l'Antipatico

sabato 28 febbraio 2009

la (vera) scoria d'Italia


Che il presidente del Consiglio non mi sia mai stato troppo simpatico non è una novità. Ma certo, dopo il suo annuncio dell'accordo nucleare con il suo pari altezza Sarkozy, non credo che riuscirà a rientrare nelle mie grazie (ammesso che gli possa interessare...). L’intraprendenza (e la relativa scelleratezza) con cui il Pifferaio di Arcore è solito sottoscrivere con altre nazioni (in questo specifico caso con i cugini francesi) accordi talmente sfavorevoli al nostro Paese da risultare perfino imbarazzanti, danno il senso dell'affare e del ridicolo con cui il nostro primo ministro si presenta ai suoi "amici" europei che beneficiano della situazione sfregandosi allegramente le mani. Tanto per ricordare (facendo anche riferimento diretto al titolo di questo post che ho voluto dedicare interamente a Lui), nel maggio del 2004 il Pifferaio diede prova del proprio genio firmando con il Presidente francese Chirac un accordo in merito alla suddivisione dei costi del progetto TAV in Val di Susa, nell’ambito del quale l’Italia era disposta ad accollarsi il 50% del costo totale della tratta internazionale (di 72 km), pur risultando essa solamente per un terzo di competenza italiana. I francesi ringraziarono e portarono a casa il cadeau. Il 30 novembre 2005, costretto a trovare un escamotage (tanto per restare con la lingua francese tanto cara a Lui) che potesse permettere alla società Impregilo di defilarsi dal disastroso affare dei rifiuti in Campania, il Pifferaio di Arcore varò nientemeno che un decreto legge che consentiva la risoluzione ope legis dei contratti con le società appaltatrici. Impregilo ringraziò e pochi mesi più tardi venne perfino premiata con l’appalto per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Alla fine di agosto 2008 il barzellettiere più famoso d’Italia firmò un maccheronico accordo con la Libia di quell'altro squinternato che risponde al nome di Gheddafi, nell’ambito del quale l’Italia si impegnava a versare 5 miliardi di dollari al Colonnello, in cambio della promessa di un maggior controllo da parte dei libici in merito alle imbarcazioni cariche di clandestini che regolarmente salpano alla volta delle coste italiane e che, paradossalmente dopo la stipula dell’accordo, hanno continuato a salpare in quantità superiore a quanto accaduto in precedenza. Gheddafi sta ancora sorridendo compiaciuto ed ottimista. Nell’autunno dello scorso anno il signor B. (dopo aver fortemente osteggiato la vendita di Alitalia ai francesi, caldeggiata dal governo Prodi) ha pensato bene di svenderla ad una cordata d’imprenditori italiani che si sono a loro volta adoperati immediatamente nel risvenderla ai francesi, ad un prezzo notevolmente più contenuto rispetto a quello che Air France era disposta a sborsare solo qualche mese prima. I quotidiani d’oltralpe sono parsi perfino imbarazzati quando si sono ritrovati a fare dell’ironia sulla vicenda.
E così siamo giunti al top dei top, l'altro giorno, quando un signor B. impettito come non mai ha realizzato il suo vero capolavoro, firmando a Roma con il presidente francese Nicolas Sarkozy un accordo che prevede, in collaborazione con la Francia, la realizzazione sul suolo italiano di 4 centrali nucleari che utilizzeranno la tecnologia francese. Una vera manna per la Francia, unico Paese al mondo a dipendere quasi totalmente (circa l'ottanta per cento) dal nucleare, per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, ed ha necessità di esportare e capitalizzare i propri investimenti nell’atomo. Una vera iattura per l’Italia che, dopo il referendum del 1987, era riuscita a liberarsi di una tecnologia pericolosa ed antieconomica che buona parte dei Paesi nel mondo stanno abbandonando. Dopo più di 20 anni dallo smantellamento delle vecchie centrali nucleari italiane (completato per altro solamente nella misura del 10%), il governo presieduto dal Pifferaio di Arcore non ha la benché minima idea di dove stipare la grande quantità di scorie nucleari (compresa la sua) prodotte nel breve arco di tempo durante il quale le centrali sono state in attività. Ma ha il tempo per firmare accordi vergognosi e ridicoli al tempo stesso. Proprio come farebbe un Caligola del terzo millennio...

domenica 22 febbraio 2009

ce la farà il signor Nessuno?


La stampa del caimano, nei giorni scorsi, ha coniato un nuovo termine per presentare quello che poteva essere (e che poi effettivamente è stato) il successore di Walter Veltroni alla guida del Partito Democratico: il signor Nessuno. Non credo proprio che sia un vestito cucito su misura per Dario Franceschini questo presentato e sponsorizzato dall'armata mediatica berlusconiana, sempre pronta (vigliaccamente) a sparare in anticipo l'artiglieria pesante contro il nemico diabolicamente evocato dal Pifferaio di Arcore. Dario Franceschini è l'unico compagno (di lavoro) a cui Walter Veltroni ha dato una pubblica patente di lealtà, in polemica con tutti gli altri (dalemiani in primis). Il nuovo segretario reggente è un ex Margherita, un ex Ppi, amico stretto di Giuseppe Fioroni. Mentre pronunciava il suo discorso da candidato, quello con cui in teoria doveva cercarsi i voti per farsi eleggere alla segreteria, nella sala circolava una voce: Franceschini segretario, Fassino all'organizzazione, Finocchiaro alla presidenza del PD. Insomma, Dario si butta a sinistra, si riavvicina agli ex DS, si svincola dalla morsa dei cattolici. Si smarca dal veltronismo, si assume la responsabilità degli errori, ammettendoli: "Sono stato descritto come un debole, un dilettante, un signor Nessuno; così mi hanno consigliato di fare un discorso ricco di calore, in grado di portare l'Assemblea all'emotività. Ma questo non è il momento delle emozioni: è il momento della verità. Dobbiamo capire i nostri errori ed avere l'orgoglio delle cose belle". Il vice di Veltroni che predica la discontinuità è un ossimoro compiutamente veltroniano. Azzera gli organi dirigenti, abolisce il governo ombra, e cioè quello che Veltroni aveva considerato il fiore all'occhiello della sua opposizione al caimano, ma non spende una parola per spiegarne le ragioni. Come veltroniano dà l'annuncio che oggi trascinerà il suo anziano padre di 87 anni (ex partigiano) a Ferrara, "terra di antifascismo", di fronte a una lapide in un posto dove furono trucidati nel 1943 tredici cittadini, e in una piccola cerimonia (a favore di telecamere) da segretario giurerà fedeltà alla Costituzione. Così anche il discorso pronunciato alla Fiera di Roma contiene qualche apertura che, da una platea eterogenea come quella riunita ieri, può essere giudicata di sinistra, essendo invece solo un pò più compiutamente democratica. Sulla laicità dello Stato Franceschini dice: "Ho sempre sostenuto il diritto della Chiesa di far sentire la sua voce, ma non bisogna mai dimenticare che è inviolabile il principio sacro della laicità dello Stato". Applausi a scena aperta. Applaudono anche i dalemiani. Lo storico Roberto Gualtieri si gira verso il vicino e gli sibila: "Ecco qua, è la dimostrazione che la Democrazia Cristiana sapeva tenere meglio le distanze con il Vaticano". Poi tocca il delicato tasto dei temi etici. Temi "straordinariamente nuovi che bisogna cercare di affrontare nel lavoro comune. In silenzio, sul testamento biologico, abbiamo trovato un accordo su dodici punti e un solo punto è rimasto aperto: quello sull'alimentazione. Ma è pensabile, come sostiene l'attuale governo, che l'idratazione e l'alimentazione vadano garantiti anche contro la volontà della persona?". Applausi scroscianti. Insomma, Franceschini resta nel solco del veltronismo, ma spinge un po' più in avanti l'asticella. Incassando il sì di tutto il gruppo dirigente, dalemiani compresi. E così partendo per il compito ingrato di portare il partito a una probabile nuova tornata di sconfitte, alle europee e alle amministrative di giugno. Un salto al buio nel cerchio di fuoco. Con molteplici ed evidenti possibilità di bruciarsi.

sabato 21 febbraio 2009

l'ora delle scelte (giudiziose) è arrivata


Mentre mi accingo a scrivere queste poche righe di riflessioni (amare) e di valutazioni (speranzose) sul prossimo futuro del Partito Democratico e sulla sinistra in genere, ecco che mi giungono i flash d'agenzia sulla probabilissima elezione a nuovo segretario del partito di Dario Franceschini, amico fraterno e delfino fedele e giudizioso (almeno spero) dell'ex leader Walter Veltroni. L'ora delle scelte, come recita il titolo di questo post, è arrivata. Non ci si può fermare, non si può indugiare nè delegare ad altri tempi e modi d'azione. La Storia non aspetta e nemmeno la base del movimento di sinistra e dei giovani sapientemente illustrati da un intervento di Rossaura sull'altro mio blog. Riflettendoci bene, la recente crisi del Partito Democratico non è soltanto la vicenda di una parte politica. Le conseguenze di queste difficoltà si riverberano infatti sulla democrazia italiana nel suo complesso, che è stata costruita dai nostri Padri costituenti come una democrazia dei partiti: soggetti costituzionali che, ai sensi dell’art 49 della Costituzione, sono lo strumento attraverso il quale i cittadini possono concorrere con metodo democratico (democratico c'è scritto, caro cavaliere!) a determinare la politica nazionale. E che si proiettano entro le stesse istituzioni, come ci mostra l’articolazione delle Camere in gruppi parlamentari, anch’essi costituzionalmente riconosciuti (art.82). Ma non si tratta della crisi profonda di un partito politico qualsiasi, anzi, di un partito quasi sperimentale, come altre volte è accaduto nella storia italiana. Il Partito Democratico costituisce, da un lato, il più serio tentativo (nell’Italia post ‘89) di preservare la forma partito come veicolo principale della rappresentanza politica, rinnovandola senza cedere né alla deriva lideristica né a quella movimentista. Poi, è il principale partito di opposizione. Con un suo preciso ruolo costituzionale, sia pure non formalmente riconosciuto in norme scritte. Senza una opposizione forte e credibile, il compito di limitare lo strapotere delle maggioranze politiche ricade per intero sugli organi di garanzia (Presidente della Repubblica e giudici) con le conseguenze che stanno sotto i nostri occhi. È pertanto necessario che la classe dirigente del Partito Democratico sia, almeno in questo cruciale momento, consapevole delle conseguenze delle sue azioni e all’altezza delle sue responsabilità, cogliendo le istanze di rinnovamento che, con lo strumento di cui dispone, il voto, il suo elettorato va disperatamente sollevando. E' chiaro il messaggio? Spero di sì...

giovedì 19 febbraio 2009

la doppia (immeritata) vittoria del caimano


Ci sono date che rimangono impresse, sia in senso positivo che negativo. Alla seconda categoria appartiene la data del 17 febbraio 2009 (e per gli scaramantici il 17 è già di per sè negativo), giorno nefasto per la politica e per la giustizia. Il 17 febbraio del 2009 passerà (purtroppo) alla storia come il giorno in cui il signor B. vinse due volte. Il caimano, infatti, ha stravinto in Sardegna grazie alla sua ben nota capacità di combinare populismo e interessi economici (nel caso della Sardegna i suoi principali alleati sono stati quei costruttori che trasformeranno l'isola in una colata di cemento); ma ha vinto anche sul terreno politico-giudiziario, riuscendo a evitare una condanna per corruzione in atti giudiziari grazie a una legge che va sotto il nome di lodo Alfano. Il cosiddetto lodo, che dovrebbe tutelare le alte cariche dello Stato, è stato controfirmato dal presidente della Repubblica e congegnato con tempestività dal Pifferaio di Arcore per evitare la spada di Damocle del caso Mills. Questa la gravità dell'accaduto. Ora, il lodo Alfano deve ancora essere sottoposto al vaglio della Corte costituzionale ma intanto è riuscito a evitare che un presidente del consiglio fosse condannato, sia pure in primo grado, per un reato gravissimo, indegno di qualsiasi uomo politico in un sistema democratico. Mi preme fornire alcune chiavi di lettura del processo che si è concluso l'altro ieri con la condanna a 4 anni e 6 mesi per l'avvocato inglese David Mills, l'uomo che costruì l'impero off shore del gruppo Fininvest e che disse davanti ai Pm, prima di ritrattare: "Berlusconi, a titolo di riconoscenza per il modo in cui ero riuscito a proteggerlo nel corso delle indagini giudiziarie e dei processi, aveva deciso di destinare a mio favore una somma di denaro". In un Paese civile basterebbe questa frase per indurre un capo di governo a dimettersi immediatamente. Nel sistema berlusconiano, invece, le leggi ad personam (ovvero il conflitto d'interessi che si traduce poi in ogni campo, da quello giudiziario a quello politico ed economico, nella combinazione minuziosa di interessi pubblici e privati) è diventato un sistema di governo, un modello politico e culturale. Non c'era nulla di casuale nel comportamento assunto dal presidente del Consiglio dei ministri nella fase successiva alla vittoria elettorale: quando il signor B., nell'aprile del 2008, ha portato a casa la maggioranza del Parlamento ha capito subito che da Milano sarebbe potuto arrivare un verdetto assai insidioso e così, con una spregiudicatezza senza precedenti, ha mandato all'aria le illusioni veltroniane di un confronto civile tra maggioranza e opposizione e ha paralizzato il Parlamento per dar vita al lodo Alfano. Lo scaltro leader del PdL sapeva, ben consigliato dai suoi legali, che nel processo Mills c'erano tutti gli elementi per una condanna pesante e così, applicando il suo sistema di governo, ha fatto leva sui suoi poteri pubblici per difendere i suoi interessi privati. Non basta. Gli uomini del caimano hanno pensato a tutto. Gli osservatori più attenti ci ricordano infatti che nella riforma della giustizia che dovrebbe essere approvata dal Parlamento c'è una chicca: gli atti del processo Mills non potranno essere acquisiti in un eventuale processo al signor B., qualora in un prossimo futuro il Pifferaio di Arcore non fosse più coperto dallo scudo del lodo Alfano. In tanta amarezza politica resta l'ironia della sorte: nel dispositivo di condanna si prevede che l'avvocato Mills risarcisca la presidenza del consiglio italiano. Un caimano più vincente di così non si poteva. Purtroppo per l'Italia.

martedì 17 febbraio 2009

Matteo chi?


Con l'azzeccatissimo slogan "Facce nuove a Palazzo Vecchio" il giovane Matteo Renzi (http://www.matteorenzi.it/) ha stravinto le primarie per la corsa alla poltrona di primo cittadino di Firenze del prossimo giugno. Matteo ha condito la sua vittoria alle primarie di Firenze con dichiarazioni all'insegna della prudenza, dei richiami all'unità e del guardare avanti. È grosso modo quanto ci si aspetta da un bravo sindaco, che non deve cavalcare onde emotive, ma come primo compito ha quello di tenere unita una comunità di persone. Per chi prende sul serio il valore della partecipazione e della reale apertura della politica, la vittoria di Matteo Renzi sembra una cosa la cui portata difficilmente risulta essere sopravvalutata. Matteo Renzi è un politico non inquadrabile in vecchi schemi anche per via della sua età non propriamente anziana. Il suo background fa riferimento alla Margherita e la sua vittoria, in una delle città più rosse d'Italia, è una lezione di politica formidabile per chi passa le sue giornate a lamentarsi dell'influenza degli ex DS o a cercare di scatenare le lotte intestine nel PD, a far filtrare dai bassifondi del gossip politico minacce di scissione. "Partecipazione" non significa "improvvisazione", recita il secondo slogan fatto proprio dal giovane Matteo, coraggioso ma non ingenuo. Al contrario dei tanti Savonarola di cui la nostra nazione si nutre per garantire eterne permanenze, Matteo Renzi ha convinto anche per la sobrietà delle dichiarazioni del giorno dopo, per il professionismo della sua politica. È anche la prima persona della generazione dei trentenni che riesce a raggiungere un risultato significativo in patria, senza l'investitura collettiva delle generazioni precedenti. Lo ha fatto con una buona dose di coraggio, come è apparso evidente dalla sua intervista televisiva a Daria Bignardi (http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=invasioni&video=20245) nella quale raccontava, con una sfrontatezza di cui si sentiva il bisogno, della prepotenza ottusa di chi suggerisce ai più giovani di mettersi in fila. In quella stessa intervista prese anche una cantonata a proposito dei diritti delle coppie omosessuali, corretta subito dopo quando ha affermato che la sua posizione in merito è la stessa del presidente Obama. Con la vittoria di Renzi si è aperta una piccola falla nel sistema, una falla per vedere la quale in molti ci siamo adoperati, convinti che aprire la politica ai contemporanei, anche a costo di qualche rottura col passato, possa solo far bene ad un Paese che sta morendo di asfissia per paura del futuro. Il vecchio gruppo dirigente si sperticherà ora nelle lodi per il rinnovamento finalmente conquistato, ma cercherà subito dopo di tappare la falla. Sta anche a tutti gli altri prendere esempio e fare in modo che non vi riesca.

domenica 15 febbraio 2009

30 denari per Clemente "Iscariota" Mastella


E così il "debito" politico e umano è stato ampiamente saldato. Clemente "Iscariota" Mastella ha ricevuto ieri i suoi 30 denari di ricompensa per aver decapitato, in quella mattina del 16 gennaio 2008 nell'aula di Montecitorio, con la mannaia delle sue dimissioni da ministro della Giustizia il governo di Romano Prodi all'epoca in carica. La ricompensa dei 30 denari l'Iscariota li ha prontamente convertiti allo sportello interno della Banca della Vergogna: quella gestita dagli uomini di fiducia del Pifferaio di Arcore che l'hanno accolto con sorrisi e pacche sulle spalle nella loro losca congrega di malfattori, regalandogli il pass per le prossime Europee. Il Ceppalonico traditore ieri ha dato del "farabutto" a chi pensa che sia stato pagato il debito nei suoi confronti per la caduta del governo Prodi (quindi dà del farabutto anche a me e io lo ringrazio per il gentil pensiero...) o a chi, comunque, pensa male di questo accordo per le Europee (http://www.libero-news.it/adnkronos/view/58567); ma, come dice il buon vecchio Divo Giulio, a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca. L'altra notte, debbo confessarlo, ho avuto un sogno premonitore: quasi come un incubo stile Dario Argento ho visto Clemente "Iscariota" Mastella avvicinarsi a me con una lama di coltello piantata all'altezza del cuore, con un fiotto di sangue che usciva dalla sua bocca e con la mano che cercava disperatamente di togliersi la lama dal petto. Lo sentivo rantolare e invocare flebilmente il nome di un certo Giglio o Silvio o Milvio, non ho capito bene. E mentre cercavo di capire meglio il trillo della sveglia mi ha riportato fortunatamente alla realtà. Che brutta sensazione vedere il ras di Ceppaloni in quelle condizioni da film horror. Ma adesso, udite udite, lui è tornato tra di noi: sarà candidato alle elezioni europee nel PdL e, grazie alla legge elettorale che il nostro bel Parlamento si appresta a varare, il Ceppalonico avrà il seggio assicurato a Bruxelles. Già vi sento borbottare. Ma non provate a pensare che il Pifferaio di Arcore stia restituendo il favore al nostro eroe, perchè facendo così vi comportereste da farabutti. Invece dovreste festeggiare e giubilare per le strade perché con il ritorno di Mastella "si riaprirà una rinnovata stagione politica". Che bello sapere che tornerà a rappresentarci all'estero. Che uomo di classe! Che poliglotta! In fondo non è forse vero che tutto il mondo ce lo invidia?

giovedì 12 febbraio 2009

brandelli di libertà


La morte di Eluana ha lasciato una ferita ancora aperta nell'anima e nel cuore di chi vi scrive. Non voglio ritornarci su, non voglio fare commenti e riflessioni del giorno dopo. Ne avrete abbastanza anche voi lettori. Voglio però attirare la vostra attenzione sul gioco, maledettamente cinico e sporco, ideato e condotto dal Pifferaio di Arcore prendendo un vomitevole spunto dal caso Englaro. Ed è presto detto com'è stato portato avanti questo macabro «gioco» del centrodestra: l'abuso di un corpo umano per fare a brandelli un corpo istituzionale, la Costituzione. Mai prima d'ora il potere era arrivato ad un uso così sfrontato della vita e della morte di un individuo per farne terreno di un nuovo paradigma politico. In un laido e abominevole populismo, che violenta i sentimenti e i dolori più intimi. E' un tentativo esplicito di risolvere la crisi della rappresentanza fuoriuscendo dalla democrazia: i voleri delle gerarchie vaticane diventano la sola indicazione etica che i poteri dell'esecutivo si incaricano di rendere assoluti, distruggendo quella laicità dello Stato che non cancella le libertà religiose (lo spiega bene Stefano Rodotà nel suo libro appena uscito, «Perché laico»), ma offre a tutti i cittadini un comune terreno di confronto. La democrazia, appunto. Il Pifferaio di Arcore ha dimostrato in questi anni di essere un maestro nel saper volgere a suo favore ogni «crisi». Coglie il collasso economico e sociale e il «vuoto» politico per insinuare il suo «pieno» cercando di dare il colpo definitivo agli equilibri istituzionali. Lo spingono calcoli di bassa cucina: l'ambizione quirinalizia, la conquista delle formazioni cattoliche, l'accanimento terapeutico sul collassante PD e sul collassato Veltroni. Ma più in profondità lo ispira un disegno autoritario intimamente connesso con la propria storia e natura. Ed è questo il vero «conflitto d'interessi» che stiamo subendo da quando il caimano, da «semplice» imprenditore, è diventato anche leader politico e premier. L'autorità mercantile che si fa rappresentante dell'interesse generale per ridurlo a interesse privato, la parte che diventa il tutto. E che si abbatte su una società e su un Paese i cui anticorpi sono stati progressivamente indeboliti: dall'affermarsi del privato come «bene comune», fino al tentativo di appropriarsi dei destini di un corpo di donna, pretendendo che sia il soggetto da lei più lontano (un governo, una gerarchia ecclesiastica) a decidere in suo nome. Un dramma che rischia di riapparire nel testo di legge sul testamento biologico, diventando così un paradigma generale, un disegno politico. Non sarà una debole e divisa opposizione parlamentare a impedire questo scempio. L'unica figura pubblica che ha lanciato un messaggio di resistenza (parlando di storia patria) è stato il presidente della Repubblica. Non a caso, il custode della Costituzione, il vero obiettivo finale. Perché l'affondo politico apertosi attorno al corpo di Eluana proseguirà. Sapremo presto se i valori e gli orientamenti contenuti nella prima parte della nostra Carta costituzionale continueranno ad essere una base di comune libertà o se dovranno diventare un progetto da riconquistare. Come sapremo dallo sciopero di domani, contro l'uso mercantile e nazionalpopulista che il governo vuol fare della crisi economica, quali potranno essere i confini sociali e politici di un'inversione di tendenza. Sono settimane cruciali, queste. Per sapere meglio in che Italia viviamo e quali speranze potremo coltivare per il nostro futuro. Aggrappandoci agli ultimi brandelli di libertà.

domenica 8 febbraio 2009

un sentore (nauseante) di fascismo


Non so voi, ma chi vi scrive sente nell'aria un nauseabondo sentore di strisciante fascismo. Lo dico, con un pò di timore, perchè se non ricordo male il culto delle feste in costume porta quasi inevitabilmente al fascismo. Lo scriveva il filosofo tedesco Theodor Adorno nelle sue riflessioni in Minima moralia: un perfetto aforisma per illustrare l'approdo fascistoide del folclore padano e con esso dell'Italia berlusconiana. Approdo perfettamente incarnato da uno degli artefici più entusiasti del recente decreto sicurezza: quel senatore Federico Bricolo (giovane figlioccio prediletto dell'ex Guardasigilli Roberto Castelli) che alterna gli interventi in aula in dialetto veneto con l'esaltazione di Mussolini, le vecchie battute da osteria su questioni serie come i matrimoni misti («Moglie e buoi dei paesi tuoi») con la trovata della norma che invita il personale sanitario alla delazione contro i «clandestini», ovvero gli ebrei di oggi. Un certo Fabrizio Cicchitto trova che evocare gli anni '30 sia come fare dell'umorismo involontario. Solo un poveretto ignaro della storia, dimentico della democrazia e della civiltà giuridica, nonché privo del senso del tragico, può non cogliere che in effetti vi è qualche vaga analogia. C'è un sentore di fascismo (non più solo il consueto razzismo trasandato all'italiana) nelle norme-manifesto approvate l'altro giorno dal Senato. Al di là del loro contenuto, pur grave, l'intento è anzitutto quello d'imbarbarire ancor di più il clima del Paese, additando l'immigrato come capro espiatorio, imprimendogli lo stigma del reietto, per renderlo più docile e sfruttabile come forza lavoro, legittimando il sospetto, la discriminazione e la delazione come normali comportamenti di massa. Eventi come la sollecitazione, di fatto, al personale sanitario perché denunci l'irregolare che accede alle cure o la legalizzazione delle ronde padane quantunque non armate o anche il reato d'immigrazione clandestina non sono forse sintomi di velato (neanche poi tanto) razzismo filofascista? E che dire poi della gabella fino a 200 euro per il permesso di soggiorno o del carcere fino a quattro anni per gli irregolari che non rispettano l'ordine di espulsione? E il rafforzamento e l'estensione della possibilità di sottrarre la potestà genitoriale? E il divieto d'iscrizione anagrafica e la schedatura non solo dei clochard ma anche di un buon numero di disperati cittadini (italiani, rom, sinti e non solo) che, abitando in dimore diverse da appartamenti, saranno "catalogati" in un registro del ministero dell'Interno, come lo vogliamo chiamare? Tutto questo, a mio modo di vedere, configura un intento persecutorio verso migranti e minoranze dettato, più che da razionalità politica, da un meschino calcolo economico e demagogico, connesso con quelle forme di psicosi di gruppo (fobia, ossessione, mitomania) che spesso contraddistinguono le élite politiche populiste e autoritarie. C'è un sentore di fascismo nell'incoraggiamento alla delazione, ora sancito per legge, estendendo così sul piano nazionale ciò che da tempo è norma e prassi soprattutto nelle Repubbliche delle Banane governate dalla Lega Nord. Per esempio in quel di Turate (provincia di Como), monocolore leghista dove si invita, ufficialmente e apertamente, i cittadini alla denuncia, anche anonima, degli stranieri irregolari. A onor del vero, un bell'esperimento di delazione anonima di massa è anche l'accordo siglato a Torino fra il Comune e la rete delle farmacie, presso le quali dal 1° ottobre scorso si raccoglievano (forse si raccolgono ancora) informazioni su rom, poveri, homeless, mendicanti, posteggiatori abusivi. A dimostrazione che, davvero, la cultura sicuritaria e razzista egemone nel Paese è trasversale agli schieramenti politici come alla società detta «civile» per esagerare. La pratica delle squadre speciali e della delazione, anonima e non, sono, come si sa, strumenti insostituibili di ogni regime dittatoriale. Suvvia, non parliamo di nazismo, dice quel tal Cicchitto. Va bene. Ma certo, se non ci si lascia ingannare da ciò che permane dell'involucro democratico, alcuni elementi che connotano lo stato del Paese appaiono allarmanti. Preoccupante è la saldatura, ormai anche «sentimentale», che lega il discorso e l'operato di istituzioni centrali e locali con il senso comune più diffuso o almeno reputato più degno di esprimersi: attraverso la delazione e le azioni squadristiche. Insomma, la connessione fra il razzismo di stato e quello popolare, fra la persecuzione e il pogrom, ma anche, benché più sottilmente, fra la cultura politica della destra e quella di buona parte dell'opposizione parlamentare non fanno presagire niente di buono. Chi si è trastullato con retoriche e misure sicuritarie nel corso della passata legislatura ha evocato mostri che oggi minacciano non solo di rendere l'Italia un paese strutturalmente razzista ma anche di divorarne la democrazia. Lo sfaldamento del tessuto sociale, un ceto politico da operetta, la volgarità imperante nei mezzi di comunicazione, il degrado profondo della società civile, l'avanzare (insieme alla crisi economica) di quella forma di incertezza e di disgregazione morali, oltre che sociali, che accende il desiderio di capi carismatici ci fanno dire che forse non siamo ancora tornati indietro al Ventennio delle camicie nere ma di sicuro siamo sull'orlo di un precipizio. Spetta alle minoranze, malgrado tutto disseminate nella società italiana, tentare di agire perché si faccia quel passo indietro che impedisca di precipitare nel baratro. Spero che questo invito venga raccolto.

sabato 7 febbraio 2009

la grande paura & la violenza globale


Ci sono elementi di continuità e di allarmante emotività sociale tra gli ultimi episodi di violenza e di xenofobia avvenuti nel nostro Paese. Ma in definitiva, cosa lega la crisi economica che si è abbattuta sul villaggio globale e le manifestazioni xenofobiche degli ultimi giorni? Un filo diretto e invisibile accomuna il gesto incomprensibile di tre ragazzi che per provare una forte emozione danno fuoco ad un indiano nella stazione di Nettuno e gli scioperi selvaggi che imperversano in Inghilterra contro i lavoratori stranieri. E questo legame, paradossalmente, lo ritroviamo anche nelle stanze del potere della nuova amministrazione americana, che propone un programma di salvataggio economico condizionato all’acquisto di prodotti «esclusivamente» americani. Tendenze protezionistiche minano il WTO: gli accordi faticosamente stipulati dall’organizzazione mondiale del commercio sembrano ormai carta straccia, anche i fondamenti dell’Unione Europea sono messi a durissima prova dagli scioperi in Gran Bretagna. A Davos, tempio sacro della globalizzazione, Russia e Cina accusano apertamente l’America di non saper «guidare il mondo». Alla base di queste reazioni, che soltanto sei mesi fa sarebbero state reputate assurde, c’è la paura. La paura della disoccupazione spinge un sindacato laburista a schierarsi con la destra nazionalista e antieuropea britannica e la paura che l’America precipiti nella seconda Grande depressione convince il primo presidente afro-americano a proporre riforme di segno protezionistico. E infine la paura, non la noia o la droga, motiva i giovani italiani a commettere un crimine da Arancia Meccanica. Il mondo globalizzato è un pianeta che spaventa, popolato da gente terrorizzata dal diverso e dalla diversità. Ce ne stiamo accorgendo solo adesso che la recessione ci accomuna nella disgrazia, ma da vent’anni chi vive ai margini del villaggio globale (dove il processo di omogeneizzazione non ha portato pace e prosperità ma il proliferarsi delle guerre o il dilagare della povertà) convive con questa paura. Molti, specialmente i giovani, si sono protetti ricreando la struttura tribalista dei branchi. Dalle Maras centro americane alle gang britanniche, dalle bande di adolescenti nigeriane fino alle cellule jihadiste, il branco è la risposta ai timori ed alla minaccia della globalizzazione. E la matrice comune del nuovo tribalismo è, naturalmente, la violenza. Le bande oggi come ieri combattono la paura con la violenza, e la violenza è ormai diventata uno stile di vita. In un documentario britannico, Gang Wars, il leader di una banda londinese, Taba, sostiene che la violenza «durerà per sempre, perché è la gente a essere violenta». La violenza simboleggia anche l’onore e l’orgoglio, l’identità del singolo e il metro per decidere l’appartenenza o il rifiuto di entrare in una banda. Per essere ammessi nelle moderne tribù è necessario superare un duro rito di passaggio. Gli aspiranti mareros si sottopongono a una complessa e dolorosa prova, che ricorda quelle imposte dalle sette sataniche medievali. Devono uccidere un membro di una banda rivale o assistere a un’esecuzione. «La prima volta che ho visto una decapitazione avevo dieci anni. Per un mese intero sognai il morto che veniva verso di me con la testa tra le mani. Poi, con il tempo, ci si abitua agli omicidi e quando capita che un tuo amico uccida uno di un’altra banda sei contento, anzi lo tormenti pure mentre sta morendo. Ti diverti». Racconta Necio un ventenne membro di Mara Salvatrucia, una banda di El Salvador. La violenza è dunque anche sinonimo di divertimento, ed il comportamento dei tre delinquenti italiani ne è la riprova. La paura del diverso serpeggia da anni anche nel villaggio globale, la ritroviamo nel lessico della guerra contro il terrorismo. La politica della paura del presidente Bush ce lo ripropone, anzi lo catapulta nell’arena politica internazionale. Pensate al suo famoso discorso all’indomani dell’11 settembre. Bush divise il mondo in due gruppi: «chi è con noi e chi è contro di noi». Una frase che secondo il Guardian è la più cruda espressione della politica tribale mai concepita. Come possiamo definire loro e noi se, ad esempio, gli attentatori suicidi di Londra erano cittadini britannici? La nazionalità, il vecchio nazionalismo quindi, non è più l’unica causa determinante né una categoria valida. Il tribalismo sembra adattarsi meglio al nuovo scenario. Anche senza volerlo noi finiamo per assimilare il lessico tribale e quando ci sentiamo minacciati, a reagire sono i nostri istinti tribali. Cosi chi sciopera in Gran Bretagna contro i lavoratori italiani e portoghesi dichiara apertamente che sciopererebbe anche se questi fossero inglesi o gallesi, lo sciopero mira infatti a proteggere la forza lavoro locale. E la solidarietà manifestata da altri lavoratori nel territorio di Sua Maestà ha gli stessi obbiettivi: proteggere il proprio orticello. Il pericolo è quindi che anche il tessuto nazionale delle organizzazioni sindacali, già seriamente indebolito dal governo Thatcher, si sgretoli completamente. Sono scenari, questi, agghiaccianti, che ci devono far riflettere sull’involuzione in atto in un pianeta in preda alla recessione. Poco meno di un secolo fa, il crollo di Wall Street fece precipitare il mondo nella Grande depressione, preludio della follia nazista che sfociò nella seconda guerra mondiale. Anche allora a guidare l’ascesa del nazismo sulle ceneri della repubblica di Weimar fu la paura del diverso, uomini donne e bambini con in petto una stella di Davide gialla. Anche a casa nostra c’erano i diversi, appartenevano al movimento operaio perseguitato dalle camicie nere. La simbologia cambia ma la sostanza resta: la paura è un grandissimo strumento di manipolazione collettiva, e quindi è solo questo che dobbiamo temere. Perché domani i diversi potremmo essere proprio noi.

domenica 1 febbraio 2009

xenofobia (lavorativa) made in England


Nell'era tecnologica e mass mediale, nell'epopea del mercato comune europeo sia lavorativo che monetario, la notizia che proviene dalla terra di Albione mi fa proprio inorridire. L'estremizzazione xenofoba-lavorativa degli operai inglesi contro i poveri italians, chiamati a prestare la loro opera sotto il cielo plumbeo anglosassone, provoca in chi sta scrivendo una sorta di repulsione automatica per tutto ciò che è identificabile nel made in England, dalle autovetture di lusso al cachemire di ottima fattura, passando per le scarpe finemente cucite a mano. «Sporchi immigrati. Tornate a casa vostra. Togliete lavoro a gente di qui che ne ha bisogno». Non siamo a Gela, e gli «sporchi immigrati» che rubano il lavoro agli operai indigeni non sono «bassa manovalanza» tunisina o rumena. Siamo al porto di Grimsby, nel Lincolnshire, e i lavoratori contestati sono italiani. Siciliani per la precisione. Gli operai in lotta che sfilano in corteo in molti porti inglesi contro gli «stranieri» lanciano un'accusa non priva di fondamento: le ditte italiane non rispettano le norme di sicurezza. Poi dicono un'altra cosa, probabilmente falsa, comunque preoccupante: gli italiani fanno errori sul lavoro. Insomma, siamo in pieno dumping sociale? Tutto è iniziato con un'asta lanciata dalla raffineria francese della Total e vinta da una ditta di Siracusa, la Irem, che si porta in Gran Bretagna centinaia di operai italiani, e portoghesi. Questa volta l'esercito del lavoro di riserva siamo noi, gli italiani. E il prode presidente della Sicilia, Lombardo, urla non più contro i migranti nordafricani ma contro «la perfida Albione» e a sua volta minaccia: visto «l'odio xenofobo contro i siciliani» romperemo le trattative con l'inglese Erg-Shell che dovrebbe realizzare un rigassificatore a Priolo, nella stessa provincia di Siracusa che è la patria della Irem, contestata in Gran Bretagna insieme ai suoi operai «stranieri». Quando la crisi economica precipita, brucia posti di lavoro e determina l'emergenza sociale, contraddizioni come questa esplodono ovunque, ingigantite dalle politiche statali protezioniste. Ognuno difende i suoi prodotti. E i suoi operai, che per essere più competitivi devono costare di meno, in salari e diritti. Dal nord degli Usa le lavorazioni non si spostano più oltre il muro della vergogna che spacca in due l'America ma nel sud degli States, dove salari e diritti sono competitivi con quelli delle maquilladoras messicane. Obama dice che l'acciaio usato nel suo Paese dev'essere prodotto nel suo Paese. Sarkozy darà i soldi a Peugeot e Renault solo se non delocalizzerano il lavoro all'estero per difendere quello degli operai francesi. Fa eccezione Berlusconi: che tanto è ottimista di natura, per default. Qualche crisi fa, quando i giapponesi invasero il mercato Usa dell'auto, fece parlare di sè un concessionario californiano della General Motors che aveva messo a disposizione del pubblico una Toyota rossa fiammante e chiedeva 10 dollari per ogni martellata. C'era la fila davanti al suo autosalone. L'illusione di difendersi contrapponendo tra loro gli Stati si traduce a livello sociale in una suicida guerra tra poveri: il conflitto tra capitale e lavoro rischia di precipitare in un conflitto tra lavoratori. L'Europa a 27 si dimostra lontana mille miglia da qualcosa che assomigli a un'entità politica, e ogni Paese dà risposte individuali. E i sindacati, rispetto alla globalizzazione capitalistica, sono, se non nudi, inadeguati. Non è contro i processi di internazionalizzazione che si possono alzare le barricate, ma in difesa (e per l'estensione) dei diritti dei lavoratori, a partire dal diritto al lavoro. E' facile a dirsi, terribilmente difficile da realizzare. Ma è l'unica strada possibile.