l'Antipatico

mercoledì 30 aprile 2008

trombati ma con il portafoglio gonfio


Il cosiddetto tsunami elettorale ha mandato a casa molti volti noti della politica italiana. Volti abbastanza abbacchiati e tristi, almeno fino a qualche giorno fa, quando gli uffici di presidenza di Camera e Senato, in occasione della riapertura per la XVI legislatura della Repubblica Italiana, hanno comunicato ai vari trombati le spettanza economiche di fine carriera. Scorrendo la lista dei nomi e delle relative cifre, ci siamo fatti l'idea che questi vecchietti cassati dal voto degli italiani del 13 e 14 aprile non se la passeranno poi tanto male, tra un giro di burraco e una partita alla Bocciofila, tra una presenza a qualche riunione di ex parlamentari riuniti ad una partita a tresette. Non se la passeranno male perchè tra Trattamento di Fine Rapporto e la pensioncina non proprio da Partito dei Pensionati i nostri trombati potranno ancora permettersi un lauto pranzo al desco del "Bolognese" a piazza del Popolo o da "Fortunato" al Pantheon, senza necessità di questue o di richieste ai parenti. L'elenco si apre con Fausto Bertinotti che, lasciato lo scranno più alto di Montecitorio, si consola con un bel gruzzoletto: 131.068 euro di TFR e la pensione di 6.000 euro, oltre a un bell'ufficio, il diritto a quattro collaboratori e la presidenza della Fondazione Camera dei deputati (senza stipendio). Generosi vitalizi e assegni di fine mandato ('reinserimento nella vita sociale') sono però la consolazione anche di altri illustri esclusi. Come Ciriaco De Mita: per 43 anni di Parlamento (prima con la Dc, poi con la Margherita, infine candidato ma non eletto con l'Udc) 9.947 euro al mese di pensione e 112.344 di tfr, solo per gli ultimi 12 anni consecutivamente in carica. Stessa pensione per Angelo Sanza (anche lui ex Dc, Fi, non rieletto con l'Udc), 36 anni tra i banchi e buonuscita di 337.032 euro. Ottomila 828 euro al mese per Francesco D'Onofrio (22 anni, prima con la Dc poi con l'Udc) e fine mandato di 168.516 euro, solo per gli ultimi 18 anni. Per Gavino Angius (ex Ds, non rieletto con i socialisti), 21 anni, vitalizio di 8.641 e liquidazione di 196.602. Sedici anni di carriera per Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) e Teodoro Buontempo (La Destra): 6.963 euro di pensione e 149.792 di liquidazione. Stesso assegno mensile per Cesare Salvi (Sinistra democratica) e 153.664 euro di tfr. Con 14 anni Oliviero Diliberto (Pdci) ed Enrico Boselli (partito Socialista) hanno diritto a 6.217 euro al mese e 131.068 di fine mandato, come Bertinotti. Per Franco Giordano (Prc) e Paolo Cento (Verdi) 12 anni di Montecitorio significano 5.471 euro di vitalizio e 112.344 di buonuscita. Otto anni per Francesco Storace (La Destra): 3.978 euro e 19.208 di fine mandato, per gli ultimi due anni. Infine, Daniela Santanchè (candidata premier per La Destra) che, con sette anni, accumula 3.605 euro di pensione e 65.534 di tfr. A tutti questi arzilli personaggi auguriamo una serena e gaudente vecchiaia da pensionati più che abbienti...

martedì 29 aprile 2008

la caduta della Roma piaciona


Tra tutte le analisi politiche e sociologiche del giorno dopo sulla vittoria di Gianni Alemanno e sulla conquista del Campidoglio da parte della Destra, quella più vicina alla realtà (e alla nostra personale condivisione) è senza ombra di dubbio l'editoriale del notista politico del Corriere della Sera. Infatti l'analisi di Massimo Franco è dura e tagliente, senza fronzoli e frasi fatte, colpisce il cuore del problema (della Sinistra) e invita alla riflessione i quadri dirigenti del neonato Partito Democratico affinchè ci sia un'assunzione di debite (e ripartite) responsabilità al fine di ricostruire un futuro duramente colpito, ma non affondato, dal tremendo doppio ko delle elezioni del 13 e 14 aprile e di quelle del 27 e 28. Vi riproponiamo integralmente l'articolo di Massimo Franco intitolato "Non solo Roma". Buona lettura. Il significato storico della vittoria di un esponente della destra ex missina nella capitale d’Italia non va sottovalutato. Gianni Alemanno sindaco di Roma rappresenta uno spartiacque che legittima pienamente l’arco costituzionale della Seconda Repubblica: postfascista, più che antifascista; almeno non nel senso un po’ ossificato e molto strumentale nel quale una parte della sinistra ha continuato a rappresentare e svilire un valore fondante come l’antifascismo. Ma proprio per questo, accreditare una continuità fra il Gianfranco Fini avversario perdente di Francesco Rutelli nel 1993, e l’Alemanno vincente di ieri, può risultare fuorviante. Si tratta di una continuità indubbia e insieme parziale.
Alemanno non ha vinto solo in quanto uomo con un marcato profilo di destra, ma come candidato di una coalizione capace di parlare insieme alle periferie capitoline ed al ceto medio; e di riscuotere consensi al Nord come al Centro e al Sud. In questo senso, riequilibra l’impronta «nordista» e leghista del voto politico. Forse, a spiegare meglio la conquista del Campidoglio da parte del Pdl è il fatto che il centrosinistra abbia presentato lo stesso volto del 1993: un ex sindaco che pure in passato aveva fatto bene. Ma che evidentemente appariva «vecchio », espressione di un modello amministrativo datato. Per questo è stato ritenuto incapace di captare i cambiamenti avvenuti non solo nel Paese ma nella stessa capitale, governata ininterrottamente prima da lui e poi da Walter Veltroni.
Il Pd sperava di arginare la marea berlusconiana del 13 e 14 aprile proprio nel ballottaggio a Roma. L’onda, invece, è diventata ancora più potente e distruttiva. La voglia di ordine, sicurezza e cambiamento da parte dell’elettorato ha spazzato via l’equilibrio impossibile di una capitale in bilico fra magìe cinematografiche e periferie abbandonate a se stesse. Si può anche ammettere che sul voto ad Alemanno abbiano pesato la paura e l’indignazione per i recenti stupri di donne. Ma questa è un’aggravante, non un’attenuante per l’amministrazione uscente. La verità è che il Pd e la sinistra in generale non sono riusciti ad opporre alla candidatura del nuovo sindaco nulla che non fosse già sentito e, alla fine, stantìo: le foto in bianco e nero di Alemanno «picchiatore» negli anni Settanta; l’indignazione per l’incontro fra Silvio Berlusconi ed il senatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico, «fascista non pentito », proprio il 25 aprile; l’evocazione dello spettro leghista e antiromano. E via di questo passo. Il risultato paradossale è stato quello di dilatare la sensazione del vuoto strategico del centrosinistra; di mostrare in bianco e nero non il Pdl ed il suo «uomo senza qualità», ma un Pd che invece pretendeva di presentarsi nuovo di zecca, ed invincibile nella sua roccaforte capitolina.
A questo punto, il problema non è più soltanto l’eredità governativa di Romano Prodi. Di fatto, il risultato del ballottaggio per il Campidoglio lesiona la leadership veltroniana e di tutto il «gruppo romano» che ha costruito il Pd e la sua strategia solitaria. Ma soprattutto, lascia indovinare una crepa in quel «partito dei municipi » che ha sempre rappresentato il cuore duro del potere del centrosinistra in Italia; e che sembrava al riparo da qualunque sconvolgimento nazionale. È come se di colpo il gruppo dirigente si svegliasse da un lungo sonno. E scoprisse che la realtà, dispettosamente, non ha assecondato le loro convinzioni. Si tratta di una sorta di «sindrome di Ecce bombo» collettiva: la stessa di quei ragazzi di sinistra immortalati nel 1978 dal regista Nanni Moretti nel film omonimo. Raccontava la storia di un gruppo di amici che erano andati a dormire sulla spiaggia aspettando l’alba; e che alla fine si accorgevano che il sole era spuntato non dove credevano, ma alle loro spalle: una metafora degli abbagli culturali, prima che politici, della sinistra. L’immagine di un Pd convinto di tenere Roma, il quale assiste invece al trionfo di Alemanno ed ai caroselli selvaggiamente gioiosi dei tassisti, fa impressione più che se fosse diventato sindaco Umberto Bossi. In fondo, il leader dei lumbard poteva essere considerato un invasore. Alemanno, invece, incarna la rivolta delle viscere della capitale contro chi l’ha governata negli ultimi anni: e neppure così male. È un monito per gli sconfitti, e per i vincitori.

domenica 27 aprile 2008

alla conquista di Roma




Nella giornata di oggi e in quella di domani si svolgeranno le votazioni per il ballottaggio tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno nella corsa alla carica di sindaco di Roma. In queste due settimane di campagna elettorale aspra, dai toni duri e sempre vicendevolmente accusatori, molti opinionisti di livello hanno detto la loro, appoggiando ora l'uno ora l'altro dei candidati. Proprio stamani abbiamo letto un bell'articolo di Ilvo Diamanti su la Repubblica (http://www.repubblica.it/2008/04/sezioni/politica/elezioni-2008-sei/diamanti-bipolarismo/diamanti-bipolarismo.html) e poi quello di Eugenio Scalfari sul medesimo quotidiano (http://www.repubblica.it/2008/04/sezioni/politica/elezioni-2008-sei/scalfari-specchio-rotto/scalfari-specchio-rotto.html), ma quello che ci ha colpito di più è stato l'articolo scritto da Lucia Annunziata e pubblicato in prima pagina su La Stampa di Torino, dal titolo "L'assalto alla Grande Meretrice" che vi vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura. E buon voto!
Che un vento politico avviatosi quasi quindici anni fa al grido di «Roma Ladrona» si scateni alla fine proprio su Roma, non è affatto sorprendente. A pensarci, anzi, non poteva che concludersi così. Quel sentimento contro Roma, iniziato come bandiera del separatismo leghista si è via via gonfiato, nel corso dell'ultimo decennio, di malcontenti e significati sempre più intensi. La Capitale è diventata il simbolo dei Palazzi, del Privilegio, dei Salotti, degli Accordi, e infine, tutta insieme, della Casta, il terreno dove fermenta, e si riproduce all'infinito, una classe dirigente, papalina o laica, estremista o moderata, tutta omologata alla fine da una cultura dell'immagine, della Tv, della distanza dal resto del Paese, e, dunque, dell'inefficienza. Avremmo avuto il risultato che c'è stato a queste ultime elezioni se al leghismo non si fosse coniugato questo sentimento Anti Casta? Avrebbero votato a destra pezzi della sinistra se le critiche alle élite politiche romane non si fossero fatte così aperte, dolorose ed esplicite ? D'altra parte, il sentimento contro Roma «la Grande Meretrice» dell'Apocalisse di Giovanni, di San Bonaventura e di Lutero, non è la prima volta che spunta nella storia; e non sarà nemmeno l'ultima. La contesa per Roma, anche in epoca moderna, ha sempre segnato l'inizio e la fine di fasi storiche: la Repubblica Romana del 1849, la breccia di Porta Pia, la fuga dalla capitale del Re Vittorio Emanuele III nel 1943, Roma città aperta, Roma delle Fosse Ardeatine, e quella degli scontri di piazza più violenti della storia repubblicana fra estremismi negli Anni Settanta. Tutto alla fine in Italia torna su Roma, prepotentemente. Non ci vuole molto dunque a capire perché la sfida per la guida della Capitale, per cui si vota oggi, abbia catalizzato l'interesse e le passioni dell'intera nazione: lo scontro fra Rutelli e Alemanno ha infatti preso nei fatti il significato di una verifica del voto nazionale. Se anche Roma passa al centro-destra è la certificazione definitiva della forza del prossimo governo Berlusconi; se invece il centro-sinistra mantiene la capitale che ha guidato negli ultimi anni significa che non tutto è perduto, che proprio da Roma ricomincia subito la sua riscossa. Ma è giusto vivere così intensamente questo scontro, o non è il solito riflesso mediatico, la solita proiezione, buffonesca e dissacrante, che Roma ama fare di sé stessa come nel brillante e autoreferenziale circuito intellettuale di Dagospia? Purtroppo no. Sarebbe più rassicurante per tutti ridurre a un fatto nervoso la tensione di queste ultime ore fra Alemanno e Rutelli. La verità è che questa corsa elettorale merita tutta l'attenzione che ha. Al di là dei luoghi comuni, e dei difetti, Roma rimane infatti il punto determinante nella gestione dello Stato. In maniera diversa da Milano, certo. Ma forse più rilevante. Se Milano decide infatti la composizione del potere, è a Roma che si definisce invece l'equilibrio del potere. Le forze che vi si muovono, pure così sfacciate e mondane per certi versi, sono la necessaria e inevitabile terra di cultura di ogni dialogo possibile; il luogo naturale in cui si scuciono e si ricuciono, ben prima della mediazione parlamentare, idee e rapporti di forza. La capitale è insomma tradizionalmente la camera di compensazione del governo nazionale. Ha davvero un governo centrale bisogno di una funzione di questo tipo alle spalle, ci si potrebbe chiedere? Si potrebbe dire no, e farci anche una bella figura, appagando un po' di populismo anticasta (tanto a noi giornalisti non costa molto). Ma la verità è che tutte le idee e le mosse di governo hanno sempre bisogno di essere saggiate, provate, delineate prima di essere operative, e non tutti questi passaggi sono «inciucio». Da Roma operano le grandi Banche, e la Banca d'Italia, le direzioni delle industrie di Stato; operano Confindustria, i Sindacati, quasi tutta l'industria culturale italiana, sicuramente quella del cinema e della televisione, e sedi centrali o nazionali di molti giornali. Roma è il Papa, è la Vecchia Aristocrazia, nonché il paradiso dei Grandi Padri della Repubblica, e dei tecnici dell'alta burocrazia che mai cambia mentre tutto cambia. In questa città, che è anche il centro fisico della nazione, tutti questi poteri formidabili colloquiano con la Politica del governo. Filtrano opinioni e ipotesi, ricevono stimoli e segnali, aggiustano con il dito mignolo la direzione di una palla di neve, prima che arrivi a diventare una slavina. La ragione per cui posti «leggeri» come il ministero dei Beni culturali, o presidenze di istituti culturali, siano molto ambiti: la cultura è a Roma il liquido facilitatore di ogni rapporto. Tutto questo è spesso definito, come si diceva, trasversalismo amorale, decadenza dei salotti. E' talmente forte questa idea che Bertinotti è caduto proprio sulle accuse di essere entrato in questo gioco. E certamente c'è sempre dietro l'angolo il pericolo che il dialogo divenga accordo, e l'accordo diventi criminale. Ma non è necessariamente così. Roma sta al governo italiano come Washington sta al governo Usa, e come Parigi e Londra e Mosca stanno ai loro rispettivi governi. Nelle democrazie c'è sempre bisogno di una sorta di Bicamerale degli intenti, se non delle decisioni, e Roma è da anni la Bicamerale d'Italia a cielo aperto. Che arrivi a guidarla dunque Rutelli o Alemanno farà una grande differenza non solo in termini di voti, ma anche e soprattutto nell'allineamento fra politica e poteri. Milano ha già fornito la prima tessera di questo equilibrio; Roma completerà, in un verso o in un altro, il puzzle.

sabato 26 aprile 2008

il turismo secondo Berlusconi


Ce lo aspettavamo prima o poi una decisa presa di posizione del cavaliere a sostegno della candidatura a sindaco di Roma dell'ex picchiatore fascista Gianni Alemanno. Ce lo aspettavamo ed eravamo altrettanto certi che avrebbe fatto rumore (oltre che la solita figura di emme), come giustamente ha rilevato in un suo intelligente articolo Roberto Cotroneo pubblicato su l'Unità, dal titolo "Vade retro turista" che vi vogliamo riproporre integralmente. Buona lettura. Se fossi Berlusconi resetterei tutto. Se questa volta, la vittoria del Cavaliere doveva essere più interlocutoria e pacata, più matura e disponibile a un dialogo, meno tinta dai «siete tutti comunisti, e amenità di questo genere, beh, allora forse la partenza sarebbe proprio da rifare. In pochissimi giorni dai risultati delle elezioni, con il governo neanche formato, e le Camere ancora da aprire, non ne ha fatta una giusta. Le prime le sappiamo. Il mitragliatore contro la giornalista russa che aveva fatto una domanda sulla vita privata di Putin, gli spettacoli del bagaglino in Sardegna. La micidiale «afflizione» per un governo che si annuncia degno del peggior manuale Cencelli, con le liti con la Lega iniziate con un tempismo sorprendente. E ora l’ultima, che non è affatto una piccola cosa e che purtroppo spiega moltissimo. Tutto nasce da un articolo del New York Times, ripreso poi nell’edizione europea dell’Herald Tribune, dove si dice che Roma è una città sicura, sicura come mai era stata dai tempi dell’Impero. Il sacrilego New York Times non si inventa nulla, naturalmente, e che Roma sia sicura non è una percezione, ma un dato di fatto, statistiche dei crimini alla mano. Questo non vuol dire che sia una città perfetta, e che non accadano episodi anche raccapriccianti. Ma se messa a confronto con altre capitali europee, e anche a certe città italiane, Roma è città sicura, e negli ultimi anni anche piacevole. Merito di Rutelli prima e di Veltroni poi? Senza dubbio. Ma questo a Berlusconi non va giù. E dimenticandosi di essere diventato il prossimo capo del Governo, dimenticandosi che Roma è la capitale d’Italia e che non siamo alle solite comiche che cosa fa? Attacca il New York Times, e la mette in politica, con i toni consueti. Si inventa che è un giornale di pericolosi progressisti, e che i progressisti italiani coccolano i progressisti dei giornali americani. Ovviamente non osa dire che il più importante giornale americano è diretto, governato e controllato da pericolosi comunisti. No, questo no. Lui li chiama «progressisti», e dice esattamente: «Questi giornalisti che scrivono sui giornali progressisti degli altri Paesi sono coccolati dalla sinistra qui. E questo la sinistra lo sa fare molto bene». E cosa aggiunge? Dice che Roma «ora è al disastro. Bisogna voltare pagina per avere una capitale più pulita, più vivibile». Insomma il New York Times non ha capito nulla. E dunque che gli americani se ne facciano una ragione. A Roma è meglio non venirci, i cattivi bolscevichi Rutelli & Veltroni l’hanno ridotta male. E non è proprio il caso di capitare da queste parti. Bene, questo non è solo ridicolo, è addirittura grottesco. Perché ve lo immaginate un Sarkozy che dissuade gli stranieri dal passare i week end a Parigi perché le periferie sono in fiamme? O George Bush che avverte gli europei di non farsi vedere a Washington o a New York perché sono disastrose e non sono sicure? No, nessuno se lo immagina. Ma lui, Silvio Berlusconi, il nuovo capo del governo di questo Paese, ritiene che il più importante giornale del mondo sia costituito da una cricca di amichetti progressisti che fanno favori ai nostri politici di sinistra, e che a Roma è meglio non venirci. Per la gioia, si intende di tutti quelli che a Roma poi votano per il centro destra da sempre. Gli amati tassisti che non vedono l’ora di lavorare con gli americani scarrozzandoli tra Fiumicino e il centro storico, con i negozianti che vendono griffe ai turisti stranieri, con i ristoratori che campano da sempre di turismo. Naturalmente Roma è solo un far west, un luogo oscuro dove si rischia grosso. Non è una città che ha ritrovato una sua identità culturale vera, non è una città con un’offerta di eventi come poche altre capitali europee. Se ne accorgono tutti, tranne Alemanno e Berlusconi. La sicurezza certo che è un problema. Ma questo è autolesionismo. Ed è autolesionismo di tipo ossessivo. E alla fine la campagna elettorale prevale sul buonsenso, sulla correttezza, e sulla statura istituzionale. Per essere il preludio dell’inizio dell’era Berlusconi non c’è da stare allegri. E per niente.

venerdì 25 aprile 2008

oggi, 10 anni fa




Il 25 aprile del 1998 l'Italia era sotto choc per gli omicidi del serial killer ligure (quello che poi si scoprì essere Donato Bilancia). Il giornalista del Corriere della Sera che seguì all'epoca l'inchiesta ancora oggi fa parte della redazione del quotidiano milanese. Si chiama Fabrizio Gatti e questo è l'articolo che scrisse, intitolato "Una sola pistola per almeno cinque omicidi". Buona lettura. Ecco la prima prova di laboratorio. Una sola rivoltella calibro 38 ha ucciso i due metronotte a Novi Ligure e tre delle quattro prostitute trovate morte tra Genova e Savona. Cinque esecuzioni e una sola firma, in meno di due mesi. Tutte con pallottole in piombo tenero, senza incamiciatura, forse del tipo "soft" da poligono. Per l'altra ragazza di strada c'e' solo il sospetto che sia stata assassinata dal serial killer della riviera: il proiettile, indispensabile per le analisi balistiche, non e' stato trovato. Manca ora l'esame sulle pallottole che hanno colpito alla nuca l'infermiera Elisabetta Zoppetti, 32 anni, a Pasqua sull'Intercity La Spezia - Venezia e la colf Maria Angela Rubino, una settimana fa sul Genova - Ventimiglia. I risultati del Centro di investigazioni scientifiche di Parma dei carabinieri arrivano in giornata alla Procura di Genova. E subito i magistrati si riuniscono in un lungo vertice. Dura sette ore. Con il procuratore genovese, Francesco Meloni, ci sono i colleghi di Alessandria per i metronotte di Novi Ligure, e di Savona per le prostitute trovate tra Pietra Ligure e Varazze. "Si' - ammette il procuratore Meloni - abbiamo ricevuto gli esiti delle analisi balistiche su alcuni reperti. Il risultato e' interessante dal punto di vista della connessione tra gli omicidi. I tecnici faranno altri approfondimenti. Al momento, con questi esami, quello che e' successo sui treni non c'entra ancora". Anche senza perizie, comunque, il legame con uno dei due omicidi nelle toilette ferroviarie non e' escluso, anzi. L'assassino dei metronotte di Novi Ligure, descritto dal transessuale che stava per essere ucciso, assomiglia a un passeggero visto da alcuni ferrovieri alla stazione di Ventimiglia poco prima della scoperta del cadavere di Maria Angela Rubino. I due identikit sono quasi sovrapponibili. E' un uomo sui 50 anni, con la pelle rugosa, l'aspetto distinto. I dipendenti Fs lo ricordano con il volto un po' piu' allungato. Ma il profilo del naso, le orecchie, le borse sotto gli occhi raffigurano forse la stessa persona. Il serial killer si guarda allo specchio della toilette, quando spara. Lo si deduce dalla posizione dei cadaveri dell'infermiera e della colf. La polizia spera che il suo volto sia rimasto impresso sul nastro della Tv a circuito chiuso di un bar, nella stazione di Ventimiglia. Sempre che si sia fermato li'. La carneficina comincia la notte di domenica 8 marzo: la prostituta albanese Stela Truya viene uccisa con un colpo di pistola alla testa, sulla scogliera a Varazze. Scomparsi i vestiti e il proiettile, forse finito in mare. Mercoledi' 18 marzo, festa a Savona, tocca all'ucraina Ljudmjla Zuskova, a Pietra Ligure: l'assassino, notato su una grossa auto scura, spara alla nuca, proteggendosi con il maglione della vittima. Lunedi' 23, a Novi Ligure, i due metronotte: colpiti al corpo, poi alla testa. C'e' anche l'identikit. Domenica 29 marzo, la nigeriana Tessy Edogaye viene vista salire sulla Mercedes di un uomo che conosce: cade a Cogoleto, con una pallottola al ginocchio mentre tenta di fuggire e la seconda alla nuca. Lunedi' 13 aprile, Pasquetta, il serial killer uccide l'albanese Kristina Kvalla, trovata a Pietra Ligure: proiettile alla nuca, con la protezione del giubbotto della ragazza. Il giorno prima, a Pasqua, il primo omicidio sul treno. Sabato 18 aprile il secondo, sul Genova - Ventimiglia, scatena la paura. Ieri sulla vicenda e' intervenuto anche il ministro degli Interni Napolitano: "Stiamo lavorando con i nostri uomini migliori". La paura del serial killer della Riviera blocca i treni. L'altra sera l'Intercity Milano - Ventimiglia ha dovuto fermarsi alla stazione di Diano Marina: sono arrivati i carabinieri perche' tre passeggere avevano segnalato che la toilette di una carrozza era chiusa da tempo. Dopo un quarto d'ora di attesa e controlli, il viaggio e' ripreso. Da ieri la polizia ferroviaria di Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto e Toscana e' mobilitata per scongiurare una nuova sfida del maniaco assassino. Ma la vigilanza non basta a eliminare la psicosi nel week - end del 25 aprile. Su un espresso partito dalla Puglia, un uomo e' stato segnalato dai passeggeri agli agenti Polfer ben 12 volte. Era alto, sui 50 anni, capelli brizzolati. Piu' o meno come uno dei personaggi raffigurati dagli identikit in circolazione. Ma era soltanto un funzionario di polizia in borghese. Gli uffici della Polizia ferroviaria annunciano di aver raddoppiato il numero delle pattuglie sui treni. Le questure liguri hanno inviato loro agenti per aiutare i colleghi della polizia ferroviaria. Mentre scatta il piano proposto dal prefetto di Imperia, Emilio D'Acunto: i viaggiatori saranno concentrati in pochi scompartimenti e le carrozze vuote verranno chiuse, in modo che nessuno resti isolato. "Molte volte - racconta un sottufficiale della Polfer - le signore e le ragazze ci chiedono perfino di essere accompagnate alla toilette, perche' hanno il terrore di rimanere sole ed essere aggredite". E' come se ogni giorno il serial killer facesse sentire la sua presenza su tutti i treni: l'effetto della paura per il maniaco armato di revolver calibro 38. Le prostitute, primo bersaglio della carneficina cominciata meno di due mesi fa, si sono organizzate. Viaggiano in gruppo, divise in base alla loro nazionalita': perche' il pericolo del serial killer non ha comunque cancellato le loro rivalita'. Ma soprattutto si muovono tenendo sempre il cellulare a portata di mano, pronte a chiamare le forze dell'ordine nel caso di un'aggressione. Alcune delle prostitute uccise avevano un telefonino, scomparso con il loro assassino. A La Spezia continuano intanto gli accertamenti sull'ex commerciante accusato da una lucciola nigeriana di averla rapinata. L'uomo, 43 anni, di enorme corporatura, che non coincide con nessuno degli identikit, e' stato arrestato anche per aver tenuto in auto una rivoltella calibro 38: il porto d'armi era scaduto e la pistola sarebbe dovuta rimanere a casa. La sua famiglia, a capo di una ditta di autonoleggio, e' proprietaria di due Mercedes blu, lo stesso tipo di quelle segnalate dal transessuale scampato a Novi Ligure. Le uniche due iniziali della targa che il viado ricorda, sono "Am". Le targhe delle due Mercedes sequestrate dai carabinieri a La Spezia cominciano invece per "Ac" e "Sp". La prossima settimana i magistrati che indagano sul serial killer potrebbero chiedere un confronto tra l'ex commerciante arrestato e il supertestimone di Novi Ligure, mentre si attendono i risultati dell'esame sulla calibro 38.

oggi, 20 anni fa




Alcuni post che abbiamo scritto nell'ultimo periodo si rifanno a notizie ed avvenimenti di 30 e 10 anni fa. Abbiamo deciso di colmare la lacuna, evidenziando ogni tanto anche notizie e articoli di 20 anni fa. Ed esattamente il 25 aprile 1998 Marco Panara scrisse per la Repubblica Affari & Finanza un bellissimo pezzo, dedicato a un umprenditore che all'epoca ancora non era sceso in campo e ancora non aveva l'appellativo universalmente riconosciuto di cavaliere. Stiamo parlano ovviamente di Silvio Berlusconi, a quel tempo alle prese con il Milan asso pigliatutto, con la Fininvest e i contratti miliardari per le stelle della tv (Baudo, Carrà, Bonaccorti). Vi riproponiamo integralmente l'ottimo articolo di Panara intitolato "I quattro gol di sua emittenza". Buona lettura. Sul fondo nero di questa prima parte del 1988, Silvio Berlusconi ha dipinto delle strisce rosse verticali. Il diavolo ci ha messo lo zampino inondando di acidi lattici le muscolose cosce di Salvatore Bagni e stirando quelle ancor più muscolose di Diego Armando Maradona, innervosendo Bruno Giordano ed incrinando l' animo sicuro di Ottavio Bianchi. Il Milan ha in tasca, o meglio sulle magliette, il suo undicesimo scudetto. Sempre che San Gennaro non riesca a fare domenica due miracoli in contemporanea: uno a Como facendo perdere il Milan e uno a Napoli facendo vincere il Napoli con la Sampdoria di Gianluca Vialli. Berlusconi esulta e la Milano milanista con lui. Il resto d' Italia non esulta ma neanche gliene vuole, perchè questo Milan ostinato tutto sommato ha fatto divertire tutti, i suoi tifosi e anche gli altri. A Napoli, dopo aver sconfitto Maradona sottraendogli uno scudetto che solo quattro settimane fa sembrava già conquistato, il Milan è uscito dal San Paolo tra gli applausi del pubblico partenopeo, tifoso quant' altri mai, ma anche come pochi generoso e soprattutto che di calcio capisce. Son soddisfazioni. Per Silvio Berlusconi questo 1988 passerà alla storia come l' anno dei grandi ribaltoni, e lui, che al contrario dell' Avvocato (Agnelli), dell' Ingegnere (De Benedetti), del Contadino (Gardini), non ha ancora conquistato un soprannome per tutti riconoscibile, certo lo ricorderà con piacere. Perchè tutte o quasi le situazioni si sono girate o si stanno girando a suo favore. Questo 1988 in effetti era iniziato sui toni del nero cupo e senza striature. Di fronte a un Napoli imbattibile il Milan sembrava senza speranza, nonostante gli acquisti miliardari che avevano fatto chiudere il bilancio 1987 con 29 miliardi di passivo. Le televisioni non tiravano: quella macchina da spettacolo che si chiama Pippo Baudo, sottratto alla Rai a colpi di miliardi, ha dato forfait, è andato in crisi, Raffaella Carrà non ha sfondato il sabato sera, Enrica Bonaccorti ha deluso, Milly Carlucci addirittura ha dovuto chiudere bottega. L' audience delle tre reti del re dello spot è scesa di ben 3 punti. La grande campagna acquisti di Berlusconi nello show business ha dato risultati decisamente inferiori alle aspettative. Mentre invece la Rai, che i tradimenti di Baudo, Carrà e Bonaccorti avrebbero dovuto mettere in ginocchio, ha trovato vecchi e nuovi campioni. Da Lino Banfi a Renzo Arbore, da Giuliano Ferrara a Enzo Biagi. Poi ci si è messa la politica. Cade il governo Goria e si comincia a trattare per il nuovo. Pur di bloccare Agnelli sulle televisioni, Bettino Craxi accetta l' "opzione zero", che se diventerà legge darà a Berlusconi la diretta ma lo costringerà a rinunciare a "Il Giornale" ed a qualsiasi altra sognata avventura nel mondo dei quotidiani. Non solo, ma attraverso l' opzione zero passa l' arrivo di Ciriaco De Mita a Palazzo Chigi. E De Mita non ama affatto Berlusconi, sarebbe forse troppo dire che lo detesta ma certo gli è decisamente antipatico. Qualcuno minimizza: "è questione di pelle", altri più sinceri ammettono: "Uno che è notoriamente amico di Craxi certo non può essere simpatico a De Mita". De Mita alla presidenza del consiglio quindi non aiuta Berlusconi. Non solo, rafforza i suoi avversari: Biagio Agnes, demitiano di ferro alla Rai, Calisto Tanzi, grande amico di Ciriaco e titolare di Odeon Tv. All' estero le cose non vanno molto meglio. L' investimento principale di Berlusconi oltralpe è La Cinq, la rete francese di cui il gruppo Fininvest possiede il 25 per cento. Ma a comandare a La Cinq è il titolare dell' altro 25 per cento, l' editore francese Hersant, che si occupa anche della raccolta di pubblicità. La Cinq ha buoni programmi, un bel telegiornale, ma non copre ancora tutto il territorio francese e, soprattutto, non raccoglie abbastanza pubblicità. Così nel 1987 ha perso ben 120 miliardi di lire. Sembrava insomma un anno nero, anzi nerissimo. Ma Silvio Berlusconi non si è fermato ad aspettare tempi migliori. Come il suo Milan ha continuato a lottare per lo scudetto anche quando dal Napoli lo separavano 4 punti, così il grande capo ha continuato a remare. Anzi è rimasto decisamente al timone. I suoi, come in ogni clan che si rispetti, lungi dal preoccuparsi del fatto che il ritorno in pista di Berlusconi era in qualche modo il segno tangibile della insufficienza della struttura, hanno suonato la grancassa. Silvio ha ricominciato dal punto che più gli sta a cuore, la televisione. Non ha ammesso che la strategia impostata solo pochi mesi prima, fatta di grandi show e di grandi e costosi anchorman era sbagliata. Ha semplicemente deciso di cambiare radicalmente rotta. Basta con gli show, forza con i film e con i serial. In due mesi Canale 5, Rete 4 e Italia 1 hanno riguadagnato posizioni superando la audience della Rai. Poi, visto che questa deve essere la strada, Berlusconi ha iniziato una offensiva pacifista verso la Rai. Ha incontrato il presidente Enrico Manca e il direttore Biagio Agnes, ha cercato di mettere in piedi quell' accordo che un anno prima era stato compromesso dallo "scippo" di Baudo, Carrà e Bonaccorti. Quello che Berlusconi chiede alla Rai, almeno questo è quanto dicono i suoi collaboratori, è di ridurre il livello di concorrenza negli acquisti dei film e dei serial, per ridurre i prezzi che proprio la lotta tra Rai e Fininvest aveva portato alle stelle, di contenere gli ingaggi delle star. Insomma cose vantaggiose sia per la Rai che per la Fininvest ma che non vanno a incidere sull' autonomia di ciascuno. I risultati di questa offensiva di pace sono stati in realtà scarsi. "Un telefono" dice uno degli uomini di Berlusconi, "semplicemente un telefono, così ogni tanto se ci sono questioni particolari sugli acquisti e sugli ingaggi ci si parla, per evitare aste al rialzo". Quante volte il telefono sia stato messo in funzione non si sa, pare pochissime. Poi Berlusconi si è messo al lavoro anche sul fronte francese, lavorando ai fianchi il consocio Hersant. Quello che Berlusconi vuole è la raccolta della pubblicità per La Cinq, è sicuro di poter fare meglio e di più dell' editore che, essendo proprietario di una buona fetta della stampa francese, si muove tutelando prima gli interessi di questa e poi del suo 25 per cento nella Cinq. Sembra che Hersant, preoccupato dalle perdite della Cinq, stia coltivando l' idea di cedere alle pressioni di Berlusconi che, peraltro, non pare soverchiamente preoccupato della situazione essendo comunque il maggior fornitore di programmi della rete francese. Infine la politica. I rapporti con Craxi, nonostante qualche battuta che Bettino non gli ha risparmiato, continuano ad essere ottimi e Berlusconi sa che il leader socialista non lo abbandonerà se ce ne sarà bisogno. In più Silvio ha deciso di esercitare il suo proverbiale charme anche con alcuni importanti inquilini di piazza del Gesù, a cominciare da Giulio Andreotti e da Arnaldo Forlani. Rapporti con la Dc in realtà ne ha sempre avuti ("una televisione commerciale" ha detto una volta "deve essere amica di tutti"), ma in vista della legge che finalmente regolamenterà l' emittenza televisiva ha ritenuto opportuno intensificarli. e poi c'è l' exploit. Anzi tre exploit: nel giro di sole quattro domeniche il Milan raggiunge il Napoli, lo batte, lo supera. Arrigo Sacchi, ragioniere romagnolo scoperto da Berlusconi conquista per la squadra che allena il suo primo scudetto. Berlusconi conquista definitivamente tutti i cuori milanisti. Quasi in contemporanea arriva a segno il secondo colpo, inatteso per di più e frutto di una lenta e macchinosa trattativa con la burocrazia sovietica: Programma Italia si assicura l' esclusiva nella raccolta della pubblicità che le imprese europee vorranno fare sulla televisione dell' Unione Sovietica. E' una rivoluzione per il pubblico della Georgia e della Lettonia, della Russia e della Siberia, che si vedrà proporre bellezze patinate vestite Benetton e policrome Renault, ma per Berlusconi è soprattutto un grande affare, che rende la sua società di pubblicità interlocutrice di tutti i grandi inserzionisti europei, e il suo gruppo potenziale fornitore di programmi al network sovietico. Ne guadagna subito l' immagine, ne guadagnerà in futuro anche il portafoglio. Infine c' è l' ingresso nel capitale di Euromobiliare, con una quota del 10 per cento, uguale quindi a quella di Carlo De Benedetti e di Raul Gardini. E' la prima uscita di Berlusconi fuori dai suoi ambiti tradizionali, è la prima acquisizione di una partecipazione in una società finanziaria, che viene dopo il gran rifiuto a partecipare alla privatizzazione di Mediobanca. Questo ingresso è stato letto da tutti come un avvicinamento a De Benedetti, che è un po' il patron dell' Euromobiliare (e che è nella cordata opposta a quella di Berlusconi nella Mondadori), mentre in realtà è il frutto di una tempestiva proposta di Guido Roberto Vitale, amministratore delegato e direttore generale della finanziaria, che di Berlusconi è un amico ed estimatore sin quasi dagli esordi. Poi una sconfitta, alla Mondadori. Silvio Berlusconi non è riuscito a trovare un accordo con Carlo De Benedetti ed ora, pur avendo oltre il 7 per cento dell' Ame Finanziaria (che controlla la Mondadori), è rimasto fuori dal gruppo di Segrate. Restano aperte la partita dell' opzione zero e della legge sull' emittenza. Per il 7 giugno prossimo è attesa una sentenza della Corte Costituzionale sull' articolo 3 della legge 10 (meglio nota come decreto Berlusconi) varata in tutta fretta dal governo Craxi per riaccendere i ripetitori della Fininvest oscurati da alcuni pretori. Dopo la decisione della Corte Costituzionale il tema sarà affrontato dal Parlamento e lì si vedrà se l' opzione zero ha chiuso il capitolo oppure se la battaglia è ancora tutta da combattere. Questo strano primo quadrimestre del 1988, contraddittorio e ricco di colpi di scena, è servito però a fare emergere qualche aspetto nuovo del fantasmagorico pianeta Berlusconi. Paradossalmente solo due o tre anni fa, quando Berlusconi appariva assai più forte e Craxi era a Palazzo Chigi, una somma di ostacoli del genere sarebbe stata assai più difficile da superare. C' è in effetti qualche cosa di nuovo. "Il pirata", come continua a chiamarlo Biagio Agnes, non è più un pirata. Ormai Berlusconi fa parte del sistema, dell' establishment a pieno titolo, e questo gli viene riconosciuto. Dal mondo bancario che lo rispetta e lo corteggia, da Mediobanca, che lo aveva invitato e non si è offesa per il gran rifiuto, dai potenti dell' imprenditoria nazionale. Vedersi sulle tribune d' onore degli stadi probabilmente serve anche a conoscersi meglio. Oggi Berlusconi trova più facilmente soluzioni ai suoi problemi. E' riuscito a vendere quanto gli restava di Milano 3 ad alcuni enti previdenziali, ad affittare una buona parte del Girasole (il centro commerciale di Lacchiarella) alla Fiera di Milano, è entrato senza clamori in Euromobiliare. Berlusconi è insomma diventato un interlocutore rispettabile e riconosciuto a tutti i livelli, non paga più il prezzo di essere uno "nuovo", senza pedigree. In questo silenzioso e sotterraneo processo, Berlusconi ha anche conservato un suo stile particolare, paradossalmente antico anche se opera in uno dei settori, quello delle televisioni, più nuovo. "Lo conosco da 13 anni - dice Guido Roberto Vitale - ma non ho mai fatto affari con lui". Sorge il dubbio che in realtà Berlusconi di affari non ne abbia fatti con alcuno. E Vitale conferma questa impressione: "Lui fa l' industriale delle sue cose, il che è un ottimo sistema per crescere e crescere bene". Poi Berlusconi non cerca alleanze. E' buon amico di Carlo De Benedetti, rispetta e apprezza Gianni Agnelli, stima Raul Gardini, ma non è schierato nè con il primo, nè con il secondo, nè con il terzo. Quando è stato chiamato da Mediobanca a partecipare alla Consortium lo ha fatto obtorto collo. Quando gli è stato chiesto di partecipare alla cordata Ferrero Barilla per la Sme ha aderito solo perchè non poteva dire di no. In realtà è un solitario, vuole agire da solo, scegliere da solo, decidere da solo. E' attento, lo ha dichiarato lui stesso, a non pestare i piedi a nessuno e se c' è questo rischio, evita. E' poi mentre tutti tendono a diversificarsi, lui concentra. Il suo gruppo opera nell' editoria televisiva e della carta stampata, nell' edilizia, nella finanza. L' edilizia, che era il suo primo amore, ora non è più strategica. La finanza va bene, ma senza particolari mire espansionistiche. Quello che deve crescere, sempre crescere, fortissimamente crescere, sono le televisioni, in Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda. Il suo sogno è un grande network di network che copra l' intera Europa. E oltre a controllarli e a gestirli, Berlusconi questi network vuole alimentarli, integrarli. Inseguendo questo sogno raccoglie pubblicità per la Russia, ha una piccola Tv via cavo in Germania, studi di produzione in Spagna. E investe nel cinema, produce film, li distribuisce, compra sale di proiezione. La sua diversificazione è verticale. Quella orizzontale, intersettoriale non gli interessa. I conti fino a questo punto gli hanno dato ragione. Nel 1987, secondo dati provvisori, il fatturato aggregato del suo gruppo è di circa 8400 miliardi, il consolidato di oltre 2400, l' utile netto consolidato, che nel 1986 è stato di 132 miliardi, dovrebbe nel 1987 aver raggiunto 150 miliardi, i debiti sono pressochè scomparsi mentre il patrimonio netto è di circa 400 miliardi. C' è tuttavia un punto debole, la struttura. Proprio questi primi mesi del 1988 infatti hanno dimostrato che il gruppo si regge ancora sostanzialmente sul suo capo. "Berlusconi, nei settori in cui opera, ha una straordinaria capacità di capire cosa la gente vuole" dice Guido Roberto Vitale, e questa probabilmente è la chiave del suo successo. Sempre nel settore editoriale il fiuto, l' intuito dell' editore sono stati determinanti. Ma la storia ha dimostrato che se questa è la forza dei grandi editori, è anche la debolezza delle grandi case editrici.

giovedì 24 aprile 2008

il Grillo urlante (e sessuomane)


Alla vigilia dell'appuntamento con il Vaffa Day di Beppe Grillo, dedicato all'informazione, esce su il Giornale della famiglia Berlusconi (notoriamente non in buoni rapporti con l'ex comico e attuale blogger di punta della Rete) un ritratto alquanto intimo e privato tratteggiato dalla penna graffiante (seppur di parte) di Filippo Facci. Ne esce un Grillo un pò porcellone, dedito al sesso sfrenato (con qualche inconveniente tecnico...) e alla vita goduriosa non certamente in linea con il ritratto da fustigatore di massa del terzo millennio. L'articolo di Facci s'intitola "Vi raccontiamo la vera storia di Beppe Grillo". Noi ve lo riproponiamo integralmente. Buona lettura.
Il nostro uomo, una delle fonti incontrate nella nostra due giorni genovese, comincia a esser stanco: «Poi va be’, ci sono storie personali, che non si possono scrivere». Dica. «Non si possono scrivere». Dica. «Ma niente, lui a un certo punto stava in questo suo attico in corso Europa, che era tutto bello, col pianoforte, e ogni tanto ci portavamo le ragazze che gli procuravo quasi sempre io. Tra l’altro sotto il letto nascondevamo un mangianastri per registrare le cose, gli amplessi, poi riascoltavamo e ci ammazzavamo dal ridere. Avevamo un gergo nostro: lui, il coso, lo chiamava “il gottoro”, e urlava sempre questa parola alle ragazze che non capivano: “Gottoro! Ecco il gottoro!”. Il problema è che un giorno sua madre trovò le cassette e si mise ad ascoltarle, un macello». È questa la storia personale? «Aspetti. Un giorno portammo nell’attico due ragazze, mi ricordo che una era sposata. I suoi, del Giuse, erano nella casa di Savignone. Ma niente: ognuno cominciò a fare le cose sue e a un certo punto lui fece un urlo bestiale, ma bestiale, corse da me tutto nudo e disse “Guarda, guarda! Che mi succede?” e io glielo guardai e lui... lui...». Censura. La disavventura sessuale, oggettivamente ridicola, ebbe epilogo al pronto soccorso dell’ospedale San Martino, praticamente lì di fronte. Censura: anche se il soggetto non la meriterebbe perché lui una storia del genere (di un altro) l’avrebbe raccontata di sicuro: si parla di una persona, un comico, che ebbe a chiamare «Alzheimer» l’ex capo del governo e «venditore di bava» l’ex capo dell’opposizione, uno che ha mandato letteralmente affanculo decine di persone e che di fronte alla critica di un direttore di telegiornale, Mauro Mazza, ha replicato testualmente: «E se sparassero nel culo a lui?». La battuta sul Papa manco ce la ricordiamo, sta di fatto che qui, di fronte al grillismo, stanno saltando tutte le regole, si sta riscrivendo il galateo della politica per adeguarlo a quello dell’antipolitica: dunque la tentazione di adeguarci c’è, la voglia di non censurarci pure, come a dire: Grillo eccoci, siamo pronti, se questo è il ballo si balla anche noi, si fa all’americana come predicano tanti giornalisti amici suoi: e ti si contano anche i peli del bulbo. Da qui, come modesto e sperimentale assaggio, la nostra due giorni genovese e questa modesta inchiesta.
Giuseppe Piero Grillo è nato il 21 luglio 1948 a Savignone, Valle Scrivia. Secondo l’imbarazzante e compiaciuta agiografia «Beppe Grillo», forse il più insignificante libro pubblicato da Mondadori negli ultimi vent’anni, Beppe da Bambino «lanciava urli (sic) alla James Brown» e il padre commentava affettuosamente: «Sembra una bestia. Tuo figlio è un idiota». La famiglia, in ogni caso, di base stava a Genova nel quartiere di San Fruttuoso della celebratissima piazza Martinez, fucina di geni e lazzaroni dove piccoli leader minimi e massimi sedevano tra il bar Cucciolo e la fermata dell’autobus. Qualche bici, poche motociclette, le ragazze migliori della zona e in qualche modo anche il giovane Grillo, patito di calcio come tutti gli altri. «Aveva 12 anni e lo portai a fare un provino per una squadra locale sponsorizzata dalla Shell», racconta uno che c’era, «il problema è che il Giuse era una balena, lo chiamavamo Porcellino. Aveva un buon tocco di palla, ma l’allenatore ricordo che mi disse: “Ma chi mi hai portato?”».
Giocava a pallone anche Antonio Ricci, che era di Albenga e però a piazza Martinez, assieme a Roby Carretta, era in qualche modo collaterale: «Ma Ricci non era molto portato. Mi ricordo che nella sua squadra c’era anche Donato Bilancia, il serial killer. Stava sempre al bar Cucciolo». È vero: ma era un tipo innocuo e lo chiamavano Belinetta. Del giro era anche Vittorio De Scalzi, quello dei New Trolls. L’unico davvero portato per il calcio pareva il Portento, Orlando Portento, il bello della compagnia nonché un talento comico che quasi tutte le fonti indicano come il vero mentore e inventore di Beppe Grillo, privo tuttavia della sua pervicacia. Portento giunse alla serie B, e nella Sampdoria dei giovani Marcello Lippi e Roberto Vieri, padre di Bobo, ma poi s’infortunò. È tornato clamorosamente alla ribalta, Portento, come cabarettista e come marito di quell’Angela Cavagna che ha partecipato al reality show La Fattoria. Un paio di fonti indicano come vero scopritore di Grillo, invece, il gallerista Luigi De Lucchi, fondatore dell’Instabile, localino di cabaret forse unico nel suo genere.
Il giovane Grillo tutto sommato stava economicamente benino. Si diplomò ragioniere all’Ugolino Vivaldi, che era un istituto privato per rampolli-bene con retta piuttosto esosa. S’iscrisse anche a Economia e commercio, ma presto la piantò lì. Il padre, Enrico, possedeva una fabbrica di fiamme ossidriche (la Cannelli Grillo) e lo reclamava, ma lui da principio non ci pensava neanche. Secondo il più interessante libro «Beppe Grillo» di Paolo Crecchi e Giacomo Rinaldi (Ariberti editore) «il ragionier Grillo prova a lavorare nell’azienda di papà con scarsi risultati, rimettendoci 200mila lire degli anni Sessanta». Altrimenti consigliato, per un certo periodo fece il piazzista di jeans per la Panfin, ma fu licenziato. Era un ragazzo normale, un po’ buffo, tifava Sampdoria, vestiva decentemente, aveva i jeans Sisley che furoreggiavano, andavano di moda le basette lunghe che lui però non aveva: le improvvisava schiacciandosi giù i capelli col sapone. Non era bello, ma sopperiva con la simpatia.
Era secondogenito e un po’ il cocco di casa, suo padre non disdegnava di prestargli la Fiat 1100 che per rimorchiare si rivelò fondamentale, anche se aveva il difettuccio del pesare come una balena e quegli incisivi molto sporgenti: e con le ragazze era un problema, dicevano che baciandolo le pungeva. La soluzione fu drammatica: un giorno, alla discoteca Peppermint che era la più importante di Genova, ebbe la pensata di tampinare la ragazza di un certo Luciano Rovegno, che non era propriamente uno stinco di santo: e infatti reagì dandogli una tale testata da fargli saltare tutti gli incisivi che restarono lì, sparsi per terra. Glieli rimisero. Dritti.
La celebre tirchieria di Grillo (parsimonia, si dice a Genova) in quel periodo prende le forme di incontrollabili leggende. Ben quattro presunti testimoni raccontano che girasse con una tuta appositamente senza tasche per non avere soldi da spendere. All’epoca fumavano tutti, ma lui prendeva le Hb nel pacchetto da dieci. Non pagava mai niente, non offriva mai niente, e questo lo dicono davvero tutti: occorre tener conto che dei genovesi che lamentano la tirchieria altrui sono come dei napoletani che accusassero qualcuno d’essere chiassoso. «Non era tirchio, era malato» racconta un suo ex sodale: «"Offri qualche caffè ogni tanto, risparmierai col cardiologo", gli dicevamo sempre».
Più avanti, nel 1980, la concessionaria Fiat Piave di Genova gli regalò una Punto: lui si lamentò perché non aveva l’autoradio. Altra leggenda vuole che nella sua villa di Sant’Ilario abbia frutti e ortaggi di plastica, e la citata biografia di Crecchi e Rinaldi conferma tutto: «Era guardato con diffidenza dai contadini perché rifiutava ostinatamente di coltivare le sue fasce di terra, ma un giorno ha avuto un’intuizione delle sue sistemando ortaggi di plastica turgidi e coloratissimi tra gli ulivi e i pitosfori». Andrea detto Andreino, il fratello minore, ha raccontato alla Stampa d’avergli prestato un completo di gabardine nero salvo riaverlo completamente liso. «Mi deve ancora restituire una giacca a soffietto che gli prestai negli anni ’70» racconta invece Portento, «e mi deve ancora pagare una camicetta da donna che regalò a un’amica», dice l’ex amico che ai tempi aveva un negozio di abbigliamento. Antonio Ricci ha raccontato che «io sparecchiavo, e se buttavo via delle briciole Beppe le recuperava dalla spazzatura e il giorno dopo ci impanava la milanese». È stata invece la seconda moglie di Grillo, Parvin Tadjk, intervistata a Crozza Italia su La7, a parlare degli snervanti controlli del marito sugli scontrini della spesa. Dopo la balzana ipotesi che Beppe Grillo si sia fatto crescere la barba per risparmiare sulla lamette, altro ritornello genovese, la carriera di Grillo entra nel vivo. Così si conclude l'articolo di Filippo Facci su Grillo. Alla fine del pezzo c'è scritto 1 continua, il che ci fa pensare che avremo domani un seguito, che noi prontamente vi proporremo, ansiosi di scoprire chissà quali altri segreti del Grillo sessuomane...

mercoledì 23 aprile 2008

una voce (autorevole) in favore di Rutelli




Anche chi scrive domenica si recherà alle urne capitoline per esprimere la preferenza tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, nel ballottaggio decisivo per la conquista della poltrona di primo cittadino della Capitale. Ci sembra pleonastico e ripetitivo indicare la nostra preferenza tra i due (il tenore dei nostri post suggerisce senza imbarazzo alcuno la propensione politica di questo blog, almeno crediamo); quindi preferiremmo ospitare una voce autorevole, quella di Furio Colombo, che su l'Unità di oggi ha speso (con ottime argomentazioni che sottoscriviamo integralmente) più di una parola a favore dell'ex sindaco di Roma. Vi riproponiamo per intero l'editoriale, dal titolo (lineare e trasparente) "Per Rutelli". Buona lettura. Avevo pensato di iniziare questo articolo (in cui si dice che è indispensabile partecipare al voto di ballottaggio e si ripete la persuasione che è necessario per Roma che Rutelli sia sindaco e governi questa città, come l’ha governata con indimenticato successo, compresa la incredibile stagione del Giubileo) con alcune citazioni di questi giorni. Per esempio Calderoli, vice presidente del Senato uscente e ministro di qualche cosa entrante: «Rutelli si ritiri. Rischia la lapidazione». Per esempio Gasparri, personaggio inesportabile dell’ex partito di An cannibalizzato da Forza Italia: «La Roma di Prodi, Rutelli e Veltroni è il regno del terrore e dello stupro». Per esempio Alemanno, l’uomo che vuole governare Roma con la croce celtica, simbolo funebre dell’Europa che ha patito la furia delle persecuzioni: «Allontaneremo dalla città ventimila stranieri clandestini che non hanno nessun diritto a stare qui». (Il Corriere della Sera, 21 aprile). È una scena da documentario della Seconda guerra mondiale, la deportazione in massa di ventimila uomini, donne, bambini, neonati e anziani da una sola città, con una decisione che evidentemente non prevede altro criterio che il razzismo (molti, moltissimi illegali lavorano, non pochi in mestieri cruciali). Evidentemente esiste in Italia, sotto il bello e il brutto della politica, un sottomondo che taglia corto e accetta il peggio in cambio di un voto. Ma è da ricordare anche il mondo del futuro ministro degli Interni, Maroni, che pure è spesso indicato come “il migliore di loro” (serve per capire chi sono gli altri). Maroni raccomanda le “ronde dei cittadini”, ovvero quei “vigilantes” che tutte le democrazie considerano pericolosi, incivili, estranei alla legge. Ma alle obiezioni costituzionali e giuridiche il futuro ministro risponde : «Cavilli. C’è una emergenza criminalità collegata all’immigrazione. Prodi ha perso le elezioni su questo. Noi le abbiamo vinte sulla sicurezza». Che Roma sia dieci volte più sicura di Londra, Parigi, e molto più della New York della famosa “tolleranza zero” (il cui predicatore, Giuliani, candidato alle Primarie per la destra repubblicana è stato prontamente scartato) evidentemente non serve al “governo della paura” di questa gente, che ostenta la croce celtica. «La festa è finita, è tempo di riempire le prigioni», dichiara senza imbarazzo a La Stampa (20 aprile) un altro futuro ministro del governo della paura, il leghista Castelli, già noto per le devastazioni arrecate alla Giustizia, quando ne era ministro. Domandatevi in quale Paese - salvo forse il Guatemala - una nuova maggioranza eletta userebbe una simile frase per inaugurare la stagione. Avrei voluto argomentare il sostegno a Rutelli con queste frasi (e un florilegio di molte altre affermazioni estranee non solo alla democrazia ma anche al buon gusto e al buon senso) che stanno caratterizzando una battaglia barbara e feroce per conquistare lo scalpo di Roma, da offrire in dono al vero padrone, i leghisti. Ma mi accorgo che il vasto mondo della sottopolitica in cui si sono accumulati un brutto passato e una nuova vendetta, ci serve solo per dire da chi sarebbe meglio stare lontani, se non altro per continuare ad assomigliare a Madrid o a Copenhagen. Ma il fatto è che dobbiamo dire a chi vogliamo stare vicini in queste elezioni, e per i prossimi civili cinque anni di vita normale a Roma. È Francesco Rutelli. Il perché è semplice. Tutta la destra fa una concitata campagna elettorale su due tragici stupri (non consola, ma nello stesso periodo a New York ce ne sono stati ventisette). Il fatto è grave e mobilita tutti. Ma spaventa che il centro dell’attenzione non siano le vittime, e non il destino delle donne, che continuano a vivere in guardia, sempre nel timore di un’aggressione o di una persecuzione a Roma come a Milano (e, purtroppo nelle buone aree del mondo). No, i veri stupratori indicati alla folla dai portatori di croce celtica sono coloro che hanno governato bene per decenni, ottenendo per la città di Roma una visibilità, desiderabilità e successo che ne ha spostato clamorosamente in alto simpatia e prestigio nel mondo. Gli accusatori sono coloro che, negli anni, hanno dedicato a Roma solo un po’ di camerateschi riti di un nefasto passato, celebrati senza rapporto con la crescita, la vitalità, l’avanzare continuo nell’opinione del mondo di questa città. Si sono volute sporcare queste elezioni con una crudele messa in scena di xenofobia e di paura, facendo credere che il futuro sia nient’altro che cacciare i barbari, anche a ventimila per volta. E allora diciamo che il volto nuovo di Roma che piace al mondo - e che ha fatto vivere con più orgoglio tanti romani - porta l’impronta civile, segnata di umori benevoli e di convivenza fraterna, di Francesco Rutelli, l’autore del successo unico al mondo del Giubileo preparato e gestito insieme, in modo perfetto, da due Rome diverse (il Vaticano e il Comune, le chiese e le strade). E le maratone, le notti bianche, il teatro in piazza, le feste dei bambini, la Roma a cui subentra Veltroni, che ha dilatato in tutte le direzioni - dai bus alla cultura, dal jazz al cinema, dalle scuole alla burocrazia del Comune - il crescere continuo di una città decisa, anche e nonostante momenti difficili e brividi di emergenza, a vivere in pace, tra cittadini che si aiutano e si rispettano. Ecco che cosa ci promette Rutelli, che viene avanti con il volto tranquillo del leader civile senza portarsi addosso la bisaccia della paura, senza avvoltoi che si aggirano sulle disgrazie per vedere se si può far credere che Roma sia quelle disgrazie e non l’immenso passo avanti degli ultimi quindici anni. Vogliono prendere possesso di cose fatte bene, diffondendo un clima di terrore. Adesso il capolavoro di Rutelli - se riusciamo, andando tutti a votare domenica e lunedì, a tenere lontani croci celtiche e avvoltoi - sarà di riprendere il grande percorso Rutelli-Veltroni-Rutelli di Roma città di pace, che anche dopo essere diventata uno dei luoghi più ammirati e cercati al mondo, continuerà nel suo progetto di civiltà e convivenza fraterna. E - così antica - Roma continuerà a diventare moderna. Se terremo lontani gli avvoltoi.

martedì 22 aprile 2008

se ci fosse Enrico Berlinguer...


Vi avvisiamo. Questo post è molto lungo. Ci vorranno più di trenta minuti per leggerlo tutto. Se li avete bene, leggete pure (non ve ne pentirete!), altrimenti passate ad altro. Noi vi riproponiamo (anche per farvi fare alcune riflessioni sul ruolo della sinistra al crepuscolo) una storica intervista di Eugenio Scalfari ad Enrico Berlinguer, pubblicata su la Repubblica il 28 luglio 1981, una vita fa. Ci sono cose che sembrano dette qualche ore fa, non 27 anni orsono. Una sorta di testamento politico a futura memoria. Buona lettura. Dove sta andando il Pci? Cosa pensa il partito della svolta francese, del governo Spadolini, della politica di Craxi, della crisi economica e della nuova ondata terroristica? A queste ed altre domande risponde Enrico Berlinguer in una intervista a "Repubblica". "I partiti non fanno più politica", dice il segretario comunista, "hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Ma noi siamo una forza politica diversa. Ai tempi della solidarietà nazionale ci hanno scongiurato di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Allora, a un certo punto, ce ne siamo andati sbattendo la porta". Nelle parole di Berlinguer affiora anche l'autocritica. "Nel '79 rischiammo il tracollo, una sconfitta che poteva metterci in ginocchio. Avevamo puntato sulla possibilità che la Dc potesse davvero rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica. Abbiamo sbagliato. Quando ce ne siamo resi conto, abbiamo messo la Dc con le spalle al muro...". "I partiti non fanno più politica", mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara sulla bocca e, nella voce, come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della Tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di slogans politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dalle Alpi al Lilibeo..."No, no, non è così", dice lui scuotendo la testa sconsolato. "Politica si faceva nel '45, nel '48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c'era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c'era lo sforzo di capire la realtà del Paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, ne era ricambiato". Oggi non è più così? "Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia". La passione è finita? La stima reciproca è caduta? "Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un =boss= e dei =sotto-boss=. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora..." Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana. "E' quello che io penso". Per quale motivo? "I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal Governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la RaiTv, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il =Corriere della Sera=, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente: ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il =Corriere= faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le =operazioni= che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; una autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti". Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle. "E secondo lei non corrisponde alla situazione?". Debbo riconoscere, signor segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del Paese da un pezzo. Allora delle due l'una: o gli italiani hanno, come si suol dire, la classe dirigente che si meritano, oppure preferiscono questo stato di cose degradato all'ipotesi di vedere il partito comunista insediato al governo e ai vertici di potere. Che cosa è dunque che vi rende così estranei o temibili agli occhi della maggioranza degli italiani? "La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani danno in occasione del referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interesi privati o di gruppo o di parte. E' un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al Nord come al Sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Non nego che, alla lunga, gli effetti del voto referendario sulla legge 194 si potranno avvertire anche alle elezioni politiche. Ma è un processo assai più lento, proprio per le ragioni strutturali che ho indicato prima". Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei le descrive. "In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poichè noi dichiariamo di essere un partito =diverso= dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità". Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da verne paura? "Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ho detto che i partiti hanno degenerato, quale più quale meno, da questa funzione costituzionale loro propria, recando così danni gravissimi allo Stato e a se stessi. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?". Mi pare che incuta paura a chi ha degenerato. Ma vi si può obiettare: voi non avete avuto l'occasione di provare la vostra onestà politica, perchè al potere non ci siete arrivati. Chi ci dice che, in condizioni analoghe a quelle degli altri, non vi comportereste allo stesso modo? "Lei vuol dirmi che l'occasione fa l'uomo ladro. Ma c'è un fatto sul quale la invito a riflettere: a noi hanno fatto ponti d'oro, la Dc e gli altri partiti, perchè abbandonassimo questa posizione di intransigenza e di coerenza morale e politica. Ai tempi della maggioranza di solidarietà nazionale ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l'occasione fa l'uomo ladro, debbo dirle che le nostre occcasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non ci siamo diventati. Se avessimo voluto venderci, se avessimo voluto integrarci nel sistema di potere imperniato sulla Dc e al quale partecipano gli altri partiti della pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto farlo: ma la nostra risposta è stata no. E ad un certo punto ce ne siamo andati sbattendo la porta, quando abbiamo capito che rimanere, anche senza compromissioni nostre, poteva significare tener bordone alle malefatte altrui, e concorrere anche noi a far danno al Paese". Veniamo alla seconda diversità. "Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri, gli emarginati, gli svantaggiati vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni: che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata". Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti. "Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi;, con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stato noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni amministrate con onestà, ci siamo noi". Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perchè? "La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, secondo noi comunisti, fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perchè dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perchè gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche". Signor segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. E' anche lei del medesimo parere? "Risponderò nello stesso modo di Mitterand. il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è, se vogliamo, l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'uno e contro l'atra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio che, pur di domare l'inflazione, si debba pagare il prezzo di una recessione massiccia e di una massiccia disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili". L'inflazione avrà pure delle cause, non cade dal cielo... "Certo che ce l'ha. E la prima viene dal dollaro. Un dollaro a 1.200 lire, mentre appena pochi mesi fa non raggiungeva le 800 lire, quanti punti di inflazione introduce nel sistema? Di quanto aumenta il costo di tutte le importazioni e in particolare del petrolio? E' un aumento di quasi il 50 per cento, un fenomeno di dimensioni enormi. Il vertice di Ottawa anche da questo punto di vista è stato un fallimento: ma direi che è stato un fallimento da tutti i punti di vista. E poi: abbiamo in Italia una bilancia agricolo-alimentare terribilmente deficitaria, ma non si è fatto e non si fa quasi nulla per trasformare e sviluppare l'agricoltura. Infine, la spesa pubblica: un cancro che divora le risorse del Paese in mille modi, con mille sprechi, a favore di mille clientele". POST SCRIPTUM: ABBIAMO DECISO DI "TAGLIARE" E DI MOLTO QUESTA LUNGHISSIMA INTERVISTA DI BERLINGUER. BASTI PENSARE CHE LE DOMANDE DI SCALFARI FURONO 53. NOI NE ABBIAMO RIPORTATE 14. A NOSTRO GIUDIZIO QUELLE CHE RITENIAMO LE PIU' ATTUALI E RIPROPONIBILI OGGI, MAGARI IN UN'IPOTETICA INTERVISTA AL SEGRETARIO DEL PARTITO DI UNA IPOTETICA NUOVA SINISTRA.

lunedì 21 aprile 2008

che bella accoppiata!


Era da un pò che non lo vedevamo in giro o sulle prime pagine dei giornali. Forse era dai tempi del famoso "patto della crostata" siglato a casa sua alla presenza di Massimo D'Alema. Fatto sta che il liftato (come si dice: chi va con lo zoppo...) ed ineffabile Gianni Letta, plenipotenziario berlusconiano, ex direttore de IL TEMPO di Roma, zio dell'Enrico Letta ex ministro ulivista, ha deciso di uscire nuovamente allo scoperto, una settimana dopo il trionfo elettorale del suo mentore e padrone. E lo ha fatto dove? Ma naturalmente su il Giornale di famiglia, ospitato e riverito come si fa con i pezzi da novanta, in occasione (promozionale) dell'uscita di un suo libro. E noi ve lo facciamo digerire attraverso questo post. Leggete, gente, leggete.
Parla solo quando ha qualcosa da dire. Spiega, non urla. Espone, non impone. Sfila nel silenzio indaffarato della politica del fare e del non apparire. Ora Gianni Letta si confessa. L’uomo che da vent’anni accompagna Silvio Berlusconi da Fininvest agli incarichi istituzionali, traccia un ritratto del Cavaliere in un capitolo di Chi è Stato? Gli uomini che fanno funzionare l’Italia, di Luigi Tivelli, Rubbettino 2007. Nel brano «Un campanello d’allarme per la classe politica, le classi dirigenti e il Paese» Letta racconta il suo rapporto con il leader del Pdl e ne spiega la fenomenologia. Alternando la voce del collega, dell’amico, di colui che lo conosce meglio.
E fu così che mi ritrovai con lui a Palazzo Chigi dove, grazie a lui e con lui, ho vissuto un’esperienza straordinaria e meravigliosa.
Ho lavorato bene con lui, con grande impegno e con piena soddisfazione. E non solo io, per la verità. Perché non ho mai incontrato nessuno che sappia motivare i suoi uomini come lo sa fare Berlusconi e che li sappia far sentire squadra. Lui con loro, lui in mezzo a loro, lui a rimboccarsi le maniche con noi, lui a far notte con noi. Più di una volta qualcuno, per attaccarlo, lo ha accostato con ironia e sarcasmo a Napoleone. Ma, certo, pochi come lui hanno saputo applicare così bene e vivere in prima persona alcuni di quei princìpi che hanno fatto grande il Generale. «La natura ha creato tutti gli uomini uguali. È stata sempre mia abitudine - diceva Napoleone - mescolarmi ai soldati, alle persone del popolo, parlare con loro, ascoltare le loro piccole storie e discorrere amabilmente con loro. Penso che questo mi sia stato di grandissimo aiuto». E ancora: «I piani di una campagna si possono modificare all’infinito sulla base delle circostanze, del genio del Generale, del carattere delle truppe e delle caratteristiche del Paese». Condivisione e flessibilità: lo diceva Napoleone e lo ripete Berlusconi che ha fatto suoi, nell’impresa e nella politica, i princìpi vincenti di Napoleone. Quei princìpi che uno studioso americano, Jerry Manas, esperto internazionale di gestione di impresa, così ha riassunto in un bel libro uscito da poco nell’edizione italiana;
esattezza: consapevolezza, ricerca e pianificazione continua; rapidità: ridurre le resistenze, aumentare l’urgenza e mantenere la focalizzazione; flessibilità: costruire team che siano adattabili, autonomi e unificati; semplicità: obiettivi, messaggi e processi chiari e semplici; carattere: integrità, calma e senso di responsabilità; forza morale: impartire ordini, fornire uno scopo, attribuire un riconoscimento e dei premi.
Ho ricordato prima le caratteristiche degli uomini che, dopo mio padre, più hanno influito sulla mia vita orientando la mia formazione e soprattutto il mio modo di lavorare. Penso che Berlusconi riassuma tutte quelle qualità in una sintesi felice e fortunata che può giustificare quell’aggettivo - unico - che non a caso ho adoperato all’inizio di questa conversazione. Silvio Berlusconi ha una marcia in più, anzi due: la capacità di visione e quella di «pensare in grande». Un intuito prodigioso che lo porta naturalmente a capire ciò che agli altri non è chiaro o non è ancora decifrabile. Vede prima e più lontano degli altri. «Sono una strega» dice spesso scherzando, per definire questa sua sensibilità quasi magica di prevedere il futuro.
Due doti rarissime, che difficilmente convivono. La prima non è, per lui, soltanto intuito o immaginazione, e neppure la semplice attitudine a concepire ed elaborare grandi progetti, ma anche la capacità di adattarli alle condizioni del mercato o della situazione. E con la capacità di vedere prima degli altri e più lontano degli altri, quella di indicare o di «inventare» soluzioni nuove, coniugando mirabilmente fantasia e intelligenza, talento e abilità, impegno e forza, convinzione e senso dell’organizzazione. Quante volte ci ha lasciati stupiti e increduli di fronte alla enunciazione di un nuovo piano o dell’ennesimo progetto, che molti di noi credevano o temevano fossero solo creazioni fantastiche, tanto ci apparivano ardite e impossibili? E quante volte ci siamo dovuti ricredere di fronte alla concretezza, alla realtà di quel piano o di quel progetto pienamente realizzato e diventato, contro e a dispetto delle nostre previsioni, cosa concreta e tangibile? Sempre ha centrato il suo obiettivo, arrivando laddove aveva dichiarato di voler arrivare. E poi la disposizione, la vocazione direi, a «pensare in grande». Un’attitudine che gli è congeniale e che lo accompagna da sempre, sin dagli anni delle prime esperienze imprenditoriali e che tutti hanno potuto conoscere negli anni della sua avventura politica. Ma era ancora lontana e imprevedibile la sua «discesa in campo», quando nel 1990, il giorno di S. Ambrogio a Milano, presentò una nuova, elegante edizione dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Era il primo volume di una serie raffinata e colta curata dalla Silvio Berlusconi Editore, la sua prima casa editrice, e dedicata ai grandi pensatori, quelli che più sentiva vicini e che forse più hanno influenzato la sua formazione e il suo spirito audace.
E ad Erasmo dedicò una prefazione personale che racchiude la sua «filosofia» e il suo modo di affrontare le battaglie del lavoro e della vita. Una prefazione illuminante che può aiutare gli altri a capire chi veramente sia Silvio Berlusconi. Racconta nella prefazione che a fargli conoscere l’Elogio della follia fu, ai tempi dell’Università, un amico molto caro. «Avevamo avuto una discussione piuttosto accesa, in cui a più riprese mi ero sentito dare del visionario, non ricordo più per quale motivo. L’indomani mi vidi recapitare una copia del capolavoro di Erasmo in un’edizione Einaudi con una singolare dedica: “Vedrai che ti ci ritrovi”». Ma che cosa lo aveva colpito di quel libro al di là dello stile scintillante? «Ad affascinarmi dell’opera di Erasmo - scrive Berlusconi nella prefazione - fu in particolare la tesi centrale della follia come forza vitale creatrice: l’innovatore è tanto più originale quanto più la sua ispirazione scaturisce dalle profondità dell’irrazionale.
L’intuizione rivoluzionaria viene sempre percepita al suo manifestarsi come priva di buon senso, addirittura assurda. È solo in un secondo tempo che si afferma, viene riconosciuta, poi accettata, e talvolta persino propugnata da chi prima l’avversava. La vera genuina saggezza - conclude - sta quindi non in un atteggiamento razionale, necessariamente conforme alle premesse e perciò sterile, ma nella lungimirante, visionaria “pazzia”». E aggiunge: «Tutti noi abbiamo certo riscontrato più volte la profonda verità di questa tesi. E nella mia vita di imprenditore sono stati proprio i progetti a cui più istintivamente mi sono appassionato contro l’opinione di tanti, anche amici cari, i progetti per i quali ho voluto dar retta al cuore più che alla fredda ragione, quelli che hanno poi avuto i maggiori e più decisivi successi».
Letto così, si può capire Silvio Berlusconi, il suo modo di «pensare in grande» e la forza straordinaria della sua capacità di realizzazione. Un uomo del fare, come ama spesso definirsi con civetteria tipicamente lombarda, ma che trae ispirazione e vigore da una innata energia vitale che è quella che gli ha dato quel carisma che tutti gli riconoscono, quell’autorità e quel prestigio che anche gli avversari gli invidiano. Anche in politica, anche a Palazzo Chigi, ha portato questa sua natura e se c’è un solo rammarico in lui, è proprio quello di non aver potuto realizzare tutto quello che aveva in mente. Di cose il suo Governo ne ha fatte tante. Furono trentasette le riforme di cui va giustamente orgoglioso e non si contano le decisioni e i provvedimenti adottati in cinque anni di Governo, l’unico Governo di legislatura della storia repubblicana. Ma certo gli equilibri della coalizione, le differenti visioni dei partiti di maggioranza, la continua mediazione tra posizioni e interessi diversi, il peso degli affari correnti, le resistenze della Pubblica Amministrazione, hanno spesso frenato la sua voglia di fare non consentendogli di realizzare appieno quel cambiamento dell’Italia che era nelle intenzioni e nei programmi e che aveva promesso agli elettori. Un lavoro lasciato a metà. Per ora...». Fin qui il lunghissimo e viscerale elogio di Letta a Berlusconi. Se non fossimo più che convinti del machismo berlusconiano e del suo pallino fisso per le donne, avremmo alquanto dubitato delle finalità recondite della sviolinata di Letta...

oggi, 30 anni fa


Lunedì 21 aprile 1978 la prima pagina de la Repubblica ospita la foto che forse è diventata la tragica icona del periodo del sequestro di Aldo Moro. Una foto divenuta nel tempo mostruosamente familiare, sintesi agghiacciante di una situazione che cristallizzava un momento di umana speranza (dato da quei pochi fautori della trattativa e dello scambio dei prigionieri ) a un altro momento, di parossistico dolore e di preventiva tragedia. Quello dell'annunciato omicidio del presidente della Democrazia Cristiana. Il comunicato numero 7 delle Brigate Rosse (il vero comunicato, non quello falso di Chicchiarelli) non lasciava adito a diversa interpretazione. Si chiedeva la liberazione dei prigionieri comunisti, in cambio della vita di Moro. "Lanciamo un ultimatum al governo di 48 ore per dare una risposta positiva. Se il governo non cederà, la condanna a morte verrà eseguita.I brigatisti si rifiutano di prendere in considerazione iniziative umanitarie, e ribadiscono di combattere per la distruzione di questo Stato". Così recitava un passo del comunicato brigatista. Sempre sulla stessa prima pagina, un editoriale come sempre senza firma (e quindi di Eugenio Scalfari) titolava così: "Sacrificare un uomo o perdere lo Stato". Ve lo riproponiamo. Sapevamo tutti, fin dall'inizio di questa orribile vicenda, che sarebbe arrivato il momento dell'ultimatum. C'era un'alternativa: che Moro rivelasse infami segreti e crimuni di Stato. Se lo avesse fatto - o perchè quei crimini di Stato esistono oppure inventandoli pur di aver salva la vita - i terroristi l'avrebbero certamente rilasciato, essendo la sua presenza da vivo assai più ingombrante che il suo cadavere. Ma Moro, evidentemente, non ha parlato. Perciò i terroristi hanno scelto la via dell'ultimatum, puntando sulla divisione delle forze politiche e sulla gravissima crisi che ne conseguirebbe. Il dramma di queste ore si svolge soprattutto nella famiglia Moro, alla quale deve andare il rispetto e la solidarietà degli italiani, e dentro la Democrazia cristiana. Ma sono ore gravi e impegnative per tutti. La decisione da prendere è infatti terribile perchè si tratta di sacrificare la vita di un uomo o di perdere la Repubblica. Purtoppo, per i democratici la scelta non consente dubbi. Così concludeva il suo editoriale Scalfari, che per la prima volta prendeva una netta posizione, a favore del partito della fermezza, di quelli cioè che non consentivano la possibilità di alcuna trattativa coi terroristi. Proprio perchè, altrimenti, si sarebbe andati incontro alla distruzione (non solo figurata) della Repubblica italiana.

domenica 20 aprile 2008

ha ragione Bice Biagi


Abbiamo letto un bellissimo articolo della figlia di Enzo Biagi scritto per il sito di Art.21 che ci trova perfettamente d'accordo. Bice Biagi definisce questo Paese "anormale" e a pensarci bene è così. Oltre che anormale è anche "anomalo" il nostro bel Paese, e non soltanto per la presenza di Silvio Berlusconi. Leggetevi il pezzo e riflettete insieme a noi. Buona lettura. Che questo sia un Paese normale non c’era davvero passato per la testa. Sarà normale, infatti, un paese che a distanza di due anni ribalta completamente il senso del voto, che fa prendere a Vergato, provincia di Bologna, il 7 per cento alla Lega, che ha un Presidente del Consiglio che ci aveva abituato a vedere le sue mani piegate a fare le corna ma non a simulare gli spari di una mitraglietta verso una giornalista, che si permette di definire la donna ‘domina’, nel senso che è meglio che stia a casa a tener caldo il risotto e magari il letto in attesa del suo padrone? No, francamente non è normale. Ma c’è qualcosa che rende l’Italia ancora diversa, per esempio, dalle altre democrazie occidentali continuamente richiamate a modello durante l’ultima campagna elettorale. Ed è la Rai. Sissignore: siamo in un mare di guai, un terzo dei cittadini si sveglia la notte con l’incubo della rata del mutuo da pagare, al mercato i pensionati non vanno più di buon mattino, ma scrutano tra i banchi verso l’una, quando gli scarti costano meno e c’è sempre un carciofo buono dimenticato sul marciapiede e un paio di mele che basta tagliarne un pezzo e poi, cotte, arricchiscono la cena. Parliamo poi dei nostri figli che, quando sono fortunati, cioè si sono conquistati una laurea e magari un master, hanno fatto il loro bel corso di inglese e maneggiano il computer come Bill Gates si ritrovano, a trent’anni, con l’angoscia che a giugno finisca il contrattino da 800 euro al mese e chissà a settembre, con la recessione, se qualcuno gliene darà un altro. A proposito, chi ha ragazzi in età scolare si prepari a spendere per i libri di testo perché l’onorevole Dell’Utri vuole cambiare quelli di storia: via la Resistenza, ridimensioniamo il 25 aprile e finiamola con le storie dei partigiani. Non è finita, perché nonostante le cordate del Cavaliere & C., la scure del fallimento Alitalia penzola sulla testa di migliaia di famiglie, il petrolio aumenta ogni giorno, mafia, camorra e ‘ndrangheta proseguono indisturbate le loro attività, scuola e sanità necessitano di riforme urgenti, eppure il grande problema della politica italiana è la Rai. Ma è possibile che, nemmeno ancora insediato, il nuovo governo si preoccupi e occupi dell’assetto di viale Mazzini, di chi dirigerà una rete, un telegiornale o un notiziario radiofonico? Non si era detto che la politica doveva scollarsi dall’azienda di stato e lasciare che facesse la sua corsa, magari cercando di battere lealmente, voglio dire con uomini capaci (indipendentemente dalle tessere o dalle cravatte verdi) e programmi intelligenti? Perché neanche messo un piede a Palazzo Chigi, il premier ricorda con un brutto aggettivo di triste memoria, ‘criminoso’, l’uso che a parer suo fa della tv Michele Santoro insieme con Marco Travaglio? Ma lo sa il Presidente Berlusconi che a molti italiani Santoro e Travaglio piacciono, anzi, li consolano? E poi, con tutto il daffare che ha, compreso organizzare i divertimenti da villaggio vacanze per i suoi amici statisti, che voglia ha, l’onorevole Berlusconi, di mettere subito le mani sulla Rai? Con tre reti di famiglia, abbia pazienza, non ci costringa a spendere per la parabola, per sintonizzarci sulla BBC o sulla CBS, che poi capiamo un decimo di quello che dicono, per sapere cosa succede davvero nel mondo e a casa nostra. Si ricorda, Presidente, Radio Londra? E’ ancora una sigla di triste memoria.