l'Antipatico

mercoledì 31 dicembre 2008

Buon Anno a tutti!


A poche ore dalla fine di questo brutto 2008, auguro di cuore a tutti i lettori di questo blog un sereno, spensierato e felice anno nuovo. Spero veramente che sia migliore per tutti. AUGURI!!!

le inutili guerre tra Procure & le riforme costituzionali


Questo anno funesto e bisesto si chiude con l'eco ancora presente e preponderante della guerra tra Procure, delle ripicche tra magistrati, tra pubblici ministeri, in un parossistico tutti contro tutti. Non manca di certo la benzina gettata sul fuoco dal pifferaio di Arcore per completare l'idilliaco quadro. E come se non bastasse, le note vicende giudiziarie che hanno colpito e irritato anche il PD stanno rafforzando la determinazione della destra di scardinare il sistema di autogoverno della magistratura. Per attuare i suoi noti progetti Berlusconi può agire solo con modifiche costituzionali ed è quindi inutile attardarsi a sognare una riforma con leggi ordinarie, mentre si dovrebbe pensare a cosa proporre per modificare un sistema che scricchiola palesemente. Di norma non si dovrebbe mettere in discussione l'indipendenza della magistratura e l'obbligatorietà dell'azione penale, inscindibilmente funzionali al principio fondamentale dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Ma se qualche riforma costituzionale si imporrà, essa dovrà servire a rafforzare, e non a demolire, il sistema dell'autogoverno. I comportamenti abnormi di alcuni protagonisti delle irrituali guerre tra Procure, per esempio, sono un'ennesima dimostrazione di come, a fronte delle garanzie costituzionali della indipendenza esterna della magistratura dagli altri poteri dello Stato, non vi siano garanzie che tutelino con effettività anche l'indipendenza «interna» dei magistrati dal loro stesso sistema di autogoverno e ciò, in particolare, per quanto attiene ad una maggior trasparenza nella verifica della professionalità per la progressione in carriera e nell'assegnazione degli incarichi direttivi. Non mancano problemi anche nell'applicazione concreta delle sanzioni disciplinari. La carente difesa della indipendenza interna viene, ormai da anni, imputata al sistema correntizio che, da strumento di partecipazione democratica alla gestione dell'autogoverno, sembra essersi convertito in strumento di tutela del potere delle correnti stesse. Essa incide innanzitutto sulla verifica della professionalità. Il meccanismo realizzato con la riforma del governo Prodi poteva essere abbastanza trasparente, ma sembra che (tuttora) i magistrati scrutinati continuino ad essere tutti bravi e degni di promozione. C'è, quindi, bisogno di una verifica ulteriore e, per scoraggiare eventuali cattive pratiche, si potrebbe pensare ad una commissione del CSM integrata da due giuristi scelti dal presidente della Repubblica per un esame a campione delle valutazioni e per proposte di modifica nel caso di cattivo funzionamento del metodo attuale. Altro punto dolente è quello della nomina dei capi degli uffici direttivi. Essendovi troppi pretendenti, il meccanismo decisionale finisce per privilegiare più l'appartenenza correntizia che la capacità, con la fatale emarginazione dei «non protetti» e la nomina di dirigenti spesso palesemente inadeguati. I lunghi e imprevedibili tempi di copertura, poi, sono propedeutici per una spartizione cencelliana dei posti. La soluzione potrebbe essere quella di rendere perentori i tempi entro i quali i consigli giudiziari e le commissioni del CSM debbono emanare i provvedimenti necessari per l'assegnazione, tenendo conto della specifica professionalità del concorrente. Superati gli stessi, la proposta è deliberata dal comitato di presidenza, sentito il presidente della commissione, che procede di concerto con il ministro della giustizia e quindi è iscritta all'o.d.g. della prima seduta del Consiglio per la relativa deliberazione. Un meccanismo di ricerca della protezione opera anche per i procedimenti disciplinari. La «raccomandazione» che, nell'esercizio ordinario della giurisdizione, la stragrande maggioranza dei magistrati respinge, stranamente nel caso del giudizio disciplinare non solleva grandi problemi di coscienza. La sezione disciplinare è connaturata alla funzione di autogoverno del CSM, ma il suo funzionamento è pesantemente contestato dall'interno della magistratura «non protetta», e da molti settori della politica (nonostante una recente correzione di rotta verso una più puntuale repressione di comportamenti scorretti). E' certo che l'idea di una corte disciplinare esterna al CSM oggi avrebbe un grande consenso trasversale. Ciò, però, costituirebbe un duro colpo al sistema di autogoverno e, per tentare di salvarlo, andrebbero introdotte delle modifiche alla composizione della disciplinare con la integrazione, anche in questo caso, di alcuni membri esterni, nominati dal presidente della Repubblica, con caratteristiche di provata autorevolezza e imparzialità. Si dovrebbe, inoltre, introdurre la "dissenting opinion" che, in caso di ricorso in Cassazione, farebbe parte del fascicolo e scoraggerebbe maggiormente le prassi clientelari. Si potrebbe pensare anche ad uno specifico obbligo (sanzionato), per i componenti della disciplinare, di riferire prontamente alla presidenza del CSM ogni sollecitazione ricevuta e di darne pubblicità all'esterno. Sono proposte minime che potrebbero ovviare, almeno in parte, ai guasti attuali e, comunque, non sconvolgerebbero l'assetto costituzionale. In un Paese così ingessato dalle corporazioni a tutti i livelli, la magistratura non potrebbe essere percepita come una di esse. Una buona riforma, inoltre, servirebbe a rendere il suo operato condiviso dalla maggioranza dei cittadini e inattaccabile dalle strumentali critiche della destra che tende solo a piegarla ai suoi piani di comando senza controlli di legalità. Chissà che il 2009 non ci porti qualche bella novità in proposito...

lunedì 29 dicembre 2008

al limite della carità


A volte, scherzando con chi conosco da parecchio tempo, mi è capitato di fare la battuta (cretina, ma spontanea e giocosa) nel vedere l'abbigliamento trasandato di un mio amico: "Che fai, vai per carità?". Oggi, quella battuta non è più consentita. Lo spettro sempre più opprimente della crisi, della paura di perdere tutto, della povertà assoluta, sta prendendo piede con maggiore veemenza e preoccupazione in tutti noi. Chi ha trascorso il Natale mangiando e scherzando, di sicuro non ha pensato per un attimo a quei barboni, indigenti ed invisibili (per la stragrande maggioranza della società moderna), che si sono messi pazientemente in fila davanti alle mense della Caritas e delle altre organizzazioni umanitarie per ricevere in dono un pasto caldo. Novecento ospiti al pranzo di Natale e un piccolo regalo per ognuno. Ma l’attività della Comunità di Sant'Egidio a Roma, tra mense e distribuzione di coperte e pacchi alimentari, si spalma sugli altri 364 giorni dell’anno. Sono quelli fuori dai riflettori a offrire il termometro del nuovo disagio: «C’è un grande aumento della povertà" spiega don Matteo Zuppi. "Colpisce le fasce deboli, precari, anziani, immigrati. Chi non ha sostentamento né lavoro». A Sant’Egidio negli ultimi mesi si è vista una presenza più massiccia nelle mense e una quasi raddoppiata richiesta di sostegno alimentare. «Prepariamo pacchi con pasta, riso, olio. Quello che serve e che troviamo, per fortuna la solidarietà sopravvive alla crisi». Vanno via in un attimo, ed è già previsto un supplemento di iniziative. «Tutti dovremo affrontare la realtà». Don Matteo apprezza la proposta del cardinale Dionigi Tettamanzi di un «fondo famiglie-lavoro» con capitale iniziale di 1 milione. «Richiama a una posizione non da spettatori ma da attori. Fa emergere il dato e coinvolge tutti nella soluzione. La Chiesa per prima si è messa le mani in tasca ». Una supplenza rispetto allo Stato? «In parte, perché le soluzioni sono carenti e molto in ritardo. Ma lo Stato dovrà farsi carico dell’emergenza ed è bene che riceva questo stimolo». Don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, concorda: «Il gesto di Tettamanzi è nobile, speriamo si allarghi ad altre diocesi, a Confindustria, a chi ha da devolvere». Nei piccoli centri marchigiani, come nelle campagne, don Albanesi sperimenta «ogni giorno la calca per un sacchetto con un po’ di latte, pane, zucchero». Cento, duecento persone in fila per razioni che evocano il dopoguerra: «In zone non soggette a grandi povertà, e questo la dice lunga. Siamo ai livelli di sussistenza primaria». Ai margini finiscono gli stranieri: «I ricongiungimenti familiari hanno prodotto benessere relazionale ma anche un peso economico e sociale». Ma il fenomeno nuovo sono gli anziani che, pur proprietari della casa in cui vivono, sono strozzati dalle bollette. «Luce e gas avvisano e poi staccano». Tanti, alla vergogna di farlo sapere, preferiscono il freddo e il buio. Poi famiglie numerose e separati che vedono all’improvviso raddoppiate le proprie uscite. Don Albanesi ha chiaro il limite degli ammortizzatori sociali: «Tengono fuori una platea troppo ampia. Comprese le fasce più disperate, dagli alcolisti ai fuori di testa. Va peggio nelle aree metropolitane dove la catena della solidarietà è più bassa». Anche don Luigi Ciotti considera l’«assegno Tettamanzi» una buona notizia: «Il gesto profondo, umile e sofferto del cardinale esprime coscienza delle difficoltà di tanti. Si diffondono nuove forme di povertà magari in giacca e cravatta, create dalla perdita del lavoro e dall’aumento del costo della vita». E dunque «da una grande diocesi un gesto per scuotere le coscienze. E' la giusta provocazione per chiedere alle istituzioni di assumersi le loro responsabilità. Il valore del messaggio sta nell’invito alle istituzioni a fare la loro parte. Oso dire: chiediamo meno solidarietà ma più diritti e giustizia. Andare incontro alla fragilità umana deve essere la nostra anima, ma non vogliamo essere i tappabuchi di nessuno». Secondo don Ciotti, insomma, «il richiamo nella notte di Natale è a sentirci tutti corresponsabili dell’altrui solitudine e miseria. Compreso lo Stato. Questa denuncia chiede ai signori del Palazzo di fare politiche sociali e di sostegno a scuola, famiglia, occupazione. La perdita del lavoro sarà il grande tema del 2009. Si incolpa la crisi economica mondiale. Mi permetto di obiettare che è soprattutto una crisi politica ed etica. Con dietro gli egoismi e interessi di molti a scapito dei più deboli ». A Torino dormitori e centri di accoglienza gestiti dal Gruppo Abele hanno raddoppiato i frequentatori. «Chiedono un letto, di fare la doccia, di lavare la biancheria ». Microsquilibri che rischiano di sfuggire di mano, segnali di una società barcollante. «Non serve indignarsi. Dobbiamo provare disgusto. Servono scelte che non mettano ai margini i più deboli. La politica distante dalla strada non è al servizio del bene comune ma è solo una mimica di se stessa». Più chiari di così...

domenica 28 dicembre 2008

la tela di Penelope delle riforme


Voglio dedicare questo mio post numero 300 ad una piccola riflessione che in questi giorni di festa mi ha accompagnato tra una fetta di pandoro e un calice di moscato. La riflessione verte principalmente sulla sensazione che queste benedette riforme auspicate da tutti, alla fine vengano inspiegabilmente cassate dai più. Una sorta di istituzionale tela di Penelope, dove il giorno si tesse, si intreccia, si inciucia e di notte si disfa. E' dai tempi della famosa Bicamerale targata D'Alema -Berlusconi che si procede in questo senso e non se ne vede una soluzione in tempi rapidi. I problemi istituzionali esistono, certo, ma vanno affrontati con criteri rigorosi. Primo: niente complesso di Penelope, che ricomincia sempre daccapo a tessere. Nella scorsa legislatura i due schieramenti avevano condiviso la bozza Violante che prevedeva tra l’altro un rafforzamento del Presidente del Consiglio secondo standard delle democrazie parlamentari europee. Si riparte da lì, anche per emendarla, ma non da zero, altrimenti è propaganda inutile. Secondo (sempre sul metodo): niente presenzialismo del Governo. La materia costituzionale è tipica di intese tra i parlamentari, non schiacciamo anche quella sulla logica maggioranza-opposizione perché altrimenti le divisioni sul Governo si rovesciano anche lì. Conviene a tutti, anche ai parlamentari della maggioranza, che sulla legislazione ordinaria hanno spazi minori di protagonismo. Il Governo sia un facilitatore, sullo stile come fu Prodi, ma eviti eccessi, come parlarne in conferenze stampa sulla sua attività, per rimpinguare il magro bilancio reale con fuochi pirotecnici. Terzo: quando una transizione è iniziata, quando non si costruisce da zero, il diritto deve nascere dal fatto, non da schemi astratti. Il nostro fatto è dato da due elementi: una scelta sostanzialmente diretta del Presidente del Consiglio attraverso la sua maggioranza, da regolare bene con qualche dose di flessibilità ma non con trasformismi durante la legislatura. E un Presidente della Repubblica in cui possano riconoscersi tutti. A questi elementi vanno aggiunti nuovi contropoteri. Non si vede perché dovremmo trasformare il Capo dello Stato in capo della maggioranza sopprimendo il Presidente del Consiglio o trasformandolo nel proprio principale collaboratore, riducendo una delle poche garanzie che già abbiamo. Quarto: niente clonazioni, niente modelli da prendere chiavi in mano. Il collegio uninominale a doppio turno è ottimo a prescindere dalla forma di governo: collega bene eletti ed elettori evitando preferenze e liste bloccate. Il primo turno può anche funzionare da primarie, portando naturalmente alla scelta di una maggioranza. Lo proponeva don Sturzo per l’Italia parlamentare dei primi anni '50 contro lo status quo della proporzionale nuda e pura, e contro il premio di maggioranza. Allora l’elezione diretta del Presidente in Francia non c’era e quando arrivò, nel 1962, trovò già il collegio uninominale introdotto dal 1958, dopo aver sperimentato sia la proporzionale pura sia il premio. Ripartiamo dal Parlamento e non dalle conferenze stampa del Governo, dalla bozza Violante e dalla riflessione profetica di Sturzo. Con Penelope si fa la propaganda e si perde inutilmente tempo, così invece si serve il Paese. Che, alla fine, è quello che vogliono i cittadini.

venerdì 26 dicembre 2008

tre anni son passati


Come passa il tempo! E' proprio il caso di dirlo. Oggi, giorno di Santo Stefano, cambio un pò le carte in tavola. Decido di scrivere questo post in prima persona, togliendo il plurale maiestatis, ricordando che sono trascorsi esattamente tre anni (e un giorno) dall'apertura di questo blog. Ho deciso di cambiare anche la foto del mio profilo (i pelotti li ho abbandonati da tempo, da quando non collaboro più con Telefonica e con il 1288) e per compensare le novità ho deciso di rispolverare il mio primo post, scritto proprio il giorno di Natale del 2005. Chissà se chi mi rilegge (MAURO in primis) troverà grossi cambiamenti con l'attuale Antipatico...Buona lettura. Il titolo del post era: "Tanto per esser chiari!".

Abbiamo scelto un giorno particolare per iniziare la nostra avventura nella blogosfera. Il giorno di Natale è quello sintomatico per indicare bontà, gioia, carineria, stato d'animo da pastore di pecorelle smarrite. Noi invece abbiamo tutt'altro stato d'animo e predisposizione nei confronti del prossimo. Crediamo di esser stati chiari. Parliamo al plurale non per snobismo o alterigia, nemmeno per sufficienza letteraria, men che mai per disapprovazione nei confronti di chi la pensa al contrario. Semplicemente perchè la lingua italiana lo permette, perchè chi legge le nostre considerazioni e non è d'accordo ha la facoltà di smoccolare al plurale anzichè al singolare, e non è cosa da poco. Vorremmo iniziare questa prima fustigazione degli usi e dei costumi proprio con il Natale, sinonimo di melensa bontà e smielata falsità di approccio nei confronti dei nostri simili. Chi di voi, che ci sta leggendo in questo momento, non ha detto la fatidica frase ti auguro di cuore un sereno natale e un felice anno nuovo mentre in cuor suo incosciamente augurava le peggiori catastrofi morali e materiali?...Lo sapevamo, nessuno ha alzato la mano, ma noi abbiamo letto in profondità nei vostri occhi e abbiamo scoperto l'ipocrisia a tonnellate stipata nel vostro inconscio, l'invidia mal celata delle fortune del vicino di casa che ha acquistato la nuova fiammante automobile di marca e voi niente, ancora girate con la Duna (versione 70) con il portapacchi e con l'adesivo del Touring Club in bellavista. E tanto per non farvi mancare niente siete anche costretti a imbarcarvi la suocera, il gatto e il coniglietto che fanno tanto focolare domestico, e con vostra moglie che vi urla e vi rompe con le solite richieste assurde (inutile elencarle) siete costretti ad andare a casa dei parenti più odiati di sempre, che vi accoglieranno, tanto per cambiare, con i soliti stucchevoli convenevoli baci ed abbracci. E con il panettone in mano voi state proprio per sbottare e mandare a cagare tutto e tutti...ma ricordatevi: oggi è Natale, e se proprio volete mandare a quel paese qualcuno, aspettate Capodanno...Come si dice, anno nuovo...
postato da nomadus alle

mercoledì 24 dicembre 2008

AUGURI


E' Natale ogni volta che sorridi

a un fratello e gli tendi una mano.


E' Natale ogni volta che rimani

in silenzio per ascoltare l'altro.


E' Natale ogni volta che non accetti

quei princìpi che relegano gli oppressi

ai margini della società.


E' Natale ogni volta che speri

con quelli che disperano

nella povertà fisica e spirituale.


E' Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.


E' Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri.


Con questa splendida poesia di Madre Teresa di Calcutta vogliamo augurare a tutti i nostri lettori uno splendido Natale pieno di serenità e di felicità (se possibile). AUGURI a tutti voi!!!!

martedì 23 dicembre 2008

la questione morale secondo Rossaura


Dalla nostra lettrice preferita, Rossaura, riceviamo e volentieri pubblichiamo un lunghissimo e articolato trattato sulla questione morale. Siamo conformemente appiattiti sulla sua tesi. Crediamo che sia un contributo utile, molto utile, per un democratico, intelligente e inevitabile scambio di opinioni e di posizioni sull'argomento che in questo periodo toglie il sonno ai veri democratici (che si riconoscano o meno nel Partito). Buona lettura e buona riflessione. E grazie ancora di cuore, cara Rossaura, per il tuo contributo. «La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.»
Enrico Berlinguer
Da un aforisma di Enrico Berlinguer un progetto per un nuovo partito, capace di liberarsi dal conflitto di interessi e dal clientelismo. Questa è la lezione di quest’uomo politico, ma una lezione che valeva solo per il vecchio PCI, non più per quello che divennero successivamente i partiti che rappresentarono la sinistra e il centro sinistra italiano.
Qualcuno asserisce che l’errore sta nell’aver immesso, nella struttura pragmatica ed essenziale del vecchio Partito Comunista, le varie forze di centro, ossia le vecchie anime della scompaginata DC. Il cambiamento ha condotto ad un rilassamento dei costumi, ad un adeguarsi al livello politico del nostro tempo. Sinceramente credo sia una semplificazione del problema e che non abbia nessun fondamento nella realtà. Oggi il malcostume è generalizzato, e investe anche quelle anime di partito che sono cresciute negli insegnamenti dei padri del vecchio PCI.
Insomma, Berlinguer ci aveva visto giusto. Ma è datato, sulla moralità della sinistra non può più dirci niente, perché la sinistra è diventata lo specchio della destra: per controbattere un potere, se ne usa un altro. Della stessa qualità, della stessa “amoralità” politica.
Eppure una differenza c’è ed è terribile. Gli esponenti dei partiti di cui parlava Berlinguer usavano e abusavano del loro potere, in modo ”amorale” ma funzionale ai partiti che rappresentavano, e solo in senso lato a loro stessi. Oggi, invece, il malcostume, la clientela non va mai a favore del partito, non va neanche a favore di una specifica corrente di quel partito, ma va solo a favore di se stessi.
Noi, idealisti di sinistra, ci lambicchiamo il cervello per capire dov’è finita l’etica politica. Soffriamo di sdegno e di repulsione, perdendo di vista in questo modo la visione globale del problema. Questa è la politica dei giorni nostri, questa è la visione del potere. O almeno quella che fa marciare il Governo in carica e la blanda opposizione. Questo è il frutto dei nostri tempi, e che danneggia solo la sinistra, perché siamo gli unici a porci il problema. Siamo pochi e sofferenti, siamo quelli che si schifano e che magari mollano l’impegno politico per “purgare” l’anima nell’inattività e nel silenzio.
Intanto il potere marcia per la sua strada, mina sempre di più le capacità intellettive degli individui e soprattutto ci emargina, cancellando tutte le conquiste e gli ideali per cui abbiamo combattuto.
Ecco perché non possiamo accettare di farci mettere a margine da una classe politica di inetti, e di parassiti. Noi dobbiamo pretendere, prima dai nostri “rappresentati” e poi da quelli che ci governano e che non ci rappresentano, l’onestà morale che conoscevano ed hanno abbandonato per strada, e che come in altri casi non hanno mai conosciuto. Il PD deve azzerare la classe dirigente e per PD intendo le sue radici sane, la base popolare, i circoli, da dove deve uscire la volontà di rinnovamento sostenuta finora solo a parole. Ora devono seguire i fatti.
Se tutto questo non avrà seguito, possiamo cancellarci dalla carta geografica della politica italiana; possiamo diventare sudditi di un’Italia che ormai è un regime. Un regime politicamente amorale, ma autoredento dalla “immoralità” di una opposizione che saremo noi a dover cancellare.
Il “nuovo” dovrà superare un percorso ad ostacoli, per recuperare la credibilità perduta. E come inizio proporrei la morale in cinque punti da sottoporre a chi si candida, ma non solo. Proporrei certo l’autocertificazione, ma anche la verifica da parte di un esecutivo del Partito, che chiameremmo tra di noi Polizia Politica (sarà mai troppo?):
1 - Dichiarare gli incarichi lavorativi, le associazioni a cui si aderisce, l’attività politica e sindacale svolta. 2 - Dichiarare eventuali precedenti con la giustizia o con il fisco, segnalando il reddito proprio e della propria famiglia, nonché le proprietà di cui, direttamente o indirettamente, si dispone. 3 - Dichiarare di essere in regola con tutte le norme che riguardano il mercato del lavoro e i diritti dei lavoratori, per i propri collaboratori, le persone che lavorano per la propria azienda o presso la propria abitazione. 4 - Dichiarare gli eventuali elementi che possono comportare un conflitto di interessi nella gestione del proprio mandato e le modalità con le quali si intende ovviare all’insorgenza di queste problematiche. 5-Dichiarare i principali sottoscrittori della propria campagna elettorale, a partire da cifre superiori ai 1000 euro.
Acclarato ciò, possiamo dire che i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela con una scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente. Idee, ideali e programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono gli interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche i più loschi, e comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, con formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa. Sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi.
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali.
Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela. Un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, solo se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Volete una conferma di quanto dico? Confrontate il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel 1974 per il divorzio, sia (ancor di più) nel 1981 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Al contrario, invece, nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
Proprio per questa serie di motivi noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Vi sembra che tutto ciò debba incutere tanta paura agli italiani?
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni. Noi crediamo che certi bisogni sociali e umani (oggi ignorati) vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche (e soprattutto oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sul berlusconismo) in vigore attualmente non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in quale modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione.
Siamo convinti che bisogna sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Siamo coscienti che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire, per la loro parte, a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo, a nostro avviso, è il modo giusto di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione.
Firmato: Rossaura (e approvato integralmente da nomadus).

sabato 20 dicembre 2008

Cristo si è fermato in Basilicata


Ci voleva l'inchiesta del pubblico ministero John Henry Woodcock per rialzare il sipario su una terra dimenticata da Dio e dagli uomini: la Basilicata. Una nuova inchiesta con il botto questa del quarantunenne italo americano con il pallino della chioma fluente e selvaggia, la passione per le moto e per le belle donne, e una radicale inimicizia per il fotografo degli scatti e ricatti Fabrizio Corona. Tutti i giornali hanno dedicato ampio spazio a questo scandalo lucano e anche noi cogliamo l'occasione per ribadire il nostro personale disprezzo per questo volgare mercimonio della politica e del malaffare.
I 113 faldoni e i 33 indagati dell'inchiesta giudiziaria Toghe lucane fanno luce sul miliardo di barili di petrolio stipati nella pancia della Basilicata (sono l'8 per cento del fabbisogno nazionale) e sulla stupefacente longevità della classe politica lucana: sei deputati, sette senatori di destra e di sinistra che fanno politica da sempre, il senatore a vita Emilio Colombo, l'onorevole Salvatore Margiotta (il peggiore), Romualdo Coviello, e tanti altri che fanno quasi tradizioni di famiglia con un'unica sorgente di vita: la Democrazia cristiana. Possiamo partire da qui, da queste tre caselle per raccontare il grande gioco d'affari, il Monopoli della Lucania che oggi diventa, con il caso Napoli e quello Abruzzo, una delle tre lame che si conficcano nella carne viva del PD sotto il nome questione morale. Il fatto è che fuori dai confini di questa regione non ti aspetti che il Texas d'Italia, che tutti ci invidiano, possa essere quasi l'origine della questione morale. «Una regione di qualità e un territorio d'eccellenza», è scritto nel timbro della Regione. Balle, tutte rigorosamente balle. Peggio: affermazioni che «fanno venire l'orticaria» a un sacco di gente. Don Marcello Cozzi, responsabile dell'associazione "Libera", ha affidato la sua rabbia alle 458 pagine del libro «Quando la mafia non esiste-malaffare e affari della mala in Basilicata», cinque edizioni tutte esaurite da maggio. Un libro che è quasi una nuova Gomorra, scritta da un prete lucano per nulla amato tra i notabili della città ma invitato dagli emigrati a Berlino e a Innsbruch per parlare del suo libro. L'economista Nino D'Agostino alza la voce se dici «Basilicata isola felice»: «E' la più grande mistificazione organizzata dal ceto politico italiano». La Lucania è di per sé «una questione morale». Anzi, è il paradigma della questione morale che sta travolgendo il PD. Al palazzo di Giustizia di Potenza il pm John Henry Woodcock e il gip Rocco Pavese continuano gli interrogatori dei dieci arrestati per le tangenti alla Total, multinazionale che sta trivellando nel giacimento di Tempa Rossa. L'inchiesta è figlia di un'altra indagine, quelle Toghe Lucane (33 indagati tra politici, amministratori, magistrati e investigatori tra cui Luisa Fasano, moglie dell'onorevole Margiotta) per cui è stato chiesto il giudizio per una sfilza di reati, dall'associazione a delinquere alla corruzione, passando per la turbativa d'asta e il peculato. I 113 faldoni di Toghe lucane raccontano di un comitato d'affari che in Lucania, secondo il pm Luigi De Magistris, aveva mani e faceva affari ovunque. Se c'era un reato il magistrato nascondeva, il poliziotto avvisava l'indagato, il politico di destra e di sinistra continuava a fare pastette. Tutti insieme allegramente, per anni, e che nessuno disturbi il manovratore. Finché arriva il pm Woodcock che già un bello scossone al sistema lucano l'aveva dato nel 1994 con un'altra inchiesta chiamata Iena 2. C'è un giro vorticoso, in queste faccende giudiziarie, di indagati che diventano difensori e poi magari senatori o deputati. Nicola Buccico, ad esempio, ex del Csm in quota An, è indagato in Toghe lucane ma oggi anche difensore dell'imprenditore Ferrara, presunto motore delle tangenti Total nonché sindaco di Matera. Filippo Bubbico, diessino di razza, è indagato in Toghe Lucane ma anche senatore del PD. Luisa Fasano, ex capo della mobile di Potenza, è indagata in Toghe Lucane ed è moglie di Margiotta, indagato per le tangenti Total, di cui Woodcock ne ha chiesto l'arresto e la Camera dei Deputati (vergognosamente) ha detto no. C'è poi anche Vito De Filippo del PD (ex Margherita), presidente della Regione indagato di nuovo per le tangenti Total anche se per reati accessori. Giovedì in consiglio ha avuto una specie di crisi di nervi: «Basta, non ce la faccio più, questo è un complotto». Sembrava volesse dimettersi. Sembrava. E dire che ha tutta la giunta dimissionaria di fronte alle fabbriche chiuse e ai migliaia senza lavoro. Il gioco di ruolo, controllori che diventano controllati e viceversa, potrebbe andare avanti a lungo. Il paese è piccolo, si dirà. Sbatte il pugno sul tavolo del bar del Grande Albergo Nino D'Agostino. «Quello lucano - dice - è un grande sistema blindato di corruzione». La diagnosi è spietata: «In 60 anni non c'è mai stato ricambio di ceto politico e gli assessori regionali sono anche funzionari della Regione. Tutto ruota intorno alle clientele per cui non conviene a nessuno restare fuori e quindi denunciare. Qui il clientelismo si è evoluto in affarismo per cui non basta più trovare lavoro al figlio di chi te lo chiede e poi ti porta i voti ma tutto questo deve anche produrre grandi affari possibilmente per pochi». La corruzione non è solo tangenti, insiste l'economista, «è anche gestire risorse pubbliche in modo clientelare per cui un sistema economico in piena recessione come quello lucano diventa l'isola felice». Modi così antichi e mimetizzati che poi rischiano di non avere sempre un rilievo penale e di trasformarsi in condanne. «Ed è per questo che bisogna pretendere dalla politica un cambio netto dei suoi protagonisti e dei loro metodi», dice don Marcello che tutti i giorni ha a che fare con clientele, promesse di lavoro in cambio di silenzio, storie di usura dove l'usuraio è il potente che neppure ti immagini. Don Marcello è andato a vedere cosa c'è dietro droga, usura, disagi. Nel suo libro racconta le mille contraddizioni di queste regione, i 200 condannati definitivi per mafia in meno di 15 anni, i morti ammazzati su cui non sono state fatte indagini, i politici indagati ma sempre al loro posto. «A chi fa comodo - si chiede - che questa terra sia raccontata come l'isola felice mentre le gente scappa in cerca di lavoro? Chi controlla, ad esempio, che non vengano fatte estrazioni in nero dai pozzi? Perché non ci sono le strade?». Scriveva Carlo Levi (che Mussolini mandò al confino nei calanchi tra Grassano e Aliano): «Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo». Cristo s'era fermato a Eboli. Adesso in qualche paesino della Val d'Agri. Per arrivare in Lucania c'è solo una strada, il treno arranca e a volte a Salerno passa il testimone al bus. Meno male che c'è la FIAT a Melfi e la Natuzzi a Matera altrimenti sarebbe un disastro biblico, nonostante la ricchezza di materia prime. In certi paesi non arriva l'acqua che pure viene venduta alla Puglia. E neppure il gas che qui sotto ha giacimenti enormi. E lo chiamano Texas d'Italia. La Lucania saudita. Una terra dimenticata da Dio e dagli uomini. Non certamente da Henry John Woodcock...

lunedì 15 dicembre 2008

una segnalazione intelligente


La nostra lettrice Rossaura ci sta prendendo gusto. Dopo averci inviato un commento che abbiamo pubblicato come post, quest'oggi ci segnala un interessante articolo pubblicato a firma Carlo Sandri su Dazebao (http://www.dazebao.org/news/index.php) dal titolo significativo: "Sinistra democratica e vendoliani, schizofrenia della politica" che noi vi vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura. Forse può accadere solo in Italia dove la schizofrenia della politica è di casa. Non si è mai dato, perlomeno a nostra memoria che un partito riunisca il suo massimo organismo dirigente e una parte dei suoi componenti non partecipi perché impegnati in una assemblea con altri soggetti intenzionati a dar vita ad un altro partito. Ne viene fuori un calendario che prevede a gennaio l’apertura della consultazione, ai primi di febbraio si tirano le fila, alla fine del mese, se tutto va come dovrebbe, si fonda un nuovo partito. C’è chi già lo chiama la Linke tedesca, che è tutt’altra cosa e dovrebbero saperlo.
L'ignoranza non è ammessa in un consesso di alta politica. Perlomeno questa è la speranza come dice Moni Ovadia che fa da cerimoniere alla riunione di cui sopra. C’è un punto di frizione. Riguarda come ci si presenterà alla elezioni europee. Quelli che hanno preferito partecipare alla assemblea disertando la riunione dell’organismo dirigente di cui fanno parte, vorrebbero tener separate le elezioni europee dalla nascita del nuovo partito. Si fa un bel cartello delle sinistre che ci stanno. Noi, rimaniamo nel nostro partito, ma stiamo in queste liste e non in quelle del partito. Ci cacciano? Se così avviene sono loro gli scissionisti, stalinisti. Se non ci cacciano perché i media farebbero una campagna contro gli stalinisti, schierandosi con i neo-martiri va tutto bene. Ci facciamo la nostra campagnuccia elettorale, si cercano alleanze altrove, qualche porta aperta la si trova sempre. Dopo le elezioni ce ne andiamo noi e ci portiamo pure il giornale del partito. Come se niente fosse, il giorno dopo sembra siano intenzionati a trasferire armi e bagagli là dove prosegue la riunione dell’organismo dirigente del loro partito. Tutto ciò sotto il nome di rinnovamento della politica, processi dal basso, coinvolgimento delle masse, un po’ di spettacolino, applausi al motto “nuovo partito subito,” chi non salta comunista è di berlusconiana memoria o giù di lì, tanto che Veltroni al loro confronto appare un pericoloso bolscevico. Dai, che bel raccontino vuoi propinarci? Purtroppo è lo scenario di due giorni di politica schizofrenica, che ti fa venir voglia di gridare se pensi che solo un giorno prima quelli che “dal basso” ci sono sempre, hanno riempito strade e piazze d’Italia, chiamando in causa le sinistre, si trovano di fronte uno scenario sconfortante,fatto di parole, chiacchiere, rimasticature di frasi fatte che da ormai troppi anni vengono ripetute in convegni, assemblee, stati generali. Facendo passare tutto questo per ricerca, riflessione,progettualità. La commedia in due atti si svolge in due luoghi romani: il teatro Ambra Jovinelli, proprio azzeccato per una assemblea che doveva lanciare, modestia a parte, “ le primarie delle idee” dove si danno appuntamento Sinistra democratica, un po’ di Verdi, i “vendoliani”, minoranza di Rifondazione comunista che diserta il Comitato politico del Partito riunito nella Sala congressi di Via Dei Frentani. Il giorno dopo il gruppo capeggiato da Nichi Vendola fa sapere che tornerà e parteciperà alla fase conclusiva dei lavori. Forse Vendola non ci sarà. In fondo il problema di ricostruire il partito della rifondazione comunista, uscito da una secca sconfitta elettorale, di rafforzarlo, di ritrovare un rapporto con i lavoratori, di dar vita ad una forte battaglia di opposizione, di renderlo socialmente “utile”,come cerca di fare l’attuale maggioranza, non li riguarda. Loro vogliono fare un altro partito. Prima o poi. Fine del primo atto. Atto secondo: il palcoscenico diventa la sala congressi di Via dei Frentani. I “vendoliani” che ieri hanno partecipato all’assemblea dell’Ambra Jovinelli convocata da sinistra democratica, minoranza di Rifondazione, pezzo dei Verdi che ha decretato la nascita di un nuovo partito della sinistra, anche se quando non si sa, riprende posto nei ranghi del Comitato politico del Prc partecipando alla seconda giornata dei lavori. Non c’è Vendola, quelli della prima fila, da Migliore a Giordano, non parlano. Intervengono solo le seconde file. Ma si verifica un fatto nuovo. La minoranza si spacca su una questione delicata che sta alla base del dibattito fra le forze della sinistra di alternativa: la formazione delle liste per le prossime elezioni. Dall’assemblea dell’Ambra Jovinelli, anche se Vendola ha storto la bocca, l’indicazione è chiara. Alle elezioni europee si prsentera un nuovo simbolo, quello del nuovo partito e alle ammnistrative liste “civiche” di sinistra. Nel comitato politico del Prc la maggioranza presenta un ordine del giorno.
Ce lo riassume Gianluigi Pegolo, membro della segreteria e responsabile dell’area “ Democrazia e Istituzioni”. C’è una chiara indicazione venuta dal Congresso: il Prc si presenterà alle elezioni europee con il proprio simbolo. Per quanto riguarda i comuni l’ordine del giorno prevede la presentazione di liste del Prc in quelli sopra i 15.000 abitanti salvo là dove il partito non sia in grado di farlo. Liste del Prc anche per le elezioni provinciali. Fra i punti da sottolineare nell’odg presentato dalla segreteria- rileva Pegolo- la non opportunità dell’allargamento delle maggioranze a Udc, forza centrista e moderata, la questione morale che già oggi si chiama ritiro dalla giunta della Calabria, discontinuità in Campania, condizioni programmatiche per le alleanze . In particolare si parla di difesa del welfare locale, salvaguardia del ruolo pubblico,rifiuto pratiche di privatizzazioni, moralizzazione e trasparenza, sviluppo di strumenti di partecipazione dei cittadini. “ Per quanto riguarda l’unità a sinistra negli enti locali- afferma Pegolo - si dovrà operare con gli apparentamenti che sono oggi possibili. Le nostre liste saranno aperte a non iscritti al partito fino ad un limite del 50%”.
A questo ordine del giorno se ne contrappone uno presentato da alcuni esponenti della minoranza che chiedono siano le strutture territoriali a decidere sulle liste. Accettano il confronto e ritengono,di fatto, che il Comitato politico nazionale sia una sede legittima di discussione. Non è di questa opinione un altro pezzo della minoranza vendoliana che rifiuta perfino di partecipare al voto. Passa l’ordine del giorno della segreteria. Raccoglie una decina di voti quelli degli esponenti della minoranza che non hanno rifiutato il confronto. Un segnale non trascurabile. Passa anche un ordine del giorno della segreteria sul futuro del giornale del partito “Liberazione”, secondo le linee espresse dal segretario Paolo Ferrero. Non è accettabile – è scritto- che un giornale del partito faccia proprio un progetto politico alternativo a quello del partito stesso. Anche qui parole chiare. Sarà la direzione a definire i modi e i termini per affrontare la crisi del quotidiano. Infne, certo non ultimo, l’approvazione del documento politico che riprende i tratti fondamentali dell’intervento del segretario Ferrero affrontando in particolare i temi della crisi, del come affrontarla costruendo un grande movimento di lotta. I documenti presentati dalla segreteria sono stati approvati con una larga maggioranza, dai trenta ai quaranta voti.

domenica 14 dicembre 2008

eppur qualcosa si muove...


L'illusione di qualche piccolo movimento (di idee, di confronto, di speranza per il futuro) ci dà la percezione che anche in periodo di crisi qualcosa può accadere. Qualcosa di interessante, magari.
Provate a mettere insieme le competenze: donne, uomini, ragazzi, rappresentanze vere di studenti, ricercatori, economisti, studiosi delle nuove forme energetiche, giornalisti, mamme e sindacalisti. Tutte anime diverse, è vero, che però hanno una cosa in comune: sono di sinistra. Provate a farli parlare al posto dei dirigenti politici, vi stupiranno. La prima assemblea di "Per la Sinistra" non sappiamo se darà vita ad un nuovo partito, ma sicuramente ha dato vita a un nuovo modo di fare politica.
Sono 30 anni che questo Paese, e chi vi scrive, assiste ad ogni tipo di congressi e assemblee di partito: stupirsi a una di esse non è certo cosa comune. All’assemblea "Per la Sinistra", al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, ci si iscrive per parlare, e pian piano a sorte si parla tutti. Tranne i dirigenti politici, che restano seduti in sala nelle nuove vesti di registi convinti della bontà della "jam session politica". Stavolta Nichi Vendola, Gennaro Migliore, Claudio Fava, Patrizia Sentinelli ed Elettra Deiana ascoltano in silenzio. Da Gabriele Polo a Giuliana Sgrena, dai ricercatori sull’energia eolica ai rappresentanti dell’Onda, dai ricercatori universitari ai sindacalisti, dagli economisti agli studenti, ai giornalisti licenziati de La7, tutti spiegano cosa vuol dire per loro, nel 2008, essere di sinistra, dando ricette economiche, sociali, politiche, attinenti all’ambito di studio e di vita dal quale provengono. Stupisce di loro la passione per la politica, per i loro studi, per l’Italia, e l’enorme sapere e voglia che mettono in questo processo politico nuovo.
La differenza? E' la competenza. E una politica nuova fatta da gente vera, e non da dirigenti che non la "vivono" più da un pezzo. Cinquanta interventi introdotti da Moni Ovadia. "Oggi qui sono solo al servizio di questo progetto, noi stavolta non possiamo fallire e corriamo un grande rischio, essere superati dalla realtà. Marx guardò in avanti di 50 anni e la globalizzazione fu anticipata nelle sue pagine, dobbiamo oggi tornare ad anticipare i fenomeni". Ovadia li presenta tutti con un grande rispetto ed emozione, e racconta un processo politico (e forse anche sociologico) che avrà altre due tappe: una a gennaio e una a febbraio. Regole e carta di intenti nel primo mese dell’anno e, nel secondo, una consultazione con un’assemblea conclusiva e l’inizio della costituzione del partito. Prima le idee, poi un partito. Davvero in Italia non era mai accaduto, nè tanto meno si era mai visto, un evento come quello della politica che si riconnette con i soggetti sociali nuovi e con le nuove generazioni, lasciandosi contaminare da essi, compiendo così un vero e proprio passo in avanti. Un progetto di sviluppo per il Paese, se di sinistra, viene dalla gente comune, che possiede conoscenza ed esperienza. Le primarie delle idee vogliono cambiare la politica (o almeno tentare di farlo). E stavolta a sinistra. E senza avere paura.

la teca della legalità


A volte rimaniamo meravigliati per degli eventi (magari non strombazzati sui quotidiani nazionali) che hanno un sapore del tutto particolare. Intendiamo sapore come paradigma della sensazione che si prova leggendo la notizia che vi proponiamo.
Chi si reca, per lavoro o per diletto, a Senigallia, entrando nel Palazzo Comunale della centralissima Piazza Roma, troverà una sorpresa alquanto inusuale. Il cittadino che ci entra, infatti, sicuro magari di imbattersi nella lunga teoria di segni e prassi che scolpiscono il profilo della nostra burocrazia, troverà proprio all’ingresso del piano nobile una teca davvero speciale. Questa preziosa teca contiene nientepopodimeno che la valigetta con la quale agli inizi degli anni ’90 (esattamente il 17 febbraio 1992) il pool di Milano incastrò "il mariuolo" Mario Chiesa, dando così inizio all’inchiesta di Mani Pulite. Ad acquistarla, durante un’asta di beneficienza per sostenere l'associazione "Libera" di Don Luigi Ciotti, sono stati alcuni cittadini senigalliesi che hanno poi decisa di donarla al proprio Comune. L’amministrazione Comunale, invece di farla ammuffire in qualche armadio dell’Ente, ha avanzato una proposta che per qualcuno poteva avere un sapore provocatorio: sistemarla nelle pareti dell’aula consiliare, come una specie di monito per una politica mai disgiunta da un impegno per la legalità. Apriti cielo: più di un Consigliere ha tuonato contro un’iniziativa che sarebbe stata lesiva delle prerogative consiliari, giudicando davvero poco opportuno che un simile cimelio potesse trovare stabilmente posto nell’aula riservato alla massima Istituzione cittadina. Per nulla rassegnato il Sindaco della città, Luana Angeloni, ha immediatamente rilanciato: se non è possibile nell’Aula Consiliare, la valigetta la collocheremo proprio all’ingresso del Municipio. Detto fatto. Ed oggi il prezioso reperto simbolo di un’inchiesta giudiziaria che segnò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, fa bella mostra di sé nello spazio comunale maggiormente transitato dai cittadini che affollano gli uffici. Rappresenta un simbolo di quell’impegno per la legalità che dovrebbe essere una delle basi del nostro ordinamento democratico. Sarà un segno concreto per ricordare, a tutti coloro che entreranno nel Comune di Senigallia, il coraggio di quelle persone che, come i soci di "Libera", si battono ogni giorno per affermare un’autentica cultura della legalità. Particolare curioso: nella teca, sotto la valigetta, sono stati riportati due testi. L’articolo 3 della nostra Costituzione, sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ed una frase di Don Luigi Ciotti: "La legalità che è necessaria deve fondarsi sulla prossimità e sulla giustizia sociale". Un bell'esempio da seguire. Per tutti.

l'efficacia di uno sciopero


Fin dai tempi del liceo siamo stati edotti, da chi era più grande e politicizzato di noi, sull'efficacia dello sciopero (meglio se selvaggio e improvviso). Si scendeva in piazza al minimo accenno di contestazione. Si occupava l'Istituto per contestare il preside o il corpo docente. In buona sostanza l'arma dello sciopero scintillava nelle nostre mani. E a distanza di decenni ci accorgiamo che ancora adesso c'è chi disquisisce sulla reale efficacia di uno sciopero, come magari quello di venerdì scorso. Sia come sia, a nostro avviso, ha ragione Guglielmo Epifani: lo sciopero deve essere un mezzo, non un fine. Per questo, a manifestazione conclusa e rendendo l’onore delle armi ai combattenti della CGIL, che hanno sfidato più i rigori del maltempo che quelli dei mercati, possiamo dire che lo sciopero generale dell'altro ieri è stato un mezzo spuntato, dunque complessivamente inutile a raggiungere il fine prefissato. Ragioniamo.
Contro chi protestava il più grande, e sempre più isolato, sindacato della sinistra? Contro Berlusconi e i suoi ministri, rei di non affrontare la crisi con il vigore necessario. Di non aver detassato le tredicesime, di aver dato poco sostegno alle famiglie. Di aver fatto poco, insomma. Protesta legittima, come ogni protesta, intendiamoci. Come direbbe Epifani, a che serve però un mezzo di questo tipo rispetto alla salita che abbiamo di fronte? Che senso ha uno sciopero anti Berlusconi quando lo tsunami viene da lontano e si diffonde ovunque? Quando basta un no del Senato americano al piano di salvataggio dei colossi USA dell’auto per far perdere altre migliaia di miliardi alle borse di tutto il mondo. Quando la General Motors si prepara alla bancarotta. Quando aziende che tre mesi fa valevano dieci oggi valgono due, a Shangai come a Pordenone?
E quando le tredicesime rischiano di riempire le falle e non le pance delle famiglie? Insomma: è come aver scelto la bicicletta per scalare il K2, come prendere a schiaffi il vigile sotto casa per fermare l’avanzata delle truppe americane in Iraq. Troppa sproporzione, troppa evidente inutilità tra il mezzo e il fine, come del resto hanno sottolineato gli altri sindacati, non certo venduti alla causa del «padrone» di Palazzo Chigi, e gran parte della sinistra più responsabile. E che in piazza ci fossero un milione e mezzo di persone o che gli ombrelli abbiano moltiplicato l’effetto ottico, poco importa: il risultato è quasi nullo.
Perché nel frattempo in Italia i contratti si firmano, gli accordi si fanno anche senza la CGIL, la crisi si affronta con i quattro soldi a disposizione, considerato l’enorme debito pubblico che abbiamo sulle spalle. E soprattutto sapendo che questa battaglia è globale. Che servono grandi interventi come quelli ipotizzati dall’Europa, o come il fiume di dollari che scorrerà a Washington. Che un Paese deve marciare più che mai unito e compatto. Ottimista. Ciò che non ha fatto la CGIL. E che speriamo faccia da domani.

sabato 13 dicembre 2008

un commento migliore del post


Abbiamo ricevuto il commento della nostra amata lettrice Rossaura sul post da noi scritto questa mattina. A nostro giudizio questo commento merita di essere evidenziato come (se non di più) un vero e proprio post. E quindi lo pubblichiamo integralmente qui (senza censure e senza correzioni ortografiche) per apprezzarne pienamente la genuinità e la bellezza. Il nostro paese è inquinato. E inquinato nel suo territorio da scarichi incontrollati e tossici, da uso si materiali altamente pericolosi, da scarichi industriali maledettamente venefici e mortali, squesto paese respira un'aria satura di acidi, veleni e miasmi, altro che attentato che gas serra e inqinamento atmosferico, che già si per sè è vergognoso e irresponsabile, ma il nostro paese inquina l'Europa stessa. Come? Facile a parte il nostro territorio, a parte il territorio di quei paesi a cui ci rivolgiamo per la produzione controllata dell'energia, vedi Romania e , noi siamo portatori di inquinamento e virus che si diffonde da questo governo che a uso e consumo di una classe di imprenditori non lungimiranti e assolutamente legati ai loro meri interessi personali, rendono questo paese un mer..io e i suoi abitanti un manipolo di rimbecilliti, da ingozzare di false informazioni e da rinco...nire con droghe via etere e con immagini edulcorate di un'Italia che non c'è più e da un pezzo. Non è che stamattina sono incavolata è che abbiamo una opposizione altrettanto fatua e irresponsabile, disposta a qualsiasi maneggio per un pò di considerazione, che tra parentesi non merita. Solo ad essere etici si può controbattere chi non lo è. Solo a comportarsi all'interno dei limiti concessi da correttezza politica e moralità politica si può gridare e battere i pugni contro l'immondo che è al potere. Tu rilanci sempre la speranza, caro amico, io non posso che rilanciare la rabbia che tutto questo provoca a chi subisce questo sopruso. Da quando ho avuto l'uso della ragione non accetto imposizioni stupide e di parte, lotto per i diritti dei deboli e dei diseredati, mi batto per la libertà di informazione e di opinione, chiedo e mi comporto adeguatamente per non aggravare il problema dell'ambiente e lo faccio anche a spese mie... E' possibile convivere oggi con tanta ottusità e cecità? No è un'eresia inaccettabile. L'Italia che dorme deve svegliarsi, ogni attimo che si perde e un tempo incontrollabile in meno di respiro per i nostri figli, per i nostri cari. Io non cedo le armi e non le consegno in mano ad un'opposizione inesistente. Chiedo solo a tutte le persone che usano la testa autonomamente di organizzarsi e di proporre una qualche azione di rivolta e di alternativa. Avessi un megafono e griderei come una sirena, sveglia , sveglia l'acqua sale, ma attenzione assieme all'acqua arriva anche una marea di liquami e annegare non è bello già di per se, ma annegare nella mer.a è insopportabile. Scusa ma questo articolo ha fatto uscire il peggio di me. Buona mattinata. Ross. PS come va a voi con l'acqua?

l'ambientalismo (del piffero) secondo Berlusconi


Siamo responsabilmente coscienti e sicuri di gestire questo blog con un subliminale senso di antiberlusconismo. Ma non possiamo fare a meno di tornare a scrivere delle nefandezze del cavaliere (e dei suoi accoliti, anche in gonnella), questa volta addirittura in veste ambientalista. I fatti sono inoppugnabili. Sono solo tredici i Paesi nel mondo che fanno peggio del nostro e mandano più gas serra e inquinamento in atmosfera. Lo attesta un rapporto internazionale del German Watch che ci colloca al quarantaquattresimo posto nella classifica delle emissioni su 57 Stati esaminati. Non poteva che essere così visto che l'Italia berlusconiana (inutile ripeterlo) non ha rispettato gli obiettivi del protocollo di Kyoto, che vincolavano il nostro Paese a ridurre (entro il 2012) le proprie emissioni climalteranti del 6,5% rispetto a quelle del 1990 e che invece le ha notevolmente aumentate (13%). Forse dalle belle piazze dello sciopero generale di ieri dovevano partire con forza dei messaggi a questo governo, perché la faccia finita con la devastante posizione assunta contro la direttiva europea sui cambiamenti climatici, che non può che aggravare l'isolamento del Paese e la sua drammatica crisi sociale. Non che il tema non sia fra i motivi della mobilitazione, ma è solo aggiunto al lungo elenco dei problemi sociali irrisolti. Manca la consapevolezza dell'intreccio che lega la crisi economica finanziaria con quella ambientale, di cui il cambio di clima è l'espressione più inquietante. Non c'è soprattutto la convinzione che da politiche economiche e industriali, in grado di risolvere i problemi ambientali, può venire anche la soluzione dei drammatici problemi sociali che la crisi economica sta producendo. Sarebbe una risposta molto forte a questo governo e alla sua macelleria sociale. Tanto più che in questi giorni i ministri della Repubblica stanno cercando, con minacce e ultimatum, di convincere il resto d'Europa a fare per il clima come loro, cioè nulla. Sanno già che non convinceranno nessuno, se non la parte più arretrata d'Europa (come ad esempio i Paesi dell'ex blocco sovietico) e quindi finiranno per mendicare ogni genere di sconto e rinvio sugli impegni, che poi a reti unificate spacceranno come la grande vittoria del governo italiano sul tentativo europeo di fregarci. Il raggiro dell'opinione pubblica è ormai metodo di governo. Si dimentica infatti che questo Paese ha già ottenuto dalla Commissione europea uno sconto non indifferente quando fu definita la direttiva sulle «tre 20». Non solo il 20% in più di fonti rinnovabili per noi, ma soprattutto quel 20% in meno di gas serra che dovremo realizzare non sarà più calcolato sulla base delle emissioni del 1990, ma su quelle del 2005, condonando così tutta la Co2 emessa dal '90 al 2005 (quasi 90 milioni di tonnellate in più rispetto a Kyoto). Ma l'obiettivo del nostro governo è più ambizioso: fare saltare l'intero pacchetto clima. Si vuole cioè rendere inefficace la principale arma politica, che si è data l'Europa, per coinvolgere il resto del mondo nella lotta ai cambiamenti climatici: prendere decisioni unilaterali. Che stupefacente spettacolo di ipocrisia, quello offerto a Poznam dalla peggior ministra dell'ambiente che questa Repubblica abbia mai avuto (stiamo parlando ovviamente di Stefania Prestigiacomo) quando, dimenticandosi di rappresentare uno dei paesi meno virtuosi nella lotta ai cambiamenti climatici, annunciava che il problema del clima sono i paesi in via di sviluppo, che inquinano e non fanno nulla e che vanno convinti a disinquinare, non con vincoli e regole, ma offrendo loro tecnologie pulite come il solare e l'eolico. Il continuo rimbalzo di responsabilità dà la misura della tempra morale di questa disastrosa classe dirigente. Siamo veramente alla beffa. Perché in questa offerta di tecnologia ai cosiddetti paesi in via di sviluppo non c'è nessuna idea di solidarietà e cooperazione, ma solo la fetenzia di un governo che, pur di non sviluppare qui il solare, l'eolico e le energie rinnovabili, preferisce farlo in Albania e in Cina, chiedendo però che quei pannelli fotovoltaici e quelle pale eoliche vengano conteggiate in quel 20% di fonti rinnovabili in più che la direttiva sul clima ci vincola a fare nei prossimi 12 anni, come se fossero stati installati sui tetti di Palermo e sui crinali appenninici. Enorme sarà la soddisfazione dei difensori del paesaggio come Sgarbi e il Ripa di Meana. Attendiamo con impazienza l'entrata in scena di Berlusconi che ancora ieri, non sappiamo da quale balcone, annunciava che il veto italiano spezzerà le reni all'Europa. Il prezzo di isolamento politico e di aggravamento della crisi che gli italiani pagheranno per queste scelte è elevatissimo. Alcuni timidi segnali di rivolta ci sono stati. Il parlamento italiano è stato presidiato da manifestanti che chiedevano di ripristinare gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni energetiche degli edifici. Ma bisogna fare molto di più. Dallo sciopero generale di ieri può partire l'idea di unire l'opposizione sociale e politica al governo su un "new green deal", cercando di farlo crescere nel Paese con conflitti e vertenze. Sarebbe un segnale forte all'Europa, che con Barroso ha dichiarato gli obiettivi sul clima non negoziabili. Speriamo vivamente che anche qui da noi ci sia un'opposizione che vuole fare di questo Paese uno dei protagonisti della lotta al riscaldamento globale.

giovedì 11 dicembre 2008

bulli per noia & genitori per forza


Chiariamo subito. Non siamo genitori, non abbiamo conosciuto la felicità della paternità, ma la notizia dei bulli di Avigliana (http://www.lastampa.it/Torino/cmsSezioni/cronaca/200812articoli/8980girata.asp) ci ha alquanto scossi, per meglio dire addolorati. Erano annoiati, poverini. Hanno dai tredici ai diciassette anni e alcuni genitori li hanno pure giustificati: in fondo, non hanno fatto del male a nessuno. Erano ubriachi: quattro maschi e tre femmine. Hanno distrutto anche l'ascensore per i disabili, loro che sono normali, vengono da famiglie "bene" e si sono vantati con i loro compagni a scuola. Ci sarebbe da raccontare della disperazione di questi ragazzi che di "bene" non hanno niente, la follia che prende per noia, non avere valori e ideali in cui credere, crescere con genitori che ti giustificano in tutto, perchè se non fai del male fisico, puoi tutto sommato distruggere il patrimonio pubblico o fare il vandalo, tanto non è poi così grave. Ci sarebbe da parlare di ragazzi che si possono ubriacare facilmente perchè in qualsiasi locale vengono tranquillamente venduti alcolici ai minorenni. Ci sarebbe da riflettere sul ruolo di rieducare al vivere civile nelle scuole.
Ci sarebbe da supplicare gli psicologi perchè rieduchino i genitori con corsi serali gratuiti dove insegnare che non basta mettere al mondo i figli, ma bisogna anche crescerli, educarli, e se costa tempo e fatica, pazienza, perchè allora tanto vale non averli.
Ci sarebbe da urlare che dire NO ad un figlio è dolorosissimo, ma è un bene necessario, perchè i NO aiutano a far capire il valore dei SI. Invece siamo qui a leggere l'ennesimo atto di disperazione di una società che sparla, affronta in maniera molto labile uno dei problemi più grandi che abbiamo al mondo. La formazione dei nostri ragazzi, le violenze che si portano dentro, le rabbie che non sanno gestire, il sesso buttato ai quattro venti, e il bisogno di distruggere. Per emergere, per essere qualcuno, costi quel che costi. Per esistere. E questo, forse, non è anche un disperato grido di aiuto?
Forse. E allora, ogni volta che leggiamo un articolo del genere, alziamoci, andiamo in camera dei nostri figli, o dei nostri nipoti, sediamoci, guardiamoli negli occhi e incominciamo a parlare, a capire, ad ascoltare. Forse quel ragazzino che hai davanti è una vittima, forse è un violento, forse è ancora peggio. Un indifferente. E per una buona volta mettiamoci in discussione senza giustificarli in tutto, e aiutiamoli a crescere.
Ogni volta che ascoltiamo o leggiamo di violenze, siamo tutti sconcertati, ma questo non può bastare, dobbiare lottare e rifiutare la normalizzazione di questi fenomeni, avendo il coraggio di denunciare, di raccontare e di fare un "mea culpa", i genitori per primi, le istituzioni, gli psicologi. Riportare tutto a dei valori più semplici dove il saper ascoltare giochi un ruolo centrale, ma dove anche l'azione possa portare ad un risultato concreto: che questo ci dia così la speranza di essere anche noi delle persone migliori, delle persone "bene", un bene inteso come un bene vero, un bene che lotti contro il male della noia e della solitudine dei nostri ragazzi.

lunedì 8 dicembre 2008

tempi duri per Obama


Oggi vogliamo uscire dai confini nazionali e gettare un'occhiata alla realtà americana del dopo Bush. Passata la legittima euforia per la brillante vittoria del primo presidente degli Stati Uniti con la pelle nera (e non "abbronzata"...), gli osservatori e gli analisti di tutto il mondo stanno alla finestra per vedere come si comporterà realmente Barack Obama sulla questione Iraq.
Adesso è ufficiale: più di 600.000 iracheni e 5.000 soldati alleati sono morti per sbaglio, per un deprecabile refuso nelle informazioni fornite al presidente George W. Bush dai servizi segreti Usa. Così almeno l'ha raccontata lo stesso Bush in un'intervista alla tv Abc. Ora il presidente uscente rimpiange quell'errore informativo (ma solo quello) e ammette che, quando fu eletto, era «impreparato a combattere una guerra». Un «errore» che ha disintegrato milioni di famiglie, ha spazzato via persino l'illusione dell'innocenza da milioni di infanzie: ma per Bush il vero rimpianto è che qualcuno ha fatto male i compiti a casa, forse era distratto. Così Bush si rifiuta di ammettere le due lezioni profonde che pure l'impero americano dovrebbe aver tratto dai suoi due mandati. La prima lezione è che nessun impero può reggersi solo sulla superiorità militare, per quanto schiacciante. Nei primi quattro anni di Bush invece, il ministro della difesa Donald Rumsfeld e il suo mentore, il vicepresidente Dick Cheney, credettero di poter imporre il proprio volere in Iraq e in Afghanistan con la pura forza militare, rifiutando di fare politica, anzi commettendo errori politici incredibili (come l'improvvido scioglimento dell'esercito iracheno che gettò sul lastrico un milione di famiglie). Nel secondo mandato, il nuovo ministro della difesa Robert Gates e il nuovo comandante in capo in Iraq David Petraeus hanno cominciato a fare politica, hanno comprato prima la neutralità e poi l'appoggio di un capotribù sunnita dopo l'altro. E la situazione è migliorata. La seconda lezione è che nessun impero, per quanto potente, può tutto. La lezione è che ogni impero, anche quello americano, ha i suoi limiti che deve accettare ed entro cui deve imparare a muoversi. Lo si vede dalle fallite «esportazioni di democrazia». Queste due lezioni sono il legato più importante per il nuovo presidente, Barack Obama, che giurerà tra 43 giorni e che la scorsa settimana ha annunciato la sua squadra di politica estera, la cui composizione era già stranota. Le parole di Obama e i nomi dei ministri mostrano che ha appreso appieno la prima lezione, sulla necessità del soft power, termine coniato dal politologo Joseph Nye, che designa la capacità di suscitare nell'altro il desiderio di ciò che si vuole che desideri, la facoltà d'indurlo ad accettare norme e istituzioni che producono il comportamento desiderato: «Il soft power si fonda sulla seduzione esercitata dalle idee o sulla tendenza a fissare l'ordine del giorno in modo che rispecchi le preferenze altrui». Non che Obama si precluda l'opzione dell'hard power: non per nulla il suo consigliere per la sicurezza nazionale (posto che fu di Henry Kissinger e, di recente, di Condoleeza Rice), il generale James Jones, è un ex comandante in capo della Nato e per di più ex comandante dei marines. Ma tutti i membri della nuova amministrazione, da Hillary Clinton a Gates a Jones, sono convinti fautori dell'uso del soft power, e della diplomazia come indispensabile complemento (e a volte inevitabile sostituto) dell'azione militare. Nelle sue conferenze, Gates cita sempre la statistica secondo cui ci sono più suonatori nelle bande militari statunitensi di quanto personale civile in missione all'estero ci sia nel Dipartimento di Stato (il ministero degli Esteri di Washington). Perciò l'ascesa di Barack Obama e della sua squadra segna la fine dell'unilateralismo e il seppellimento della «dottrina Bush» (della guerra preventiva). Si badi, il multilateralismo non sgorga da disinteressata generosità: in questa stagione di vacche magre, un approccio multilateralista ha il vantaggio di coinvolgere altre potenze nei costi umani e nelle spese finanziarie delle decisioni comuni. Meno sicuro è invece che Obama abbia compreso appieno la seconda lezione sui limiti dell'impero. Anzi le personalità stesse dei ministri che ha scelto ci fanno sospettare che la prima lezione sia strumentalizzata per negare la seconda e per seguire l'obiettivo di una restaurazione dell'impero uscito indebolito dalla disastrosa gestione Bush. Con queste nomine Barack Obama si pone cioè nella linea della più classica tradizione del Council on Foreign Relations, la fucina che ha sfornato il nerbo della diplomazia statunitense, portabandiera del realismo politico. Da questo punto di vista il «cambiamento» di Obama sembra consistere più che altro in un ritorno all'ortodossia pragmatica precedente, dopo gli anni dell'ideologismo neoconservatore. Ma il vero test per Obama, un test su cui queste nomine ci dicono ancora poco, sarà un altro, e ben più critico, da un punto di dottrina politica: le sue azioni e le sue iniziative dovranno farci capire se la sua politica esterà si muoverà ancora nell'ambito concettuale della «guerra al terrore», o se invece avrà il coraggio di abbandonare quest'idea bizzarra, strumentale e perniciosa che tante vite ha già inutilmente mietuto. Staremo a vedere.

domenica 7 dicembre 2008

Veltroni, il PD e la questione morale


Stavolta lo vogliamo dire subito e a chiare lettere: Walter Veltroni non c’entra nulla. La questione morale che gli è esplosa nel partito viene da lontano, da molto prima che lui ne prendesse la leadership. Questo ovviamente non vuol dire che lui non sapesse nulla che qualcosa stava accadendo, anche perché di questo partito, o meglio in uno dei due che gli ha dato vita, è sempre stato un dirigente di alto livello e ne è stato anche il segretario dieci anni fa. Ma oggi il problema non è lui, in discussione non è la sua leadership, non sono i suoi collaboratori che vengono inquisiti, incriminati, processati. E questo fa la grande differenza con la Tangentopoli degli anni '90. Quella sì che era una degenerazione generale e capillare, e che aveva il suo centro nelle segreterie nazionali dei partiti. Tanto che quei partiti, cioè la DC e il PSI, ne sono stati cancellati. Al momento il Partito Democratico non è in quella situazione, per sua fortuna. Ma le cose che sono accadute e che ancora accadono, da Napoli a Firenze e in altri luoghi dal Paese, segnalano che anche in questa forza politica, che nasce anche dal PCI berlingueriano, la famosa diversità comunista, c’è qualcosa che non funziona. Più di qualcosa: la commistione tra politica e affari è ormai palese, gli intrecci tra amministratori locali e costruttori, imprenditori vari, gestori di rifiuti, forse addirittura la camorra, sono oggetto di indagini e ormai anche di processi della magistratura. Ed è un qualcosa di allarmante, tanto che lo stesso segretario ha scritto ieri sul Corriere della Sera che il suo partito non ha alcuna intenzione «di essere indulgente con se stesso». Il che, tradotto in pratica, dovrebbe significare che lui stesso interverrà per dare una ripulita ove ci fosse troppa immondizia. Ma il problema non è solo giudiziario o disciplinare. È politico. E politicamente andrebbe affrontato. Per capire innanzitutto come sia stato possibile che persone con una nobile storia alle spalle siano finite in questa squallida vicenda, trascinando con loro anche l’immagine di tutto il partito. Si tratta solo di mele marce, di mariuoli, oppure è il potere in quanto tale che per essere gestito non può prescindere dagli affari, dal malaffare e dalla commistione con esso? Se fossimo in Veltroni, chiameremmo il partito a discutere di questo. A cominciare dalla Direzione nazionale del 19 dicembre e a finire, perché no?, con un congresso straordinario (straordinario nel vero senso della parola) per mettere al centro la questione morale in senso lato. La questione del potere insomma, della sua trasparenza e regolarità, di come lo si gestisce oggi e di come invece lo si dovrebbe gestire domani. Sarebbe non solo più interessante della solita e ormai noiosissima diatriba tra lui e D’Alema, ma darebbe anche al suo partito una forza di impatto del tutto nuova. Dimostrando che non ha paura di mettersi in gioco pubblicamente, chiamando i suoi iscritti, militanti, elettori, il famoso popolo delle primarie insomma, a confrontarsi su un problema che da quindici anni assilla (e disgusta) l’opinione pubblica. Speriamo lo faccia.

sabato 6 dicembre 2008

il Paese che non vorremmo vedere


L'ultimo mese dell'anno ci sta consegnando, senza troppi complimenti, la visione di un Paese (il nostro) che non avremmo mai voluto vedere. Un Paese svilito e svuotato, un Paese in preda ad una forte crisi d'identità, oltre che economica e sociale. Un Paese governato da un uomo di settantadue anni che a volte si diverte a fare cucù, a volte ci invita all'ottimismo e a comprare (cosa e con quali soldi non si sa), a volte si diletta alla faccia nostra (addirittura con due in contemporanea, come le gemelline isolane stile "triangolo sì") e il più delle volte se ne frega degli interessi di tutti (con esclusione ovviamente di parenti e amici, e amici degli amici). Tutto questo mentre nel mondo lo spettro della recessione avanza a grandi passi, e in America in particolare nemmeno l'effetto Obama riesce a drenare uno smottamento economico e sociale di tale portata. Di conseguenza, a rigor di logica, l'Italia dovrebbe essere il Paese più preoccupato e quindi più impegnato sul fronte del cambiamento, a cominciare dallo stile guida di chi ci governa. Le previsioni dicono che in nessun altro Paese ricco è attesa una recessione tanto lunga e dura. Ed i segnali si avvertono girando per le città. Neppure negli anni di piombo (o in quelli più bui delle ristrutturazioni industriali) s'era vista, ad esempio, tanta depressione a Torino, la città più manifatturiera d'Italia, da sempre convinta che ci sarebbe stato un "dopo" per tutto. Oggi questa fiducia nel dopo non esiste più: la FIAT manda in cassa integrazione i suoi operai, ma anche la MOTOROLA chiude i cancelli. Dove si troverà dunque lavoro? Difficile rispondere. Paradossalmente anche nella serietà dell'Onda (il movimento studentesco meno ludico della storia dei movimenti giovanili) si avverte la crisi. I sessantottini, gli indiani metropolitani del '77 tutto sommato si concedevano il lusso di una ribellione contro una società affluente. Questi di oggi, invece, lottano per la riconquista di una dignità del vivere quotidiano, negata alle nuove generazioni. In questa crisi, incredibilmente, soltanto i Palazzi del potere restano immobili e impermeabili. Stesse facce, stessi discorsi, identiche pagliacciate. La RAI rischia di dover lincenziare migliaia di persone (lo stesso sta accadendo alla TELECOM), ma quelli tramano per mesi intorno a una singola poltrona e alla fine la spunta, almeno per un pò, un tal Villari che sembra uscito dalla commedia all'italiana (tipo Stracult) d'altri tempi. Bisogna ridere? Ridere sì, ma per le improbabili trovate governative che, per risolvere con un colpo di bacchetta magica le problematiche mondiali, non trova di meglio che annunciarle la sera stessa nel talk show di turno. Chissà se alla fine una risata ci seppellirà (o li seppellirà). Sia come sia, comunque, un Paese così non lo vorremmo mai vedere. E nemmeno viverci.

mercoledì 3 dicembre 2008

la televisione secondo Berlusconi


A volte non si capisce se le "uscite" mediatiche del cavaliere siano teleguidate da qualcuno in particolare (forse Tremonti? forse la Carfagna? oppure Bondi?) o se sia tutta farina del suo sacco. Fatto sta che le recenti esternazioni contro le tv indigeste e i programmi televisivi inospitali (per non parlare dei direttori del Corriere e de La Stampa alquanto antipatici, per non dire altro) hanno provocato un notevole travaso di bile nel nostro illustrissimo presidente del Consiglio.
E come se non bastasse mercoledì scorso il sondaggio quotidiano di Sky Tg24 risultava sfavorevole al governo: il 53% dei telespettatori ritiene inadeguate le misure anticrisi. Segue nota indignata di palazzo Chigi: «Sky è arrivata a realizzare un sondaggio su un pacchetto non ancora varato né delineato. Complimenti!». Quel punto esclamativo avrebbe dovuto allarmare i dirigenti della pay-tv dello «squalo» Murdoch. Dal pacchetto delineato e varato due giorni dopo spunta la norma che raddoppia l'IVA sugli abbonamenti alla tv a pagamento satellitare e via Internet. Non si ha notizia dell'abbandono della sala del consiglio dei ministri da parte del premier (il suo divertimento preferito ai tempi della legge Gasparri) al momento di approvare una misura che persino la legge Frattini sul conflitto d'interessi, un'arma caricata a salve, consiglierebbe di evitare. Si ha invece notizia del «fuori sacco» discusso tra il premier e i suoi ministri: il caso Crozza, nuovo articolo del pacchetto tv che il Cavaliere, pressato dalla crisi che investe anche Mediaset e che mina il suo consenso, sta delineando da settimane. Non fatevi intervistare dal Marzullo di La7, ha intimato il premier, perché lui ha una settimana per prepararsi le domande e voi un attimo per rispondere, ha spiegato. Dimostrando in un solo colpo cosa sia per lui un'intervista e quanto ritenga brillanti i suoi ministri. Sua emittenza fa così: prende la mira, aspetta di vedere l'effetto che fa e poi spara. Da giorni ci informava di un suo zapping domenicale: in quella rara occasione di relax ha trovato ben otto trasmissioni che lo dileggiavano. Facile immaginare che Crozza Italia fosse tra queste. Più difficile arrivare a contare tutte le altre sette. Sì, la domenica c'è Blog e l'osceno del villaggio di Enrico Bertolino (già "frantumato" dal poeta del ventunesimo secolo, alias Sandro Bondi). Lo stesso Bondi che, secondo il pacchetto anticrisi, dovrebbe applicare il nuovo codice del comune senso del pudore, valutando quali prodotti artistici siano porno e quali no, per poi far scattare la porno-tax. «Eticamente non corretto», era la sentenza emessa per Bertolino dal titolare dei beni culturali che, scopriamo ora, si stava allenando per la sua nuova attività di sex-buster. Poi la domenica c'è Fabio Fazio. Prima del "PD day" del 25 ottobre, i forzisti tuonavano perché aveva invitato Veltroni. Che, fatto uscire dalla porta di Raiuno (la sua partecipazione a Domenica In era saltata grazie a una tempestiva circolare che escludeva i politici dai programmi di intrattenimento) rientrava dalla finestra di Raitre. Raitre e il Tg3: ultimamente il chiodo fisso del cavaliere. Ma Berlusconi va a reti unificate. Deve tappare tutte le crepe. Tra i programmi da boicottare ha persino inserito Porta a Porta (il che è tutto dire). Ma Vespa, invece di pensare al Palazzo, continua a chiedersi se «gli italiani sono contrari al nudo in tv» come ha fatto mercoledì scorso (Aldo Grasso sul Corriere si indigna: ma Vespa voleva solo fronteggiare la crisi collaborando con Bondi). Oppure confezioni altri spot, come quello per "La fidanzata di papà", il film con Simona Ventura, distribuito da Medusa (di proprietà del cavaliere, naturalmente). Sintesi esemplare, quel Porta a Porta con tanto di siparietto pecoreccio sull'abbronzato Obama; dimostrazione di come gli interessi del premier, portafoglio e propaganda, viaggino insieme. Così come nell'ultimo consiglio dei ministri, un colpo alla concorrente Sky, uno all'insolente Crozza. Non è come il 2002 ai tempi dell'editto bulgaro, giurava Enrico Mentana in una recente puntata di Matrix sulla satira. In effetti, è sempre peggio. Molto peggio!

martedì 2 dicembre 2008

gli agnelli & gli avvoltoi


Dire che ci troviamo in una situazione di emergenza economica e sociale è come dire che la palla è rotonda. La preoccupazione di milioni di italiani, di centinaia di migliaia di famiglie, è evidente e lapalissiana. Non si arriva alla quarta settimana, forse nemmeno alla terza. Ci si indebita con le finanziarie anche per poche centinaia di euro, giusto in tempo per pagare una bolletta della luce o del telefono imprevedibilmente troppo alta. Ci si indebita anche per altro, motivi gravi compresi. E quando le finanziarie non ci aprono più la porta, le banche nemmeno a parlarne, eccoci costretti a ricorrere ad una banca anomala, sempre aperta e sempre disponibile: la banca dell'usuraio. Domenico Balducci, alla fine degli anni 70, aveva una bottega a Roma, a Campo de’ Fiori, e in vetrina un cartello avvertiva: «Qui si vendono soldi». Mimmo er Cravattaro col tempo fece strada e da semplice usuraio di quartiere divenne uno dei pezzi grossi della famigerata Banda della Magliana e poi grande esperto di riciclaggio di denaro sporco, fino al suo omicidio nel 1981. Anche Geremia de’ Geremei, il paralitico del film “L’amico di Famiglia” di Paolo Sorrentino, era un usuraio nell’Italia di provincia dell’agropontino. Ma più che a lui è a Mimmo er Cravattaro che somiglia l’usuraio del ventunesimo secolo ritratto da Sos Impresa, l’associazione di Confesercenti contro il racket, nel rapporto presentato ieri a Roma e redatto per conto del Cnel. Perché «l’usura – si legge nel primo capitolo del lavoro - è sempre più un reato associativo. Al tempo stesso è diventato crocevia di altri reati economici, dalle truffe al riciclaggio; un reato sempre meno denunciato anche perché di fatto depenalizzato, a causa di tempi giudiziari lunghissimi, che mettono le vittime in continuo stato di difficoltà e di ricatto». Una situazione che si fa ogni giorno più pericolosa a causa della crisi economica che ha investito il Paese. Anche perché, in molte occasioni, le banche non sono certo di aiuto fra condizioni troppo stringenti per la concessione di un credito e tassi di interesse che spesso crescono inspiegabilmente, lievitando fin quasi a sfiorare(o addirittura a superare) la soglia dell’usura. Ma l’Italia è un paese indebitato. «Recenti dati della Banca d’Italia – scrive infatti Sos Impresa - indicano che, tra prestiti e mutui, il ricorso a banche e finanziarie sfiora la soglia dei 300 miliardi, con una crescita di 24 miliardi in soli 12 mesi. A fine aprile 2007, sempre secondo l’Istituto di via Nazionale, l’indebitamento dei cittadini residenti ha raggiunto la vetta di 299 miliardi di euro, una media di 13mila euro a famiglia». Una esposizione testimoniata anche dall’Istituto Tagliacarne secondo cui il debito delle famiglie italiane è raddoppiato passando dai 60mila euro del 1993 ai 121mila euro del 2006. Per un totale che, secondo l’ultimo bollettino della Banca d’Italia, ha ormai raggiunto la cifra di 350 miliardi di lire, pari al 49% del Pil nazionale. Pensare che nel 2001 la percentuale superava di poco il 30%. Il "mercato" cresce e fa gola alle mafie, attratte dalla possibilità di nuovi guadagni e di ingressi nascosti nell’economia pulita. Secondo la Consulta Nazionale Antiusura, infatti, il giro d’affari del credito illegale si aggira intorno ai 25mila miliardi delle vecchie lire e coinvolge oltre 2 milioni di famiglie. I tassi praticati dalle organizzazioni criminali oscillano fra il 120 ed il 240% annuo (10-20% mensile) con punte che arrivano fino al 500%. «È sotto questo duplice aspetto che l’usura entra nell’interesse mafioso (si legge nel rapporto del Cnel). Offrire un servizio funzionale, (nell’estorsione è la protezione, in questo caso è il credito) per continuare ad affermare un criterio di sovranità nei luoghi in cui agisce; in secondo luogo, svolge una funzione alternativa al riciclaggio, consente di costruire legami stabili con settori dell’economia legale, acquisendo costanti flussi di liquidità che permettono di realizzare quello che tecnicamente viene chiamato laundering, cioè quella fase che mira ad allontanare quanto più possibile i capitali dalla loro origine illecita». E come se non bastasse, l’usura si accompagna sempre più ad altri reati: nel 64%, dei casi infatti, si verificano anche episodi di intimidazioni violente addirittura prima che le vittime, ormai strozzate e senza via d’uscita, presentino denuncia. Ma pochi denunciano, nonostante il fenomeno sia in costante crescita. A fare paura nei dati elaborati da Sos Impresa è il «calo sistematico ed apparentemente inarrestabile delle denunce». I numeri del 2005 e del 2006, da questo punto di vista, sono impressionanti e segnano un preoccupante -11%. E se nel 1996, anno di entrata in vigore della nuova legge contro l’usura, le denunce erano 1.486, nel 2006 si è scesi a quota 431. A scoraggiare le vittime, secondo Sos Impresa e Cnel, ci sarebbe innanzitutto la lentezza dell’iter giudiziario che spesso significa impunità per gli usurai: soltanto il 19% delle denunce, infatti, produce un rinvio a giudizio entro l’anno, e solo il 9% arriva ad una sentenza di primo grado in un periodo di 12 mesi. Il 49% dei denuncianti, invece, è costretto ad aspettare due o tre anni per vedere rinviati a giudizio i propri aguzzini, mentre il 36% deve attendere più di 4 anni per una sentenza, con punte anche di dieci anni di attesa. Non sorprende, allora, che nel 18% dei casi sia la prescrizione a cancellare tutto. Di pari passo con la trasformazione della figura dell’usuraio, cambia anche il profilo della vittima. Sempre meno famiglie in ritardo con le rate e le bollette, sempre di più imprenditori in difficoltà con le banche e i fornitori: erano il 19% nel 2002, adesso sono il 28% delle persone interessate dal fenomeno. Nel 75% dei casi si tratta di piccole imprese, operanti per lo più nel commercio (47%). I settori più colpiti sono la ristorazione (26%), abbigliamento e calzaturiero (23%) e commercio ambulante (20%). Nel mondo dell’impresa, invece, i più colpiti sono gli edili (35%), le aziende agricole ed ittiche (29%) ed il settore alberghiero-turistico (15%). A banche e istituti di credito spetterebbe di vigilare e agevolare il prestito “legale” per sottrarre centinaia di potenziali clienti al mercato dell’usura. Secondo il Cnel, però, il compito è svolto soltanto in parte («le nuove regole in materia di bilancio – si legge nel rapporto – hanno reso estremamente complicato l’accesso al credito») mentre addirittura iniziano a verificarsi casi in cui sono proprio le banche a trasformarsi in usurai fra commissioni che lievitano, costi non preventivati e interessi sempre più complicati da definire. Tanto che nel gennaio 2006 la Banca d’Italia ha inviato a tutte le filiali una sorta di vademecum per calcolare le commissioni nel pieno rispetto della legge. Precauzioni che non sono servite ad evitare il verificarsi di vicende come quella capitata ad un imprenditore della piana di Gioia Tauro la cui denuncia ha portato all’emissione di 41 avvisi di garanzia per il reato di usura nei confronti dei responsabili di sei fra i più importanti istituti di credito italiani. «Per la prima volta – scrive il Cnel - ha assunto rilevanza penale un comportamento che, al massimo, aveva sollevato controversie di natura civilistica». Ma non è un caso isolato: la procura di Ascoli Piceno, infatti, ha iscritto nel registro degli indagati 68 fra presidenti, direttori generali o di filiale e vari responsabili di area di nove istituti di credito. Alcune posizioni sono state archiviate, ma anche in questo caso l’inchiesta procede e se ne peseranno presto i risultati. Almeno si spera...