo fighetto, curato, bello e seduttore, ma allo stesso tempo maleducato, arrogante, un po’ rozzo e abbastanza ignorante. Almeno questo è quello che io percepisco senza ombra di dubbio vivendo all’estero. Una brutta caricatura di quello che io invece credo siamo, lo ammetto, ma purtroppo è l’effettiva immagine che fuoriesce dallo stivale berlusconizzato. E di certo ne è la degna rappresentazione: una faraonica autocelebrazione con tanta apparenza/appariscenza e infimi contenuti. È senza dubbio gratificante vedere come invece tanti italiani, di cui molti vivono all’estero, danno ancora l’immagine reale del nostro popolo capace di creare ricchezza e innovazione, di gente seria che sa lavorare e allo stesso tempo capace di ridere, far ridere e divertirsi, divertire. Ma tutto ciò avviene perchè a monte si è sempre fatta la stessa scelta, quella di lasciare il vascello affondare nei suoi mali insanabili. Quello che sta succedendo oggi in Italia, in ogni settore, in ogni campo, dall’economia alla politica alle dinamiche che regolano la vita sociale, é il triste frutto dell’involuzione di questa mentalità, questa parte peggiore del nostro innato carattere. La dura crisi che sta colpendo il mondo oggi non ha fatto che acutizzare la crisi che giá ci attanaglia da almeno 10 anni, dalla fine dell’ideologia, dall’inzio di Tangentopoli, da quando Silvio è sceso in campo per tappare la voragine che si era spalancata sotto i nostri occhi: la consapevolezza che tutto il benessere su cui avevamo galleggiato per anni era stato costruito sulla menzogna, sulla corruzione, sull’abuso del potere. Quello che è successo da allora, lentamente, è stata la legittimazione di quello stato di cose, la presa di coscienza che sì, siamo così!! Che abbiamo sempre costruito la maggior parte delle cose su queste basi e che non c’è modo di farlo altrimenti, che così va bene e che si continuerà a farlo così. Questo almeno il discorso portato avanti dal Pifferaio, e non ce ne si può certo stupire, visto l’elemento in questione, nato e vissuto nel brodo di cottura di questa cultura indegna. La cosa triste, tristissima, IMMENSAMENTE TRISTE, è stato vedere lo sfacelo morale e materiale, durante tutti questi anni, di chi avrebbe dovuto impedire, contrastare, proporre un’alternativa valida, seria e fattibile a tutto ció. La sinistra, i democratici, i radicali, i comunisti vituperati e i cattocomunisti: tutta questa galassia di formazioni che tanto hanno sbraitato, che tante purissime idee hanno sbandierato, che tante occasioni hanno avuto per cambiare la rotta, per dare impulso all’Italia migliore, per dare voce alla nostra parte piu’ bella, piu’ onesta e seria, hanno invece miseramente vivacchiato, eternamente litigato, anche loro hanno ceduto volgarmente alla tentazione dell’orticello, arraffando privilegi e non rischiando nulla più del dovuto. Hanno sempre alimentato un clima di disunione e contrapposizione tra le mille anime presenti, fino all’odierno risultato. Il disastro. Quando hanno avuto l’opportunità, governando, di marcare la differenza a livello ideologico e pratico, hanno invece sempre dato fondalmentalmente l’immagine di divisione, di incompletezza, di incomprensione tra di loro e non hanno mai saputo colpire l’avversario nel momento di debolezza (cito due casi emblematici: la risoluzione del conflitto di interessi e il crollo dell’ultimo governo Prodi, quello che doveva “rigenerare” l’Italia massacrata dal quinquennale governo Silviota, per mano dello squallido Mastella, alleato indispensabile dello 0,4% che era stato pescato con le mani nel sacco distribuendo posti clientelari nella Sanità pubblica e che per vendetta ha affossato un già agonizzante governo proprio nel momento di massima debolezza del Popolo della Libertà, quando sembrava che nemmeno Re Silvio potesse piu’ tenere a bada gli alleati ribelli e agguerriti. Invece gli stesero davanti così facendo un tappeto rosso e le chiavi del Paese). Il progressivo deterioramento dell’immagine e della sostanza del blocco della Sinistra, insieme alla fisiologica scomparsa dei “duri e puri” comunisti (che a mio modo di vedere non hanno mai reso un buon servizio al Paese, ma anzi condividono a piene mani le colpe del disastro), hanno in tutti questi anni portato al trionfo dell’immagine e della sostanza del Berlusconismo, che nel suo leader inossidabile e certamente carismatico e incredibile comunicatore (anche grazie appunto ai mezzi che gli hanno regalato), ha incrementato fino al parossismo attuale la sua essenza: Lui sa come risolvere i problemi, Lui ha saputo e sa mantenere unito il Popolo delle Libertà, Lui sa come governare il Paese, come mandare avanti l’Azienda Italia. Questo, a grandi linee e secondo la mia modesta opinione, è quello che è successo e quello che sta accadendo nel nostro ex-Belpaese. E siccome sotto la edonistica retorica del Pifferaio sappiamo bene (ma siamo sempre meno e sempre più sconfitti) cosa si cela, questo compattarsi della società intorno a una ideologia di plastica, comporta le conseguenze che tu, caro Nomadus, elenchi: vecchiume, conformismo estremo, insieme alle nuove paure che l’apparato mediatico del novello Imperatore diffonde tra i suoi sudditi per mantenerli docili e spaventati: il terribile rumeno stupratore-assassino-che-ti-ruba-in-casa-e-anche-il-lavoro, il pericoloso ubriaco/drogato al volante, il pessimo fannullone, il viscido comunista, ecc..(il mafioso no!! Quello è pericoloso per davvero, e quindi affrontarlo apertamente mette più male, e poi si sa, li ci si può mettere d’accordo, qualche stalliere, brava gente...)Berlusconi ha vinto, e trionfa con queste banali armi, perchè nessuno ha mai saputo combatterlo efficacemente, nè ha mai saputo dare una alternativa valida. E a mio modo di vedere non c’è nepure ora, nè se ne vede l’ombra in lontananza. Anzi, se anche sorgesse come un messia da qualche buio angolo, dovrà sempre combattere, prima del potente Pifferaio, una schiera di temibili avversari interni, sotto la guida del più nefasto potere trasversale che, insieme alla Mafia, è sempre stato il nostro più gravoso problema: il Vaticano. Con queste premesse e questi risultati, e con il cuore stretto in mano, la mia personale soluzione è quella che tanti mi criticano, e che io stesso non ho preso a cuor leggero, ma che penso sia l’unica che possa permettere di poter portare avanti una vita vissuta onestamente e senza dover combattere ogni giorno contro troppe, troppe avversità, morali, etiche e materiali: andarsene. Non sai quanto mi pesi dire queste cose e vedere in quale orribile stato versino le cose nel mio amato Paese, che amo tanto e che tanto mi ha dato. E ancor peggio, dirti che sinceramente non vedo allo stato delle cose che tutto ciò possa, almeno a breve-medio termine, migliorare. Quello che posso fare è mantenere vivo l’interesse delle persone a me vicine, e quelle che posso raggiungere in qualche modo, ad esempio pubblicando questo post. E portando avanti con la mia esperienza personale e la mia vita, l’immagine migliore dell’Italia e del nostro popolo, nella speranza che davvero, un giorno possiamo tornare a essere il Paese del Rinascimento. Un abbraccio. Davide

il vecchio che avanza


Lascio alla libera interpretazione del lettore scoprire il significato della parola vecchio che ho usao per titolare questo mio post della domenica, l'ultima di marzo. In genere un vecchio che avanza è alquanto inquietante, a prescindere dall'interpretazione. Ma se io volessi accomunare il termine vecchio ad un politico a caso (Berlusconi, per esempio) non potrei che pormi quache legittima domanda per cercare di spiegare (e spiegarmi) il fenomeno mediatico e politico rappresentato dal Pifferaio di Arcore. Perché dopo l’intervento dell'altro ieri di Berlusconi al congresso fondativo (come dice lui) del PdL ci sono alcune cose che stridono tra loro. Ogni volta che definiamo Silvio Berlusconi un uomo dell’antipolitica, un disco rotto che ripete sempre le stesse cose, uno che si occupa soltanto dei suoi affari e lo fa con assoluta determinazione, un narcisista che fa gaffe su gaffe, che ricorre alla chirurgia estetica in modo evidente e grottesco, che non ha niente in cui una persona con un minimo di buon senso possa riconoscersi, e parlo anche di persone di destra; ogni volta, dicevo, che si incomincia questo discorso c’è un politico, un sociologo, un analista politico di fine lettura, un giornalista attento ai fenomeni di massa che ti rimprovera: nessuno di voi ha capito Berlusconi, perché Berlusconi è uno che intercetta l’elettorato, perché Berlusconi è una sorta di rabdomante, uno che trova l’acqua nei deserti, perché Berlusconi è uno che vince sempre, e se vince un motivo ci sarà. E soprattutto: perché Berlusconi è la modernità, è uno che ha trasformato in vecchio tutto quello che c’era prima; non solo ha spazzato le ceneri del vecchio centro destra, ma ha messo in una vetrinetta antica l’intera sinistra. Va bene. Non si è capito nulla, e forse le cose stanno proprio così, ma il Berlusconi delatro ieri non è uno che intercetta, ma è uno che è rimasto uguale al Paese del 1994. E' uno che torna ancora a dire che questa sinistra non cambierà, è uno che (in un mondo profondamente cambiato da allora) usa gli stessi stilemi, gli stessi luoghi comuni e agita gli stessi fantasmi di quando scese in campo, di quando entrò in politica. E allora? Se vince con questo armamentario, se le armi sono sempre le stesse non vuol dire che lui è moderno, che lui è il futuro, e non lo abbiamo capito. Ma vuol dire che probabilmente esiste un elettorato di centro destra, quel 51 per cento a cui aspira Berlusconi, che è ancora più vecchio del suo leader, che è anche (forse) più ignorante, che pensa ancora alla sinistra come a qualcosa di cattivo. Forse non è Berlusconi l’elemento modernità, ma Berlusconi è soltanto un po’ meno vecchio dei suoi elettori, che sono culturalmente e socialmente decrepiti. Invecchiati con le sue televisioni. Intercettati da sua Emittenza, come veniva chiamato un tempo, nel modo più prevedibile possibile. Altro che modernità. Forse per disinnescare Berlusconi bisognerebbe fare in questo modo, ovvero continuare a far passare un messaggio, vero, non di propaganda: Berlusconi è vecchio, e sono vecchi tutti quelli che stanno accanto a lui. Non è il nuovo, è il vecchio. E l'altro ieri questa vecchiaia politica e culturale si è vista tutta.

sabato 28 marzo 2009

la televisione (d'inchiesta) che non c'è più


Non vorrei immedesimarmi in un critico televisivo dei giorni nostri, ma francamente avrei molta nostalgia della televisione di qualche lustro fa. Come ad esempio di quella targata Giovanni Minoli che con Mixer lanciò lo stereotipo del vero giornalismo d'inchiesta e mise il suo marchio a fuoco sul famoso faccia a faccia che ancora oggi ritrovo su qualche spezzone di YouTube. E un faccia a faccia che ho recuperato sul sito de La Storia siamo noi riguarda l'attuale presidente del Consiglio, alla vigilia della sua oramai famigerata discesa in campo. «Iscriversi alla P2 in quel momento non lo considero, mi consenta, un errore, ma un incidente. Chi poteva pensare fosse negativo o pericoloso iscriversi a un gruppo che radunava gli uomini migliori d'Italia? Ancora adesso non riesco a capire del tutto cosa ci sia stato di male». E via poi con la barzelletta della tessera di apprendista muratore, arrivata per caso e forse anche per scherzo nel suo ufficio. E' il Pifferaio di Arcore che parla, quindici anni fa, il 21 febbraio 1994. Citiamo una delle decine di risposte piccate date da lui in un'intervista a Giovanni Minoli a "Mixer", in un Faccia a Faccia che dovrebbero proiettare ininterrottamente nelle scuole di giornalismo. Sembra un film di fantascienza l'intervista mandata in onda da Rai Storia (digitale terrestre gratuito, dal febbraio 2009 ha sostituito Rai Edu 1) a più riprese nella giornata di ieri (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=416). Giovanni Minoli (non a caso relegato nella prigione dorata di Rai Educational pur essendo il migliore uomo che la Rai ha da decenni) incalzava il candidato premier, lo inchiodava a domande sulle sue holding, sul conflitto d'interessi, sulla magistratura. Domande piene di ironia e sano veleno, risposte corrucciate e viso cupo, ingigantito dallo sfondo consueto di "Mixer". Impossibile pensare che ora "preferiamo" il Vespa adorante quando un moderato, non certo un rivoluzionario, sapeva sbugiardare il castello di vanità e false verità di Sua Emittenza. Una tv più ingenua ma più sincera, in cui il caimano (più magro, con capelli veri e ancora più naif) si lamenta alla fine di non aver potuto fare campagna elettorale. «Cosa sono venuto a fare?», si chiede comicamente. Fa una figura grottesca il Peron italiano, quando giustifica le scatole cinesi della sua società con un possibile pericolo di sequestro o quando sfoga il suo anticomunismo dicendo che «ok, non mangiano i bambini, ma ovunque hanno seminato miseria, terrore e dittatura». Una tv, quella di Minoli che era servizio pubblico, memoria storica e fonte d'informazione, argine democratico e non palco per performances populiste e filogovernative. Faccia a faccia di Minoli ora è stato sostituito da Porta a Porta: la sua incredula ironia da un'acritica genuflessione al potere. Quando piangiamo i tempi andati, dobbiamo ricordarcelo bene. Molto bene.

mercoledì 25 marzo 2009

il presidente del consiglio (sbagliato)


Costituzionalmente parlando il presidente del Consiglio del nostro Paese, in linea di massima, dovrebbe occuparsi di politica e di governo insieme ai suoi ministri da lui prescelti alla bisogna. Mi pare, invece, che ultimamente il nostro poliedrico e sempre arzillo presidente si stia preoccupando di dispensare consigli per gli acquisti (un pò di tempo fa invogliava gli italiani alle spese pazze pur di far ripartire il volano economico del Paese) e di consigli per i disoccupati: cercatevi un lavoro e lavorate di più. Nel frattempo lui si diletta con la Frecciarossa delle FFSS indossando, a favore di telecamere e di macchine fotografiche, il cappello da ferroviere oltre a telefonare al nuovo presidente di Alitalia (o CAI che dir si voglia) Colaninno, prenotandosi su uno dei nuovi aerei previsti sulla tratta Milano Malpensa-Roma Fiumicino. Insomma un vero presidente degli italiani, uno che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Altrimenti di che potremmo parlare o scrivere? Debbo ammettere che non conosco le fonti che ispirano le acute intuizioni del presidente del Consiglio (spero per lui non siano oppiacei...), ma lui oggi ripete lo stesso concetto (quello di lavorare di più) che una show girl ormai dimenticata (Melba Ruffo di Calabria) espresse durante una vecchia edizione di Domenica In, fornendogli quell'autorevolezza che prima mancava. Lavorare di più per uscire dalla crisi, dunque. Bene, vediamo in concreto che significa, senza i soliti pregiudizi ideologici. Immagino che, prima di tutto, si pensi di far lavorare di più chi ha perso o rischia di perdere il posto, o chi è da lungo tempo in cassa integrazione. Quindi i lavoratori della Fiat di Pomigliano, i tessili di Prato, le lavoratrici della Indesit di Torino, i cassintegrati dell'Alitalia, i precari pubblici e privati che rischiano di scomparire dal ruolino dell'occupazione, e tante e tanti altri. Secondo i dati che il governo considera allarmistici (ma che tutte le fonti confermano), entro la fine dell'anno avremo oltre 500.000 (diconsi cinquecentomila) cassaintegrati e altrettanti disoccupati in più. Far lavorare di più un milione di persone che non lavora affatto non dovrebbe essere difficile per il Pifferaio di Arcore, visto che sulla promessa di un milione di posti di lavoro fondò la sua discesa nel campo della politica. Ma come, dove? Sono lavori pubblici, quelli che vengono offerti? E' la costruzione del Ponte di Messina? E' la stanza in più nell'appartamento che ogni famiglia, anche nei palazzi a venti piani, potrà costruire secondo un'altra promessa (o consiglio) del Presidente del Consiglio? Una promessa che solo incalliti detrattori possono trovare in contrasto con le leggi urbanistiche e anche con quelle della fisica. E' un impegno che otterrà dalla Confindustria della signora Marcegaglia, che ha chiesto e ottenuto recentemente "soldi veri" dal governo? Non è chiaro. A meno che il lavoro in più, a cui potrebbe dedicarsi questo milione di persone, non sia il lavoro nero. Quello che secondo un altro acuto comunicatore, il ministro Brunetta, costituirebbe un vero e proprio ammortizzatore sociale. Ma forse sto equivocando. Il Pifferaio parlava di far lavorare di più quelli che ancora lavorano. Qui faccio fatica a capire come e cosa ci guadagnano i disoccupati, a cui governo e imprese non offrono lavoro dignitoso, se gli occupati lavorano di più. Secondo me così si aggrava la crisi, ma il mio è probabilmente un vecchio schematismo ideologico e anche matematico, di chi non crede che in economia si possano moltiplicare i pani e i pesci (per questa incombenza c'è qualcun altro preposto...). Come invece hanno creduto coloro che hanno comprato i derivati e i vari titoli spazzatura e che erano convinti che l'economia non fosse più sottoposta ad alcuna legge. Comprendo che alla parola legge il presidente del consiglio abbia una reazione stizzita. Ma stia tranquillo, la violazione delle leggi dell'economia non è reato da nessuna parte e anche coloro che negli Stati Uniti hanno pensato di poter vendere e comprare all'infinito il Colosseo, la stanno facendo quasi tutti franca. A mio avviso quando un'economia è depressa (o in crisi) sarebbe necessario, prima di tutto, redistribuire il lavoro e i redditi invece che accumulare diseguaglianza tra chi può lavorare e chi no e, ancor di più, tra chi è ricco e chi non lo è. Però è difficile far intendere il concetto di redistribuzione a chi pensa che sia offensivo anche solo sospettare che i ricchi non siano tali per diritto divino. Allora, se ci riesce, provi il Pifferaio a spiegare agli italiani in concreto come funziona il meccanismo per cui se io lavoro il doppio e tu lavori niente, abbiamo un lavoro per uno. Provi a superare il significato profondo del sonetto di Trilussa e magari potrà concorrere al Nobel per l'economia. In fondo, nel passato, quel premio l'hanno ottenuto persone che avevano idee più strambe e anche più dannose delle sue.

domenica 22 marzo 2009

il bavaglio (mediatico) del caimano


Prendo spunto dalla recente osservazione del mio nuovo amico e lettore Davide (a proposito del post e dei relativi commenti su Bruno Vespa), per cercare di fare il punto sull'attuale situazione in Rete circa la paventata possibilità da parte del caimano di tirar fuori dal cassetto una leggina per imbavagliare il dissenso mediatico di blog e social network. A mio modesto avviso è in atto un (reazionario) organico disegno del Governo del caimano per tappare la bocca ai dissidenti che si sta dispiegando ad un ritmo impressionante. Sia sul piano istituzionale che su quello sociale sto assistendo ad una accelerazione che mira a saggiare i punti di resistenza dei potenziali avversari. L’attacco, di qualche tempo fa, del Pifferaio di Arcore al Presidente della Repubblica ed al Parlamento corrisponde all’offensiva contro il contratto nazionale di lavoro ed il diritto di sciopero. La libertà di stampa e di espressione è anch’essa nel mirino. Dall’inizio della legislatura la destra ha preso decisioni gravissime che proprio in questi giorni rischiano di divenire legge. Il cosiddetto decreto intercettazioni contiene, accanto alla distruzione di uno strumento fondamentale per le indagini contro la mafia e la corruzione, anche norme liberticide che, nella sostanza, impediranno ai giornalisti di fare inchiesta e denuncia. Nel decreto non c’è solo la previsione del carcere ai giornalisti che pubblicano le intercettazioni o la proibizione assoluta di pubblicare ogni notizia sulle indagini in corso sino alla udienza preliminare (norme in contrasto sia con la Costituzione italiana che con le sentenze della Corte europea di giustizia). Questa legge contiene anche l’insidiosissima norma che prevede la responsabilità diretta degli editori su ciò che viene pubblicato. In questo modo si cancella la forma storica della libertà di stampa in Italia che prevede l’autonomia delle redazioni nei confronti della proprietà. Cancellando di fatto la figura del direttore responsabile si introduce una censura diretta da parte degli editori sulle redazioni, inducendo così di fatto i giornalisti all’auto-censura preventiva. I tagli e le modifiche nelle procedure del finanziamento alla stampa colpiranno duramente il pluralismo dell’informazione. Uno dei primi atti di questo Governo è stato infatti quello di tagliare del 50% il finanziamento alla stampa e di prendere nelle proprie mani, togliendo la competenza parlamentare, le decisioni sul flusso di queste risorse indispensabili prima di tutto per la sopravvivenza di testate scomode e quindi non sostenute dal mercato della pubblicità. Ed infine l’articolo 60 del "pacchetto sicurezza" introduce una brutale censura su Internet. Con la scusa della lotta alla pedofilia si prevede che il Ministero degli Interni potrà chiudere intere testate, blog e siti se qualche ronda informatica segnalerà una generica "apologia di reato" o un "incitamento alla violazione della legge". Anche in questo caso si obbligano non le redazioni ma i provider (e cioè le imprese che non producono ma ospitano i contenuti su Internet) ad agire preventivamente perché nessuno possa pubblicare i contenuti incriminati. Per fare un esempio, se la redazione di un sito (ma eventualmente anche un singolo navigatore con un post) scriverà che "bisogna bloccare la costruzione della base di Vicenza" qualcuno, magari una ronda telematica, potrà chiedere al Governo, non solo la rimozione di questa apologia di reato, ma l’oscuramento dell’intero sito. In questi ultimi giorni ho notato con piacere le mobilitazioni promosse dalla Federazione della Stampa e una campagna meritoria contro la censura sulla rete (http://www.laretetilibera.org/blog). Decine di testate on-line hanno già sottoscritto un appello comune per mettere assieme le forze ed impedire che Governo e Parlamento chiudano la bocca all’informazione libera. Auspico che tutti sottoscrivano l’appello ma, soprattutto, che tutti rilancino in ogni modo la consapevolezza e la mobilitazione. La logica di fondo di tutti questi provvedimenti infatti è quella di mettere la stampa e l’informazione in generale sotto il controllo, diretto o indiretto, del Governo e del caimano in particolare. Contro questo disegno serve innanzitutto una campagna politica che renda evidente, appunto, il carattere organicamente reazionario dell’azione del Governo. Bisogna quindi al più presto uscire dalle mobilitazioni degli addetti ai lavori e cercare di dare una consapevolezza di massa al pericolo che corre la libertà di stampa e di espressione nel nostro Paese. Spero che tutto ciò accada.

prendere esempio da Obama


Ho parlato e scritto del nuovo presidente di colore degli Stati Uniti non poche volte (soprattutto su TPI-BACK), seguendone l'escalation personale e politico, fino alla vittoria del 4 novembre scorso su McCain. Inutile dire che ho sempre tifato per Barack Obama (i post sono lì a testimoniarlo), sia per la novità insita nel primo candidato afroamericano sia per il suo modo di porsi di fronte agli elettori e ai mass-media internazionali. Ho sperato intimamente (ma purtroppo senza esito) che il nostro grande statista di Arcore prendesse esempio, almeno in qualche cosa, da Obama: che so, nello stile della comunicazione, nel riconoscimento del valore degli avversari politici, nella lotta alle lobbies e ai potentati economici e politici dell'America più retrograda e conservatrice. Invece nulla, il Pifferaio di Arcore non ne ha voluto sapere di prendere esempio dal presidente degli Stati Uniti. Forse perchè Obama era gradito a Veltroni e così, solo per ripicca, il caimano ha evitato di cimentarsi in qualsiasi commento (ad eccezione della magra figura a proposito dell"abbronzatura"). Comunque, a parte il Pifferaio, quello che veramente conta a livello internazionale è che il presidente degli Stati Uniti sia in prima linea nella battaglia per assicurare che la società americana torni a mettere di nuovo in primo piano il principio della accountability, un termine inglese che si può tradurre con la parola responsabilità, ma il cui significato più preciso è caratterizzato dal connotato della trasparenza, e dal mantenimento degli impegni, specialmente da parte di chi ricopre una posizione di rilievo o di potere in una organizzazione. In breve, accountability significa rendere conto del proprio operato. Obama ha invitato, fin dal giorno del suo insediamento, i responsabili della pubblica amministrazione a tenere un comportamento in linea con il principio della accountability. Il presidente ha ugualmente chiesto agli imprenditori e ai manager delle grandi imprese, specialmente quelle che avevano richiesto e ricevuto danaro pubblico per affrontare la crisi economica, di tenere comportamenti caratterizzati dall’accountability. Nel caso dei bonus che l’American International Group (Aig, lo sponsor del Manchester United per intenderci)) ha pagato pochi giorni fa ai suoi manager, pari a circa 165 milioni di dollari, utilizzando i fondi che il governo federale aveva messo a disposizione per evitare il suo fallimento, è venuto meno il principio della accountability. Il cittadino medio americano si chiede com’è possibile che si possa premiare con un bonus di circa un milione di dollari ciascuno dei manager responsabili per la politica disastrosa della Aig, la quale oggi sopravvive solo grazie ai 170 miliardi di dollari che il governo federale ha iniettato nel colosso assicurativo per evitarne il fallimento. La rabbia degli americani contro il comportamento del management della Aig si è manifestata a tutti i livelli, a partire dal cittadino comune, e ha coinvolto anche i membri del Congresso, i quali hanno minacciato di tassare fino al novanta per cento i bonus pagati ai manager responsabili della politica fallimentare dell’azienda. Il presidente Obama ha dichiarato il suo totale disappunto, e ha chiesto ai suoi collaboratori di verificare l’esistenza di eventuali meccanismi legali per recuperare i soldi che la Aig ha dato ai manager. Dopo un’audizione dinnanzi al Congresso il 18 marzo 2009, il direttore esecutivo della Aig, Ed Liddy, ha dichiarato di aver chiesto ai manager che hanno ricevuto il bonus qualche giorno fa di restituirne la metà al governo federale.In America, il principio dell’accountability, e il rispetto delle regole, ha unito coloro che vorrebbero più intervento dello Stato nell’economia, e quelli che vorrebbero applicare in modo intransigente la politica del laissez faire. Lo sviluppo di un capitalismo responsabile ha permesso l’affermazione e l’egemonia dell’ideologia del libero mercato anche fra i lavoratori e i meno abbienti negli Stati Uniti. Il primato della libera impresa e dell’iniziativa privata sono una componente fondamentale del modo di vita americano: in America nessuno mette in dubbio il ruolo dell’imprenditore e il diritto di chiunque di cimentarsi nell’imprenditoria. In America, arricchirsi è parte del sogno ed è motivo di vanto, quando si raggiunge il successo specialmente partendo da condizioni di povertà. Il comportamento di finanzieri senza scrupoli, imprenditori fraudolenti, e manager corrotti e incapaci sta mettendo in seria difficoltà la base stessa del capitalismo responsabile americano, una delle colonne portanti del sogno americano.Obama, accusato durante la campagna elettorale di voler ridistribuire la ricchezza attraverso politiche socialiste di stampo europeo, si trova ora a dover difendere il libero mercato, mettendo in risalto la capacità degli americani di fare libera impresa. Dopo aver proposto misure per salvare grandi imprese come la Aig, alcune banche, la Chrysler, la Ford e la General Motors, ora propone misure a tutela delle piccole imprese, per stimolare la base stessa del capitalismo americano.La debacle dei pagamenti dei bonus ai manager fallimentari della Aig rischia di ridurre l’appoggio che Obama sta ricevendo dall’opinione pubblica americana nel portare avanti tutte quelle misure che servono per stimolare l’economia. Obama ha recepito immediatamente il malcontento della popolazione a proposito dei bonus pagati ai manager della Aig. Senza nascondersi dietro paraventi o provare a fare lo scaricabarile, semmai accusando altre istituzioni statali o cariche dello Stato, Obama si è assunto la responsabilità, in quanto presidente, anche se è in carica da soli due mesi, per non aver fatto di più nel controllare come la Aig intendesse spendere i fondi messi a disposizione dalla Federal Reserve e dal Tesoro. Obama, con il suo comportamento, ha dato una dimostrazione pratica del comportamento etico, di un comportamento ispirato dal principio della accountability, dimostrando che qualcosa, a Washington, sta cambiando nel modo di fare la politica. Differentemente da quanto sta avvenendo a Palazzo Chigi...

sabato 21 marzo 2009

un nuovo amico


Sono rimasto piacevolmente sorpreso questa mattina, scorrendo la posta della mia casella elettronica, nel trovare due commenti di un lettore di questo blog che riprendevano un mio post di qualche mese fa, dedicato a Bruno Vespa. Questo lettore si chiama Davide (almeno questo è il nick che usa su Blogger) e queste sono le sue ultime due mail a me indirizzate. Voglio riproporne la lettura anche per far capire che l'intelligenza e la coerenza di pensiero vanno di pari passo quando non sono offuscate dalla faziosità e dalla capziosa volontà di chi, invece, parla (e scrive) mosso solo dal plagio esercitato dal padrone di riferimento. E che alla fine esautora ogni pur minima ragione di libertà di espressione e di critica politica. Un saluto affettuoso al mio nuovo amico (nonchè fedele lettore, spero) Davide.
Bravo vá...almeno tu non censurare, se no siamo a posto! Vorrá dire che se questo Signore si prenderá il disturbo di leggere il tuo blog e querelarmi, a me e altri centomila che lo insultano dalle pagine del web, insieme a Emilio Fede, Dell'Utri e tanti, tantissimi altri, manderanno un'ordine di arresto internazionale, visto che il "Belpaese" l'ho felicemente lasciato da tempo...Ma scusa eh: cosa pretendi? Che commenti vuoi che posti la gente? Chi legge un blog come questo? Gente come me che digita "VESPA LECCHINO" su google x vedere cosa esce!! E guarda quanti siamo, visto che é l'unico post! Vai tranquillo nomadus, che (forse) almeno qua si puó ancora dire cosa si pensa..forse ho usato parole un pó forti per commentare, ma ho solo rudemente concretizzato quello che pensi pure tu e che in modo molto piú interessante e democratico esponi nel blog...É che con Vespa non ce la faccio davvero a essere politically correcto...abbi pazienza...un saluto
Di
Davide, Alle 21 marzo, 2009 01:39 . E questa è la sua seconda mail (sempre in risposta ad un mio commento).
Caro Nomadus, mi collego dalla Spagna, dove penso che si viva un pó meglio dell'odierna italietta, anche se adesso la situazione sotto il punto di vista del lavoro é davvero tragica... Riguardo al blog, ti faccio di nuovo i complimenti per i contenuti e pero l'accuratezza con cui tratti gli argomenti, ci vorrebbe molta piú gente come te in Italia... Il forse io ce l'ho messo in via scaramantica, visti i ripetuti tentativi della banda al governo di tappare le voci contrastanti dovunque esse siano...ad ogni modo credo pure io che prima che mettano la museruola al web si debba arrivare alla dittatura di fatto...ma con questa gent(aglia), ogni precauzione é d'uopo!!secondo me uno dei preggiori problemi che affliggono il nostro Paese é questa becera dicotomia realizzata dal grande Santo Comunicatore: ovvero che un blog come il tuo, che espone fatti concreti e analisi intelligenti e veritiere, e che pur denotando un'appartenenza a sinistra non si possono classificare (almeno la maggior parte) come prettamente "di parte", in tale modo vengono classificate da chi sta dall'altra parte, ovvero la sterminata galassia degli entusiasti berlusconici...Qualsiasi critica é "comunista", faziosa sinistrorsa...prendiamo quella sulla riduzione dello stipendio dei parlamentari: un elettore di CDX lo approverebbe senza indugi, ma solo se venisse dal PDL, se a proporlo sei tu, cittadino indignato, allora sei subito un fazioso comunistoide che vuoi privare quei benefattori del loro giusto sostentamento!! manca autocritica e apertura mentale..comunque continua cosí, che di ignoranza ce n'è troppa in giro...un saluto da Madrid
Di
Davide, Alle 21 marzo, 2009 12:23 . Che dire, infine: oggi è anche il mio compleanno (notare il cambio di fotografia nel mio profilo utente, sono trascorsi 25 anni tra le due foto...) e quindi accetto i complimenti e le considerazioni di Davide come e più di un bel regalo. Grazie ancora. Mucha Suerte!

giovedì 19 marzo 2009

7 anni dopo qualcosa è cambiato?


Si sa che le commemorazioni, soprattutto se di eventi tragici, sono la migliore occasione per dare libero sfogo alle più sopraffini arti retoriche. Ma la retorica spesso altro non è se non l'intelligenza applicata al nulla. L’anniversario dell’omicidio di Marco Biagi (http://www.repubblica.it/online/politica/marcobiagi/marcobiagi/marcobiagi.html) che cade oggi, merita però il tentativo di sviluppare una riflessione sulle profonde conseguenze di quella pagina tragica della storia italiana. A mio modesto avviso, il problema non è stato tanto riproporre la questione delle responsabilità morali e politiche di un omicidio. Non è stato tanto verificare in che misura il tetro clima ideologico intorno al progetto di riforma del mercato del lavoro curato da Biagi, creato scientemente da alcune forze politiche, abbia determinato o favorito o addirittura indotto quel gesto terroristico. Incidentalmente non si può dimenticare come (secondo un classico schema dei totalitarismi di ogni tempo e di ogni latitudine) una certa cultura fondamentalista abbia operato in questi sette anni una scientifica opera di rimozione della memoria. Per allontanare da sé il sospetto di responsabilità oggettive, di collateralismi con la nuova ondata del terrorismo rosso che prende di mira inermi giuslavoristi, una parte della sinistra ha cercato di rompere il legame indissolubile tra Marco Biagi (del quale si piange la morte) ed i temi e le proposte dello stesso Biagi (che quella morte ha determinato). Fino al tentativo, consumatosi nella scorsa legislatura, di offendere la memoria del professore bolognese, rifiutandosi di appellare come "legge Biagi" la famigerata legge n. 30. Ed in effetti è vero che la legge n. 30 non rispecchia fino in fondo le idee di Marco Biagi. Ma solo nel senso che la legge era assai timida e parziale mentre le sue idee erano molto più innovative (e riguardavano la riforma dell’articolo 18, la riforma degli ammortizzatori sociali, la riforma del modello di contrattazione).
La cosa che più preoccupa è invece quella sorta di interdizione linguistica che ha colpito, a destra come a sinistra passando per il centro, il tema del mercato del lavoro e della sua riforma. Oramai la regola per cui "chi tocca l’articolo 18 muore" (e non solo metaforicamente) sembra essersi impadronita della coscienza dell’intera classe politica, anche dei suoi uomini migliori. Nei giorni scorsi è capitato così di leggere frasi come quella del ministro Brunetta secondo il quale "il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo". (Corriere della Sera del 9 marzo 2009). Del resto circa un anno fa capitava di leggere il sempre brillante ministro Tremonti, secondo il quale "è migliore la libertà di assumere rispetto alla libertà di licenziare. Non credo che l’eliminazione dell’articolo 18, una norma largamente sopravvalutata, sia una priorità. Del resto la struttura sociale europea non è preparata ad una forsennata mobilità".
Che i nostri governanti esercitino una certa prudenza su temi scottanti e che suscitano inevitabilmente aspri conflitti sociali e politici è comprensibile ed in una certa misura anche apprezzabile (perché consente di evitare velleitarie fughe in avanti). Occorre però non oltrepassare il limite del ridicolo. Il nostro mercato del lavoro è notoriamente uno dei più arretrati fra i paesi industrializzati ed una delle principali cause della scarsa competitività del Paese (che cresce in media la metà di quanto crescono gli altri paesi europei). Il processo di riforma faticosamente avviato nelle scorse legislature è ancora largamente incompiuto. E tale incompiutezza è uno dei principali fattori della situazione del carattere fortemente frammentato del nostro mercato del lavoro, causa di gravi fenomeni di precarietà lavorativa, diseguaglianza sociale, inefficienza economica. E questi limiti diventano sempre più insostenibili in una fase di crisi economica. Se in una fase espansiva anche un mercato inefficiente può più o meno funzionare (perché la domanda di lavoro è sostenuta e quindi le concrete condizioni nelle quali avviene lo scambio di mercato sono abbastanza buone), la situazione precipita quando la domanda di lavoro cala. In questa situazione tutto il carico dei problemi è sulle spalle dei non garantiti, degli outsider, mentre gli insider vedono scorrere la crisi come in un film. E’ lapalissiano che la libertà di assumere è meglio della liberà di licenziare! Peccato che (come comprende anche uno studente di economia del primo anno) limiti e divieti alla seconda incidano pesantemente sull’inclinazione all’esercizio della prima. E ciò soprattutto in fase economica recessiva.
Certo dal punto di vista della comunicazione politica non è facile rilanciare il tema dell’articolo 18 in una fase di crisi economica, nella quale si agita lo spettro di licenziamenti di massa. Una fase buia nella quale tutte le pecore (precari e lavoratori a tempo indeterminato, dipendenti pubblici e privati, dipendenti delle piccole e delle grandi imprese) diventano grigie. Ma come ammoniva Marco Biagi "avvicinare la situazione dei 'vendederos de estrada' messicani ai lavoratori super protetti dell'articolo 18 è davvero un insulto ai primi e una presa in giro per i secondi. L'articolo 18 sarebbe la diga che bisogna difendere a tutti i costi: peccato che quella diga impedisca a tanti soggetti di entrare nel mercato del lavoro".
A 7 anni di distanza da quelle parole, forse, un consiglio potrei rivolgerlo (molto sommessamente) ai nostri governanti: anziché lanciarsi in spericolate elaborazioni teoriche, che cercano di dimostrare l’indimostrabile, si limitino a tacere! Lascino l’onere (ed il rischio) di occuparsi di riforma del mercato del lavoro a chi ne capisce di più e rischia di meno. Ed esempi non ne mancano, né a destra (Giuliano Cazzola) né a sinistra (Piero Ichino, mirabile il suo intervento a commemorazione di Marco Biagi nella seduta odierna del Senato)! Ma come sempre, suppongo, questo consiglio rimarrà inascoltato...

domenica 15 marzo 2009

l'attacco del caimano al cuore dello Stato (sociale)


Parlando in questi ultimi giorni, sul posto di lavoro, con alcuni colleghi che sono diventati nuovi lettori dei miei blog, mi sono accorto che la maggioranza di essi mi taccia di eccessivo antiberlusconismo. Come se in pratica il sottoscritto scrivesse solo e comunque contro il cavaliere. E magari scrivendo anche fandonie o peggio ancora calunnie. Non credo di essermi ridotto a questi livelli. Chi segue in particolare questo blog si ricorderà (spero) che tra il novembre e il dicembre del 2007 ho dedicato 17 capitoli al riassunto della vita di Silvio B. senza acrimonia e senza scadere nella calunnia o peggio ancora nell'offesa istituzionale. Basta andare a rileggersi quei capitoli per rendersene conto. In buona sostanza (e per fortuna) non è certo colpa mia se debbo continuare a scrivere del Pifferaio di Arcore solo perchè cento ne pensa e cento ne combina. Prendiamo ad esempio l'attuale momento politico, economico e sociale del Paese. Si può forse dire che il caimano e i suoi accoliti stiano operando per il bene dell'Italia e in particolare della gente che non ce la fa più a tirare avanti la carretta? Non mi sembra proprio. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, credo. Il Pifferaio di Arcore sta usando la crisi per costruire una organica svolta a destra: presidenzialismo, distruzione del sindacato, attacco ai diritti sociali e civili, aggressione all'ambiente e sua mercificazione, promozione di ideologie razziste, sessiste e clericali come la religione civile del Paese. Le ideologie reazionarie non sono un optional di questa politica: costituiscono il collante ideologico che permette di costruire consenso anche tra chi vede peggiorare la propria condizione. La gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale è l'obiettivo berlusconiano: il clerico fascismo per l'appunto. L'obiettivo della destra non è quindi l'uscita dalla crisi ma l'uso della stessa per costruire un regime reazionario. Per uscire dalla crisi a sinistra (e per sconfiggere il progetto berlusconiano) è quindi necessario costruire un movimento di massa per l'alternativa. Senza un progetto alternativo che unisca la difesa degli interessi materiali immediati ai valori civili e la proposta di uno sviluppo alternativo, di una rivoluzione ambientale e sociale dell'economia, non è possibile uscire positivamente dalla crisi. Per questo, a mio avviso, si deve ricominciare a vivere dentro le lotte, a partire da quelle organizzate dalla CGIL e dal sindacalismo di base, con la costruzione di una piattaforma alternativa: redistribuzione del reddito e salario sociale per tutti i disoccupati, intervento pubblico in economia per praticare la riconversione ambientale e sociale della stessa, rinascita di un nuovo umanesimo laico che veda nell'autodeterminazione degli uomini e delle donne il punto focale. Per superare la frammentazione sociale e la guerra tra i poveri è decisivo che una piattaforma concreta di riunificazione sociale viva dentro la costruzione delle lotte. E una serie di misure come la tassazione delle rendite finanziarie e delle transazioni speculative, la rottura di ogni relazione finanziaria con i paradisi fiscali, la possibilità per i lavoratori di tornare in possesso del loro Tfr abbandonando i Fondi Pensione. Il punto centrale di questo progetto è la proposta di un nuovo intervento pubblico in economia. Il caimano (furbescamente) propone un intervento pubblico distruttivo delle relazioni sociali e dell'ambiente: dal via libera alla speculazione edilizia alle centrali nucleari. Bisogna invece proporre (e spero che la sinistra lo faccia) un intervento pubblico che, a partire dalla nazionalizzazione delle banche e dallo stop ai contributi alle imprese, attivi ricerche e produzioni finalizzate alla soddisfazione dei bisogni sociali e non dei profitti. Il livello europeo e quello delle lotte sono i terreni decisivi per la richiesta dell'alternativa. Uscire dal chiacchiericcio del bipolarismo tra simili (che caratterizza il dibattito politico italiano) facendo emergere la concreta urgenza dell'alternativa nelle lotte e nella campagna per le europee. E' questo il vero compito degli uomini di buona volontà. E di sinistra.

sabato 14 marzo 2009

radiografia (impietosa) di una crisi irreversibile


Non vorrei apparire un catastrofista con quello che sto per scrivere. Men che meno uno jettatore, ma la mia personalissima impressione è che l'attuale crisi economica e sociale del nostro (ex) Belpaese abbia una connotazione alquanto inquietante: la irreversibilità. Non credo che potremo più riassaporare gli agi e le libertà lussuose di un tempo (oramai passato e archiviato nel file dei bei ricordi economici), quando ci si poteva permettere il pranzo domenicale al ristorante, il cinema ogni settimana, i dischi e i libri quando ci pareva e la vacanza lunga un mese nei posti più belli e desiderati. La pacchia è finita cari lettori. La situazione è davvero drammatica, nonostante le panacee propagandistiche del governo berlusconiano che con l'elemosina ai precari crede di risolvere tutti i problemi. «La Social Card è troppo poco? Sempre meglio di niente». Il Tremonti-pensiero sulla lotta alla povertà è chiarissimo: dare una mano a tentare di sopravvivere. E basta. Per il resto, la classe media è lasciata a faticare per farsi largo, i ricchi a godere delle loro rendite. La visione ha padri noti (per dirne due: Reagan e Thatcher) e nemici altrettanto conosciuti: quelli che credono nella redistribuzione. Negli Usa ci ha appena pensato Barack Obama a sotterrare la tesi della «carità», che alla fine lascia i poveri nelle stesse condizioni di prima (se non peggiori) e proietta i ricchi verso livelli sempre più alti. E in Italia? A che punto è la lotta alla povertà? Da noi lo Stato non va oltre misure una tantum: a volte ben congegnate, ma per ora assolutamente inefficaci. Sulla povertà c’è il fallimento totale della politica. Il motivo, secondo gli esperti, sta in una grande assenza, che si protrae oramai da anni. L’Italia resta l’unico Paese in Europa (insieme a Grecia e Ungheria) che non ha alcuna misura generalizzata di ultima istanza che tuteli chi non ha nulla. La Francia a luglio prossimo avvierà il «revenue de solidarité active», il nuovo sussidio pubblico che sostituisce in parte e innova il vecchio reddito minimo di inserimento, avviato nell’ormai lontano 1988. Da vent’anni i francesi possono contare su un sussidio che per gli italiani resta un sogno. Ci aveva provato Prodi negli anni '90, ma ci si è fermati a una sperimentazione in alcuni Comuni. Poi, più nulla. Anzi, ultimamente l’ipotesi sembra diventata criminogena. Un invito a non lavorare. E come se non bastasse la finanza creativa ha lasciato un buco di un paio di miliardi. Qualche esperto parla di tirannia della classe media, potente serbatoio di voti della politica. Mettiamola così: i poveri non fanno vincere le elezioni. Così, per diverse ragioni, in Italia si è costruito un welfare ritagliato sulle categorie del lavoro. Con effetti distorsivi assolutamente paradossali. Come accade con gli assegni familiari: si ricevono solo se si è in attività. Se si perde il lavoro, si perdono anche gli assegni. La dote per i figli studiata dal governo prodi avrebbe superato questa distorsione: ma non se ne è vista più traccia. Gli ultimi due governi hanno varato misure destinate alla parte più marginale della società. Il centrosinistra ha introdotto il bonus incapienti (2 miliardi di euro) e la quattordicesima mensilità per i pensionati al minimo (1,2 miliardi di euro), unica misura strutturale. Il centrodestra ha inventato la social card (circa 500 milioni) e il bonus famiglia (quasi due miliardi). L’effetto sul fenomeno, però, risulta assai limitato, come segnala l’ultimo rapporto della commissione d’indagine sull’esclusione sociale. Analizzando le «numerose misure messe in campo» dal governo Prodi (oltre alle due segnalate, assegni familiari, aiuti per l’affitto, tutele ai disoccupati), gli esperti sono costretti ad ammettere che «l’assenza di una scala precisa di priorità, la scarsità di risorse disponibili, ampiamente inadeguate a ridurre davvero la povertà in Italia» hanno prodotto un impatto modesto. Anche se non mancano buoni risultati, come quello del bonus incapienti che riesce a raggiungere il 56% dei poveri e si rivela come la misura con il maggior impatto sugli indici di povertà. Le misure nel loro complesso hanno avuto effetti positivi al sud, rispondendo ad uno degli elementi costitutivi della povertà italiana, più allarmante nelle regioni meridionali. Insomma, lo sforzo c’è stato: ma il risultato complessivo è deludente. Stessa cosa accade alle misure adottate dal governo del Pifferaio. Sulla carta (ma solo sulla carta) social card e bonus famiglia puntano ad aiutare gli strati più bassi, ma poi saltano agli occhi vistose e gravi anomalie. I single non pensionati, ad esempio, sono esclusi dal bonus, così come il reddito da lavoro autonomo. Ma il limite più pesante per le due misure è tutto l’armamentario burocratico inserito per ottenere i benefici. L’erogazione non è automatica, ma subordinata alla domanda da parte dei beneficiari. I difetti della manovra governativa segnalano, al contrario, ciò di cui vi sarebbe bisogno: un intervento di sostegno dei redditi personali e familiari consistente e con valore strutturale, cioè per un verso con effetti permanenti sul reddito disponibile e per altro verso con un miglioramento di equità e di razionalità del sistema italiano di imposta personale e sostegni alle famiglie. La macchinosità denunciata dagli esperti si sta rivelando fatale. Oggi meno della metà della platea di beneficiari della card è stata coinvolta, e appena 2 milioni di famiglie hanno fatto richiesta del bonus, su un obiettivo di oltre 6 milioni. Chiaro che si va verso il fallimento. E non solo della social card...

giovedì 12 marzo 2009

il puparo & i suoi burattini


Non penso di dover spiegare più tanto a chi ho dedicato il post che sto scrivendo. Il titolo mi sembra oltremodo esplicativo. Il personaggio principale (il puparo) è sempre lui, il signor Silvio B.; naturalmente i burattini non possono che essere i circa quattrocento (poche donne e tanti uomini) che formano il gruppo parlamentare del partito di plastica. E che in fondo è anche l'ossimoro di se stesso. Un partito che si chiama Popolo delle Libertà e che nega la libertà di voto e di espressione ai propri eletti (volendone concentrare nelle mani del puparo ogni sentore di aspirazione alla libertà stessa) è un partito di plastica, ma di quella più scadente. Il più grande gruppo parlamentare della storia della Repubblica che non riesce a sbarazzarsi del proprio padre-padrone, ostinatamente convinto che la sua mente sia sopra ogni cosa e ogni volontà. Quattrocento e più persone che di mestiere fanno i deputati e i senatori del Popolo delle Libertà, ma che in realtà non hanno nemmeno l'occasione di esprimersi sul loro destino. Il Pifferaio di Arcore ha fondato per loro un partito unico mentre si trovava sul predellino di una Mercedes in Piazza San Babila a Milano: un partito unico (ma pur sempre di plastica) in cui ci stanno scivolando dentro. Alleanza Nazionale ha improvvisato un congresso, Forza Italia nemmeno. Ma non sono felici. Non è allegra la vita di deputati e senatori del PdL. In un anno ormai di strapotere berlusconiano è stata approvata una sola vera legge che non fosse la conversione di un decreto del governo: il lodo Alfano, per tirar via il signor B. dal processo Mills. Dunque in tanti si sono lamentati. A loro modo, certo. Ringraziando il puparo all'inizio e alla fine. Ma insomma, a loro non gli va di star lì solo a votare decreti, fiducie o deleghe a Tremonti. Si poteva pensare che c'era qualcosa da correggere nel rapporto tra il governo e la sua maggioranza. Si potevano prendere sul serio i tormenti sull'identità di AN o magari le giustificate paure per la concorrenza della Lega. Poi, in ritardo, è arrivato il puparo. Dal palco stava intervenendo qualcun altro, ma è sparito: forse inghiottito da una botola. Il signor B. ha salutato e ha spiegato che voleva fare presto perché i deputati dovevano tornare in aula a votare. Ha detto che se prima era importante che i parlamentari fossero sempre presenti al voto adesso con il sistema delle impronte digitali è ancora più importante. Ha detto: guai a chi manca, sto ancora cercando quei 63 che erano assenti all'ultimo voto di fiducia. Lo hanno applaudito forte, anche quei 63 nascosti tra la folla. Allora il puparo ha aggiunto che stava pensando a un'alternativa per alleviare la fatica ai suoi burattini: togliergli il diritto di voto. Vota solo il capogruppo per tutti. Così Maurizio Gasparri avrà 146 voti e Fabrizio Cicchitto 271. Hanno applaudito ancora più forte, soprattutto Gasparri. E alla fine il Pifferaio di Arcore ha detto che con questa novità, però, bisognava dimezzare il numero dei parlamentari. L'applauso c'è stato lo stesso, con scambio di sguardi e mezze risate: sta scherzando. Non è proprio così nuova la proposta del signor B.: una cosa del genere l'aveva già detta, aggiungendo che in fondo bastano una decina di parlamentari per fare il lavoro che serve al governo. Del resto che fiducie e decreti siano il sistema migliore per governare lo ripete ogni giorno. Questa volta però gli ha subito risposto il presidente della Camera dei deputati: «La proposta era già stata avanzata ed era caduta nel vuoto, accadrà anche stavolta». Gianfranco Fini aveva iniziato la giornata rileggendosi la sua intervista a El Pais nella quale si sottraeva dal ruolo di «delfino» di Berlusconi (http://www.elpais.com/articulo/internacional/soy/delfin/Berlusconi/elpepiint/20090310elpepiint_4/Tes). A mio modo di vedere il vero senso dell'intervista è che non vuol essere il numero due e non vuol essere incoronato erede da nessuno, «sono repubblicano e non monarchico» dice. Molto bene, commentavano invece i suoi avversari nella maggioranza, che non sono più solo quelli di Forza Italia ma praticamente tutti i suoi ex colonnelli. Non è il delfino nel senso che il delfino è un qualcun altro. Per lui immaginano un ruolo in Europa, un po' come immaginò D'Alema per Prodi. «Ambasciatore del PdL», cioè niente. Invece Fini ritocca il suo profilo istituzionale, da terza carica dello Stato. Non è perfetto: aveva iniziato a presiedere l'assemblea di Montecitorio spiegando che ognuno ha diritto di esprimere le sue opinioni ma certo dipende da quello che dice. Poi si è corretto, ma ogni tanto ci ricasca. Ha risposto, agli ultimi dissidenti del voto con le impronte digitali, che «non sono obbligati a fare i deputati». Nel frattempo uno dei suoi ex colonnelli, Italo Bocchino, faceva l'elogio dei «pianisti», cioè di quelli che votano per gli assenti. Con il nuovo sistema non dovrebbe più essere possibile, ed è anche questo che preoccupa il puparo. Soprattutto per il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità per la legge sulle intercettazioni. C'è il voto segreto e la legge non piace a molti. Nemmeno del tutto al signor B. a dire la verità: «Non è quella che avrei voluto io, ma comunque è importante», ha spiegato precettando le sue truppe parlamentari. Nel nuovo partitone (pur sempre di plastica) se i giochi per la scelta dei coordinatori sono già fatti (due di Forza Italia, Verdini e Bondi e uno di AN, La Russa) perché vale sempre la regola del 70% agli azzurri e 30% agli ex missini, e se Fini nel PdL è un pesce fuor d'acqua, resta aperto il grande tema della successione al puparo. Lui (nel senso del signor B.) ha ripetuto la gag sulla sua giovinezza («ho sempre 35 anni»); poi si è preoccupato di frenare i più voraci. Che sono sempre Gasparri e Bocchino, Cicchitto e Quagliariello, capigruppo e vice capigruppo di Camera e Senato, meglio noti come «la banda dei quattro». Il Pifferaio di Arcore se li è ritrovati sul palco, seduti dietro a un tavolo come nei veri congressi di partito. Ed è chiaro che la cosa non è piaciuta: «Non vogliamo correnti e potentati nel nuovo partito e nemmeno una nomenklatura (ha detto smorzando il sorriso dei quattro) dobbiamo intervenire, cambiare questa cosa». Nessuno di loro può ambire a troppo e il più applaudito dai parlamentari non è stato nessuno della banda: è stato il ministro Sacconi. Subito dopo un altro ex socialista e ministro, Brunetta che ha detto: «Mi ricordo sempre il giorno in cui il signor B. ci convocò per dirci che avremmo fatto un partito: siamo rimasti in pochi (quelli scelti nelle sue aziende), ma ci siamo ancora». La nostalgia di Enzo Ghigo, che fu presidente del Piemonte, serve a far riflettere su com'è cambiata Forza Italia. Ma finché il puparo si terrà i suoi 35 anni, la fusione (per incorporazione) con AN non darà alcun problema. Ai burattini però forse sì...

domenica 8 marzo 2009

l'Onda lunga di Rossaura


Immaginavo che la risposta di Rossaura al mio precedente post (ispirato dall'articolo di Curzio Maltese su il Venerdì di Repubblica) necessitasse di una trasposizione da commento ad articolo giornalistico. Come sempre, d'altronde. Ed eccola accontentata, madeimoiselle Ross! Buona lettura a tutti. Sì, concordiamo tutti con l'analisi di Curzio Maltese che comunque si è dimenticato del movimento studentesco della fine degli anni '60. Che è stato il più radicale e innovatore. Esiste in questo momento, però, un problema di comunicazione fortissimo: lo spazio degli anni di cui stiamo parlando non è lo spazio di oggi. Come vediamo bene l'Onda si è alzata e ha raggiunto varie parti del mare, ma sembra ormai spiaggiata. Ho tentato più volte di ragionarci con mio figlio, che di Onda se ne intende visto che è uno dei promotori nella sua Università. Esistono delle mentalità, in questi giovani, che riducono il movimento ad un'improvvisazione spontanea che non riesce ad eleggersi a "scuola di pensiero". Non è sufficiente che si muova spontaneamente una parte della gioventù per essere movimento. Necessitano ben altre cose. Per esempio una strutturazione del pensiero (attorno a ciò che ha causato il sommovimento) e al futuro di qualsiasi movimento di opinione dei giovani attorno alla scuola. La mentalità singolaristica e la presunzione di meritocrazia lede terribilmente questa gioventù. Ma che si può fare se ciò che hanno imparato (dal mondo in cui vivono e dai nostri messaggi educativi) è che l'importante è uscire singolarmente dalla feccia, senza la voglia di solidarietà che comporterebbe il tirar fuori tutta la compagnia? Nel merito del post non credo che la "nuova" linea del nuovo segretario riuscirà a riportare il PD nella carreggiata che doveva essere "primarie sempre e comunque", ossia la democrazia della base e l'avvento del nuovo. Come già ebbi a dire, se il nuovo (pur se osteggiato dalla nomenklatura) è rappresentato da Matteo Rienzi (giovane e rampante yuppie più somigliante ad un berlusconiano che ad un concreto democratico dalle idee chiare e comprovate), allora anche qui siamo alla frutta. Non dico che il nuovo debba uscire dalla scuola di partito, ma almeno non dalla parrocchia, non dall'associazionismo religioso e praticante. Possibile che non esista una prassi di educazione politica che si filtri attraverso il sindacato oppure attraverso esperienze nell'ambito dei circoli o negli apparati amministrativi? Forse perchè il sindacato è stato zittito dal governo e dal PD che non ha alzato un dito nei confronti di obbrobri tipo la firma disgiunta di un patto sindacale e il confinamento verso l'oblio della Cgil? Partire dal territorio vuol ben dire un'altra cosa che girare con due bus di color verde (tanto per confondersi con il paesaggio). Richiede un'organizzazione capillare che fino ad oggi non è stata incoraggiata. I Circoli hanno agito con il volontariato, spendendo di tasca propria, a volte anche senza le risorse di volantini o di sedi accettabili. Se il PD vuole salvarsi (e se vuole mantenere quel che resta del suo elettorato) deve cambiare ben di più della sua classe dirigente. Non credo che salvare il PD voglia dire salvare la Sinistra. Il PD è un'altra cosa. E' un partito riformista che imbarca acqua, oltre che annegati. E che non è in grado di formulare nessuna proposta di riforma, perchè non si schiera contro nessun (puntuale) attacco del governo berlusconiano alla democrazia del nostro Paese. Come nell'Onda anche nel PD le anime sono variegate e troppo "ombelicocetriche". Aggiungiamoci pure il difetto di presunzione e abbiamo disegnato una società in declino, anzi già declinata ed estinta. Ovviamente essendo io un'anima di sinistra, non posso essere così pessimista. Sogno e opero per fare un'azione di riconquista del territorio, a costo anche di usare gli stessi metodi che usano i leghisti (che sono i più attrezzati in questo senso). Il popolo è stato educato male, sia dalla destra che dalla sinistra. Nessuno gli ha dato fiducia e tutta la politica ha preteso di decidere per lui. Io spero che la parte intelligente di questo popolo inizi un percorso di crescita e di autodeterminazione: la bandiera non ha importanza, purchè ci siano le stesse pulsioni e la stessa meta da raggiungere. E per quanto riguarda quale è la meta lascio a te, caro amico, l'ultima parola. Rossaura.

sabato 7 marzo 2009

che ne sarà di noi? (di sinistra)


La domanda è più che legittima e me la pongo quasi ogni fine settimana, dopo aver osservato fatti ed avvenimenti della politica italiana. O per meglio dire, di ciò che ne resta. Come finirà il rinnovamento nel Partito Democratico? Ecco un'altra domanda che mi sovviene ascoltando le parole di Dario Franceschini, una volta da Fabio Fazio e un'altra magari davanti a un tavolo nella sede del partito. L'ottimismo della volontà (spero non soltanto la mia) incoraggia a sperare. Il disastro è comunque tale che, immagino, nessuno oserà opporsi al cambiamento annunciato (e in parte attuato) da Franceschini, come invece era accaduto con Veltroni. Il nuovo esponente dell'opposizione vuole tornare ai territori. Ed ha ragione, secondo me. Mettersi in viaggio per l'Italia reale è ancora una meravigliosa avventura. Non c'è città, paesino o angolo di questa nazione dove non ci s'imbatta in comunità, esperienze e personalità straordinarie (per non dire eroiche) che aspettano soltanto di mettersi al servizio di una buona politica. Ma il pessimismo della ragione (purtroppo non soltanto la mia) dice che finirà male. In vent'anni ne ho visti cambiare di marchi e programmi, ma le facce sono rimaste sempre le stesse. Facce di politici orfani di vecchie ideologie (comuniste e cattoliche), oramai convertiti all'esercizio cinico del potere. Politici specializzati e bravi, anzi eccezionali, soltanto nel conservarsi come ceto politico. Nonostante le sconfitte. La ragione (e non soltanto la mia) suggerisce che i capibastone del centrosinistra se ne andranno soltanto quando non ci sarà più il Pifferaio di Arcore. E non saranno certo loro a levarlo di mezzo. Lo farà lui stesso. Per limiti di età e di cultura. O per troppo successo. Il successo totale del berlusconismo, rinviato da quindici anni e oramai vicinissimo, comporta infatti la catastrofe generale. E quindi anche la propria. Forse non sarà domani, ma la crisi già minaccia la follia gattopardesca di un'Italia che cambia tutto affinchè tutto rimanga come quindici anni fa, prima della discesa in campo di Lui. Forse non sarà domani, ma un giorno si scoprirà quanto il macigno berlusconiano abbia congelato la vita pubblica e sociale, la politica e la comunicazione, la giustizia e l'informazione. Forse non sarà domani, ma la sua fine è nell'aria. Con il delirio di onnipotenza che sempre lo accompagna.

mercoledì 4 marzo 2009

ma ridursi lo stipendio no?




La recente polemica sui prezzi alla bouvette di Palazzo Madama, addirittura ribassati (manco fossero legati al prezzo del petrolio), portata in primo piano dal mastino Antonio Di Pietro ha avuto un duplice effetto: in prima battuta ha scatenato le ire del giornalista mechato Filippo Facci che non ha perso tempo nello scrivere il solito articolo antidipietrista sul Giornale berlusconiano (http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=333113). Il secondo effetto, più sano e risolutivo, è stato il dietro-front imposto dal presidente del Senato Renato Schifani che ha deciso di ripristinare il vecchio listino prezzi, vanificando così le speranze al risparmio di gente che alla fine del mese si vede accreditare sul proprio conto corrente la bellezza (in media) di 14.000 euro. Eh no, cari signori del Senato. Non è che ve la potete cavare così, ora che siete stati sorpresi con le mani nel tramezzino a buon prezzo. Non è che tutto può finire (tanto per restare in tema) a tarallucci e vino, tornando a pagare un piatto di pasta 1,80 euro invece di 1,50. Come avevate provato a fare. Il vostro presidente Schifani, certamente dopo aver letto i titoli su tutti i giornali di carta e online e l’indignazione dei lettori sparsa per il web, ha deciso di fare marcia indietro: si torna ai prezzi di una volta. Il surplus fra i prezzi offerti dal gestore della bouvette e quanto sarà realmente pagato, dice Schifani, andrà in beneficenza. Bravo Schifani che, fiutando il vento di tempesta che tirava, è stato piuttosto sollecito a prendere la decisione. Bisogna però aggiungere che forse in questo momento di crisi avrebbe potuto fare di più. Molto di più. Non solo gettare fumo negli occhi degli elettori arrabbiati. La crisi si fa sentire, il Pil crolla, la Borsa negli ultimi giorni ha perso quasi il dieci per cento, le fabbriche chiudono, migliaia di operai sono in cassa integrazione, il settore tessile a Prato è sulla strada del disastro, molti commercianti sono in difficoltà. E voi, cari senatori della Repubblica, cosa fate? Ci annunciate pomposamente che, a pranzo, tornate a pagare i maccheroni col ragù un euro e ottanta centesimi? Voi che (secondo le fonti più accreditate) viaggiate su una media, fra stipendio e indennità varie, di 14.000 euro al mese? Non scherziamo signori, il momento è grave e dovete anche voi dare una mano ad uscire da questa situazione. E nel modo più semplice e corretto: riducendovi lo stipendio di senatori. Come hanno già fatto da altre parti, anche in settori privati. E dovreste convincere il resto della Casta (deputati della Camera, ma anche i signori delle Regioni) a fare lo stesso piccolo sacrificio (mi si passi l'eufemismo). Potreste, ad esempio, tagliarvi il 15% della mensilità. Vi resterebbero sempre e comunque dei bei soldi. E con quelli "tagliati" (alcuni milioni di euro al mese) potreste costituire un bel fondo di solidarietà per tutti quelli che sono nel buio della crisi (soprattutto giovani precari e disoccupati) e che non ce la fanno ad arrivare alla quarta settimana. Questo potrebbe fare una classe politica vicina ai drammi del suo Paese. Questo dovrebbe fare una classe politica se non si sentisse una Casta di privilegiati. Altro che tornare a pagare il caffè cinquanta centesimi. Ce la farete a prendere una decisione del genere? Io spero di sì. Anche per il bene dei vostri elettori.

domenica 1 marzo 2009

ognuno è padrone della propria vita?


Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te. Partendo da questo presupposto mi sono chiesto come mi comporterei trovandomi (spero mai!) nella necessità di decidere della vita di una persona cui voglio bene e che non è più in grado di decidere se e come porre fine alle proprie sofferenze. Le polemiche sul caso Englaro ancora riecheggiano nella mia mente (purtroppo anche le infelici battute da necroforo del Pifferaio di Arcore) e la brutalità con cui la destra è intervenuta sul caso hanno suscitato in molti un sentimento di rivolta morale. Qualcosa di molto più profondo di un dissenso politico, per la strumentalità del discorso, la superficialità, il pressapochismo, la distanza con cui venivano toccati argomenti che hanno bisogno di prossimità, di vicinanza, di quella insomma che i buddisti chiamano compassione e i cristiani carità. Questa ispirazione mi pare debba essere a fondamento di ogni legislazione sul tema, così come è a fondamento dell'articolo 32 della Costituzione che afferma che la «legge non può in ogni caso superare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Lo scontro tra gerarchie ecclesiastiche, maggioranza parlamentare e forze consistenti dell'opposizione nel Parlamento e nel Paese , sembra concentrarsi tutto su un quesito: chi è il padrone della vita? Dio o la volontà del singolo? Una sorta di conflitto su un diritto di proprietà. La vita appartiene a Dio, tuonano le gerarchie ecclesiastiche, che negli ultimi anni si sono concentrate ossessivamente sul primato del biologico fatto coincidere con la persona umana. No, rispondono i laici, appartiene a noi, alla nostra volontà inappellabile: «io sono padrone del mio corpo e della mia coscienza». La signoria sul proprio corpo è una fondamentale acquisizione della cultura liberale, ma siamo sicuri che sia questo il terreno giusto per affrontare i dilemmi che ci pongono le stesse conquiste della scienza medica? Per quanto riguarda la vita, tutti dobbiamo avere il senso del limite. Siamo creature nate di donna, cui viene dato da altri un corpo, un nome, una storia e, dicono alcuni psicanalisti, persino un compito. La vita è un concetto che trascende la singolarità dell'individuo e lo immette in trame di relazioni complesse. La tua vita certo è tua ed è irripetibile, ma ti appartiene non nella misura di un manufatto, di un oggetto d'uso o di scambio. E' tua, ma è anche storia di altri e della tua famiglia: a partire dal progetto e dall'accettazione materna. E' importante per tutti, quindi, uscire da questa disputa, fare propria l'idea che ha ispirato i Costituenti, l'attenzione alle persone concrete che devono essere aiutate dalla comunità che le accoglie («l'interesse generale» come recita l'art.32) a compiere un percorso il più completo possibile. Alla fine questa persona che avrà sviluppato i suoi convincimenti, saprà quanto è disposta a sopportare per rimanere in vita. Perché anche il morire è un'esperienza e non una proprietà. Ed è di questo che siamo chiamati a decidere. Ed è per questo che ciascuno può dire come vorrà affrontare questo cimento. E lo farà possibilmente non da sola, ma con le persone che la amano e che hanno cura di lei, e morirà così come è nata, assistita dall'amore degli altri.